Riflessioni in pillole Rubriche

La casa delle fate abbandonate

Napoli, 12 Luglio – C’era una volta, tanto tempo fa, una fatina meravigliosa, talmente bella che in tante la invidiavano e avrebbero dato qualsiasi cosa per essere come lei. Era bella fatina Maurizia, ma un po’ sfortunata, la vita aveva tracciato per lei un sentiero irto di ostacoli, ma non aveva tenuto conto di una cosa, che la dolce e bella fatina, aveva un carattere d’acciaio e nulla poteva annientarla.

Un giorno mentre volteggiava su un fiore appena sbocciato, sulla lunga distesa di sabbia della terra pesarese, dove era nata, accadde qualcosa che sapeva dell’incredibile. La mamma che un istante prima era lì con lei, era sparita.

Spaventata iniziò a guardarsi in giro, confusa e con le lacrime agli occhi gridava: “Mammina, mammina mia, dove sei?”.

Aveva appena un anno la piccola Maurizia e non era ancora esperta nell’arte del volare, sebbene ciò, dispiegò le sue alucce ed iniziò a svolazzare in lungo e in largo. La sua mamma non poteva essere lontana, non poteva essere sparita così all’improvviso nel nulla, non poteva averla abbandonata su quella spiaggia assolata. Invece la mamma non tornò più.

All’imbrunire passò l’accalappia fate, la raccolse dalla corolla di un fiore inumidito dalle sue lacrime e la portò nella casa delle fate abbandonate.

Fu difficile crescere in quel luogo, le fate abbandonate crescendo si incattivirono e iniziarono a scagliarsi le une contro le altre.

Sua madre, quando ormai la fatina non ci sperava più, si rifece viva e la riportò per qualche mese a casa, ma non era più la mamma dei suoi ricordi ed era difficile viverci insieme, in più era circondata da elfi di dubbia fama; scappò via e ritornò nel luogo dove era cresciuta, ormai non le faceva più paura, anzi era diventato il suo rifugio. Si fortificò nel carattere e nell’anima.

 Il tempo passava e il ricordo della sua famiglia si era sbiadito a tal punto che non ricordava più di averne una. Il fato volle che suo padre e sua madre si riconciliassero e la famiglia si ricomponesse con l’aggiunta di un fratellastro che Maurizia non sapeva di avere.

“E vissero felici e contenti”, si scriverebbe a questo punto nelle favole, ma non nella vita, purtroppo. Altre peripezie, attendevano la povera fatina. Sua madre e il fratellastro, avevano problemi di alcolismo e non solo, in quella casa c’era un clima che avrebbe impaurito persino un diavolo, si viveva un vero inferno, l’infelice non vedeva l’ora di scappare via. Assetata d’amore e di un po’ di serenità, incontrò un elfo e sperò che con lui, la sua vita avrebbe cambiato rotta e così fu. L’elfo le diede un amore che durò poco, e lasciò nel suo grembo un dono prezioso: un figlio, poi sparì. La splendida fata, non si scoraggiò, era abbastanza forte per fare da madre e da padre. Non avrebbe mai portato il suo bambino nella casa degli elfi abbandonati.

Il 9 gennaio del 1973, nacque Mirko, era il riscatto ad una vita assurda, che non le aveva regalato altro che dolori. Lo guardava adorante, provava un amore così grande per quell’esserino, pensò a sua madre. Come aveva potuto abbandonarla? Non trovò una risposta, ma ormai non era più importante, faceva parte del passato. Ora voleva solo pensare al futuro con suo figlio. La sua vita era cambiata per sempre, le sembrava di vedere finalmente uno spiraglio di luce in fondo al tunnel.

La parola pace però, sembrava non appartenere al suo vocabolario, il suo piccolino non tollerava nessun tipo di latte, dovettero così trascorrere cinque mesi nell’ospedale delle fate. Fortuna che tutto si risolse per il meglio, non avrebbe potuto sopportare un dolore così grande, perdere suo figlio.

Era felice di fare la mamma, seppure giovanissima con grande responsabilità, lavorava e cresceva il suo piccolino, quando aveva due anni, incontrò un disertore, era scappato dal servizio di leva obbligatorio, tant’è che finì in prigione, ma lei che non aveva pregiudizi, se ne innamorò. Un giorno mentre stava andando a trovarlo, tra le sbarre che circondavano la prigione, vide un fiore bellissimo, un anemone giapponese, lo guardò e ne ammirò la bellezza, era così bello, delicato. Le vennero in mente i fiori della spiaggia dove era stata abbandonata, s’intristì.

“Cosa ci fa questo meraviglioso fiore così innocente, dietro le sbarre, insieme ai carcerati?”.  Si chiedeva la fatina mentre varcava la soglia di quel luogo così opprimente. Prima di entrare del tutto, si voltò ad osservarlo ancora ma, il fiore non c’era più. Si strofinò gli occhi, li spalancò ma nulla, dietro quelle sbarre che un attimo prima le avevano regalato la visione di quel fiore, c’erano solo erbacce. La guardia iniziò ad innervosirsi vedendo che la fatina sostava sulla soglia senza entrare. Le si avvicinò minaccioso, la povera fata, impaurita entrò.

“Cosa mi sta succedendo?”, si chiedeva spaventata.

“Adesso ho anche le visioni?”.

“Come mai ho visto quel fiore che mi riporta al passato e poi è sparito?”.

“Mi aspetterà un nuovo dolore, un altro abbandono?”.

Confusa si pose in attesa, la stessa guardia che l’aveva fatta entrare, andò a prendere dalla cella il disertore. La fatina era così giovane, bella, la guardavano tutti, carcerati in colloquio e guardie, si sentiva un po’ in imbarazzo. Vide arrivare il suo amore, gli sorrise, lui si sedette e le prese le mani.

“Fatina mia adorata, non ho dormito stanotte, non facevo che pensare a te, mi vuoi sposare?”.

La poverina ancora scossa e impaurita per l’accaduto di poc’anzi, a tale richiesta voleva scappare, invece acconsentì. Si sposarono in carcere, certo non era il luogo migliore per coronare il suo sogno d’amore, ma aveva imparato che era meglio accontentarsi. Uscito dal carcere iniziarono la loro vita insieme, fatina e Mirko, avevano finalmente una famiglia, si rasserenò.

Ahimè, il disertore però, aveva un carattere non consono al suo e un destino crudele volle che la storia si ripetesse, anche lui, come in passato la madre e il fratello, le dava grandi pensieri. Sopportava tutto per amore, Mirko aveva bisogno di un padre e quello era l’unico padre che aveva mai conosciuto. La fata di giorno sorrideva ma di notte, versava tutte le sue lacrime. Si sentiva di nuovo abbandonata al suo destino.

Gli anni passavano e il suo elfetto cresceva in bellezza, salute e bontà e questo la rendeva molto felice, era la ricompensa per tutti i dispiaceri che viveva quotidianamente. Mirko frequentava già le elementari, ed era una gioia andare a riprenderlo all’uscita della scuola. Era un gran chiacchierone, amava raccontare alla fatina tutto ciò che succedeva con la maestra e i compagni. Un giorno mentre ritornavano a casa, furono costretti a cambiare strada, la solita che facevano era chiusa, un tombino dal quale fuoriusciva del vapore, stava venendo controllato dai vigili del fuoco. Proseguirono per una viuzza laterale poco battuta, all’improvviso Mirko iniziò a urlare, mentre indicava col ditino un’abitazione.

“Mamma, mamma, qui abita la mia compagna di classe. L’altro giorno quando siamo andati col pulmino a fare visita al museo, la sua mamma era qui e ci ha salutati”.

La fatina sbiancò, quasi svenne, si aggrappò alla ringhiera, il cuore le batteva all’impazzata, le mani tremavano e la fronte grondava di sudore.

“Mammina che hai?”.

“Nulla amore, nulla”.

“Come nulla, sei così pallida”.

“È il caldo, per essere primavera, è una giornata davvero troppo calda”.

Rassicuratosi l’elfetto le lasciò la mano e iniziò a correre verso la sua amica che neanche a farlo apposta, era appena uscita dall’auto della mamma.

Maurizia non poteva credere ai suoi occhi, quel fiore che tanti anni prima aveva visto nel carcere, ora era lì davanti a lei nella casa dell’amichetta di Mirko.

“O mio Dio, cosa succederà adesso, quale altro dolore mi aspetta?”, si chiese con l’angoscia nel cuore.

Quel fiore era legato alla sua vita, alla sua infanzia, a grandi sofferenze, come l’abbandono della madre, la prigione spirituale che stava vivendo a causa dei vizi del disertore.

I bimbi si abbracciarono felici, la mamma gentilmente, li invitò ad entrare e a bere qualcosa di fresco.

La fatina non era abituata a tali gentilezze, ne rimase colpita e anche imbarazzata, timidamente accettò. Rinfrancati si congedarono per tornare a casa. La fata gentile raccolse un anemone e lo pose tra le mani di Maurizia.

“Ti dono questo fiore, è un anemone giapponese, per la delicatezza e fragilità dei suoi petali, viene chiamato anche fiore del vento”.

“Lo conosco, ha accompagnato tutta la mia vita”, tristemente disse la fatina.

“Ti auguro che porti via il dolore dalla tua vita e faccia rinascere in te la speranza”.

Quella speranza si chiamò amicizia e legò le due fate per sempre.

Maurizia perse la madre, il fratellastro, il padre e nonostante gli abbandoni, il dolore provato grazie a loro, li aiutò finché poté e li accompagnò fino all’ultimo respiro, per sua fortuna aveva accanto a sé la fatina gentile, la sua amica. Soffriva di tutti questi lutti, a tal punto che il suo corpo iniziò a risentirne ammalandosi e rischiando di morire più volte, ma per fortuna non accadde.

Il suo Mirko era ormai grande ed aveva iniziato la sua vita. Lei era rimasta sola col disertore che invecchiando, invece di redimersi, aveva consolidato ancora di più i suoi vizi. Forse se il destino non li avesse privati del bimbo in grembo che aspettava da lui, la loro vita sarebbe stata diversa. Questo purtroppo non lo avrebbe mai saputo, anche ciò le era stato impedito, essere di nuovo madre. Dovette privarsi dell’unico legame col suo passato, la casa dove era nata, fu costretta a venderla per pagare i debiti che aveva contratto per trasferirsi in un’altra. In quella nuova casa non era per nulla felice, diventava sempre più triste e lo divenne molto di più quando la sua carissima amica, volò via, così come i petali del fiore che le aveva regalato 38 anni prima. Stette talmente male che non riuscì neanche a darle l’ultimo saluto.

Ormai trascorreva la sua vita tra le mura domestiche, ogni tanto ricordava la casa delle fate abbandonate, la spiaggia dove venne ritrovata addormentata, la sua amica del cuore, il suo amato figliolo, le sue adorate nipoti.

Fata Maurizia era orgogliosa di sé, aveva resistito a tutte le tempeste, a volte agli uragani che l’avevano colpita violentemente, ma nonostante ciò non aveva mai perso la sua allegria, la sua voglia di vivere, la speranza, ma soprattutto non si era mai incattivita come le fate abbandonate.

Era proprio come l’anemone, il fiore che aveva caratterizzato la sua vita, che la fata gentile le aveva regalato.

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