Riflessioni in pillole Rubriche

Si può buttare una vita?

Napoli, 18 Settembre – Le persone amano circondarsi di oggetti, di cose belle o non necessariamente tali, di monili, di utensili, di abiti, insomma di qualsiasi cosa che diano un senso di possesso, di appagamento. Tali beni, intessuti della vita di chi li ha posseduti, diventano libri da leggere, a volte tristi, a volte divertenti.

Questa estate mi sono ritrovata di fronte ad un vecchissimo cancello di ferro battuto, ed è stato così difficile inserire quelle vecchie chiavi nella serratura stanca, malandante e traballante, che custodiva quel vecchio cancello, che a sua volta proteggeva quella casa animata purtroppo solo di ricordi, preziosi, inestimabili, impagabili e così dolorosi. La mia casa d’infanzia, quella dove sono nata su un freddo tavolo da cucina come si usava una volta, che ha visto crescere me e i miei quattro fratelli, che ha osservato lentamente invecchiare i miei genitori e anche lasciare questa vita.

Mi chiedevo perché la mia mente che spesso è così distratta, fosse in quella occasione, così attenta e preparata. Facendo un passo indietro, quella monella, aveva riavviato i ricordi già dal fondo della strada facendomi battere il cuore mentre da lontano rivivevo quell’immagine fissa, muta ma così bella, così vera, così reale, che sorrideva felice in quell’angolo tra il muro di cinta e il famigerato cancello.

Ebbene quella porticina di ferro con molta fatica si era spalancata e si sarebbe richiusa solo a missione compiuta. Che compito ingrato. Svuotare una casa è come rivivere la perdita di una persona cara, è così doloroso, ma così necessario.

Come potevo buttare in neri, anonimi sacconi, la vita dei miei genitori? C’erano oggetti che consideravano reliquie, che non si erano mossi dalla loro postazione per più di sessant’anni.

La forza doveva prendere il sopravvento e placare il dolore che pulsava nelle tempie.

“Svuotare, svuotare, svuotare”, “riempire, riempire, riempire”, queste le parole che impazzite si alternavano nella mia mente. Non potevo permettermi distrazioni.

Nel cortile si era formata una piccola collina. Il Covid impediva l’utilizzo di indumenti altrui, seppur puliti, la Caritas non poteva più accettare nulla, dunque l’unica cosa fattibile era trovare dei cassonetti a cui regalare quella piccola, nera collina.

Il primo saccone fu il più duro, avrei voluto piangere, urlare, disperarmi ma non potevo, avevo un compito e dovevo portarlo avanti, e poi ero sulla strada e non potevo rendermi ridicola, anche perché questo mondo non accetta più il dolore, soprattutto a distanza di anni, soprattutto se le persone in questione erano “anziane”.

Mi passavano davanti agli occhi, come in un film, immagini di disappunto, di delusione, di dispiacere, conseguenza di un’educazione in cui ogni acquisto era impregnato di sudore, di sacrifici, di conquista. Dovevo spegnere quel film che si era acceso prepotentemente nella mia mente. Mentre col maniglione spingevo gli ultimi sacconi all’interno del cassonetto, inaspettatamente sentivo i miei genitori con me. Avevo la sensazione che una volta che la materia avesse smesso di parlare, si fosse fatta largo la memoria, quella che unisce nello Spirito.

Non ho più oggetti che raccontano, ho dato sepoltura a un pezzo di vita, un pezzo di noi, il più bello, quello che nonostante l’età che galoppa come un cavallo esperto, ti dava protezione.

Ho chiuso quel vecchissimo cancello, sono orfana di nuovo.

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