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UNA STORIA…NON SOLO PARTENOPEA

Afragola, 5 Gennaio – Comprendere un soliloquio teatrale non è agevole per chi, come il sottoscritto, non è capace di recitare; ma, come da sempre ribadisco, è soltanto attraverso l’apprendimento che si può affrontare la vita d’ogni giorno con maggior cognizione di causa, perciò è mia abitudine dedicare le giornate apparentemente “libere” ad approfondire certi argomenti.

Sapendo che domenica 3 gennaio, alle ore diciannove, era in programma, dal Teatro “Gelsomino” di Afragola, la diretta streaming dello spettacolo Monte di Dio”, con l’attore Nico Ciliberti ed il musicista Giacinto Piracci, ho deciso – anche in virtù della stima che nutro verso le Istituzioni municipali dell’area a nord di Napoli, in particolar modo di quella Casavatorese -, mi son dato da fare per terminare ogni lavoro entro quell’ora, sì da poterla seguire con attenzione.

Il soliloquio in parola narrava una storia ambientata nel quartiere Napoletano di Monte di Dio, raggiungibile da via Chiaia con un ascensore (si fa per dire, perché è sempre fuori servizio!), che ha come protagonista un uomo che lavora sodo per garantirsi uno stile di vita dignitoso.

Il tempo di riassumere quanto Nico Ciliberti ha magistralmente narrato mi manca, dunque mi soffermerò brevemente su qualche particolare, ponendo in risalto la differenza tra la mentalità dell’epoca di ambientazione della vicenda e la visione attuale della realtà, specie per quanto attinente alla formazione dei giovani.

Orbene, nell’Italia di un tempo era piuttosto raro che taluno proseguisse gli studi sino alla quinta elementare: a causa del crescente tasso di povertà, nonché della totale indifferenza da parte dell’Esecutivo e del Legislatore, ci si fermava sovente alla terza, al termine della quale – se ben ricordo quanto illustratomi dai miei avi – si sosteneva un esame. La Legge Coppino del 1877 portò, sì, l’istruzione primaria da quattro a cinque anni, ma previde l’obbligo scolastico sino alla terza classe.

La totale sottovalutazione della potenza della cultura da parte delle Istituzioni, com’è ovvio, sortiva l’effetto contrario: i fanciulli, terminato il periodo dell’obbligo scolare, venivano impiegati in lavori decisamente massacranti per aiutare i propri genitori a sbarcare il lunario e poter pagare “o’ patron’ ‘e casa” (oltre, ovviamente, ad assicurarsi le vivande necessarie).

Questo era diffuso soprattutto a Napoli, dove diverse persone incontravano serie difficoltà ad esprimersi in Italiano: lo comprendevano, erano in grado di scrivere una breve lettera (od un pensiero), ma non lo parlavano correntemente. 

Ai piani alti dei palazzi Romani non si era ancora capaci di conferire la giusta pregnanza al settore della cultura e dell’istruzione; al contrario, il classismo ostinato di quel tempo spingeva all’assunzione di decisioni traccianti un’evidente linea di confine tra i “patrizi” ed i “plebei”.

Ancora oggi, tuttavia, il sistema scolastico vien posto in secondo piano da chi di dovere (salvo una breve parentesi di ripresa con la l. 107/2015, meglio nota come “Buona Scuola“): sebbene andare a scuola sia obbligatorio per la fascia d’età compresa tra i sei ed i sedici anni, le Istituzioni (e, conseguentemente, le Famiglie) ritengono la formazione un qualcosa di superfluo, di quasi inutile. Nulla di più falso, cari Lettori: l’apprendimento è l’unica arma da brandire per liberarsi dal giogo della povertà, tanto materiale quanto educativa.

Spero, dunque, che il nuovo anno sia teatro di riforme tese a garantire a ciascuno un’adeguata formazione, nonché di politiche sociali aventi il fine di incoraggiare i giovani a studiare.  

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