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Salerno, la commistione di ‘triviale’ e ‘sublime’ nel dramma di Rigoletto all’ombra di Shakespeare di Rosanna Di Giuseppe

Venerdì 6 maggio ore 21.00 Turno A. Domenica 8 maggio ore 18.00 Turno B – ORCHESTRA FILARMONICA “GIUSEPPE VERDI” DI SALERNO. CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI SALERNO – Nuovo allestimento del Teatro “Giuseppe Verdi” di Salerno

Salerno, 2 Maggio – Se il melodramma, citando Mila, è “una complessa espressione di sentimenti in moto”, Rigoletto è  la prima opera che ci pone di fronte ad un personaggio vivo di cui si descrive una compiuta dinamica della personalità  attraverso occasioni vissute secondo una verità scenica. L’opportunità di questo inaudito approfondimento psicologico veniva a Verdi dall’adozione di uno scandaloso soggetto, quello “di uno dei più grotteschi aborti della letteratura drammatica francese”, era così che <<L’Italia musicale>> (numero del 19 marzo 1851) definiva Le roi s’amuse di Victor Hugo.

Il ‘triviale’ e il ‘grottesco’ di questo dramma misti al sublime  avevano suscitato scandalo e censure in Francia e non mancarono di provocare notevoli problemi anche con la censura veneziana che in più momenti rischiarono di far naufragare la realizzazione dell’opera al Teatro La Fenice. C’è da dire che nel periodo di ideazione del nuovo lavoro per questo teatro, la mente del musicista era più che mai dominata dall’idea di Shakespeare e da una concezione drammatica fatta di contrasti, “di indugi e precipitazioni”, che era nell’aria di un romanticismo conforme a quello espresso dal Corso di letteratura drammatica dello Schlegel. Aveva infatti in mente di musicare un Re Lear, progetto a lungo perseguito ma, come si sa,  mai portato a termine. La prima volta che Verdi pensò a Le roi s’amuse quale soggetto per una sua opera fu per il San Carlo di Napoli successivamente alla Luisa Miller, ma la trattativa con il teatro napoletano sfumò e il dramma di Hugo fu ripreso in considerazione per Venezia in seguito al nuovo contratto con La Fenice, attraverso l’allora presidente degli spettacoli Carlo Marzari, da cui aveva ricevuto la proposta di una scrittura per la stagione 1850-’51. La trattativa fu portata a termine in aprile. Il librettista sarebbe stato  Piave.

Era sempre l’ideale drammaturgico rappresentato dal teatro shakespeariano a orientare l’attenzione verdiana verso quel così discusso dramma francese accolto con clamoroso scandalo nel novembre del 1832 al Théâtre Français, tanto che all’indomani della prima rappresentazione fu subito messo all’indice per essere nuovamente rappresentato a Parigi soltanto nel 1882.

Tribolet, questo il nome del buffone di corte nell’originale francese, aveva quella stessa grandezza e complessità dei personaggi del drammaturgo inglese e Verdi lo scriveva decisamente al suo librettista: <<Oh Le roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Tribolet è creazione degna di Shakespeare!! […]>>(Lettera dell’8.5.1850).

Piave sembrò ottenere sufficienti rassicurazioni dalle autorità costituite tanto che Verdi si mise al lavoro. Si pensò eventualmente di intitolare l’opera La maledizione di Saint-Vallier, accorciato poi ne La maledizione. In giugno Piave e Verdi, mentre vi era ancora in allestimento Stiffelio per Trieste, discutevano sulla maniera di impostare il dramma, ma in agosto arrivarono le prime avvisaglie circa la disapprovazione della Direzione d’Ordine Pubblico. L’irriverenza del soggetto che presentava un re libertino, l’oscenità di alcune scene, la trivialità del personaggio principale brutto e deforme, la fama repubblicana di Hugo condussero in dicembre al completo divieto. Ci fu bisogno di un notevole lavoro di diplomazia per aggirare tutti gli ostacoli e ottenere infine l’approvazione della censura con una serie di modifiche in cui tuttavia Verdi riuscì a spuntare la sostanziale fedeltà all’essenza dell’originale, pur trasferendo l’azione da una corte a un Ducato, quello di Mantova, cambiando i nomi dei personaggi, eliminando la scena della camera da letto e smussando altri aspetti scandalosi più evidenti. L’opera fu ribattezzata con il nome del protagonista Rigoletto e in gennaio poté ritornare “sana e salva” alla Presidenza della Fenice “senza fratture o amputazioni” (Piave), anche se non mancarono altri problemi con la censura di altri stati in cui l’opera fu data dopo la prima e il successo veneziani.

 Rigoletto andò in scena l’11 marzo 1851 alla Fenice di Venezia. Se ne fecero quattordici rappresentazioni prima della chiusura della stagione avvenuta il 31 marzo. Il successo fu quasi unanime, malgrado lo sconcerto per le novità provocato in alcuni critici. Così si esprimeva all’indomani della prima rappresentazione la «Gazzetta ufficiale» di Venezia (12 marzo 1851): “[…] Ieri fummo come sopraffatti dalle novità: novità o piuttosto stranezza nel soggetto; novità nella musica, nello stile, nella stessa forma dei pezzi […]”.

L’autore già dal Macbeth si era dimostrato progressista nell’affiancare quell’élite ristretta di intellettuali che nell’Ottocento ammirava il teatro di Shakespeare, abbastanza poco praticato e conosciuto in Italia ancora negli anni Quaranta. La relazione con Shakespeare, per quanto riguarda il Rigoletto, consisteva in particolar modo nella commedia attirata nel campo della tragedia. Non a caso fu proprio l’interferire del progetto del Re Lear con Le Roi s’amuse, in un primo momento accantonato per Napoli, a gettare evidentemente nuova luce su quest’ultimo. Entrambi i drammi sono basati sulla paternità e sulla centralità della figura del buffone. Non a caso Julian Budden accenna provocatoriamente al Rigoletto come ad un  Re Lear  mancato. Per Verdi era il realismo il motivo di interesse della fusione dei generi e l’effetto drammatico che ne derivava. La mescolanza di “commovente” e di “basso”, di “grave” e di “burlesco” era nella realtà stessa. Il musicista aveva individuato nel soggetto del Rigoletto una “varietà di effetti” di cui era entusiasta, varietà data dalla ricchezza di contrasti della trama che gli permetteva di accostare e in alcuni casi  sovrapporre comico e tragico in maniera assolutamente nuova nel teatro musicale: “A me pare che il miglior soggetto in quanto ad effetto che io mi abbia finora posto in musica (non  intendo parlare affatto sul merito letterario e poetico) sia Rigoletto. Vi sono posizioni potenti, varietà, brio, patetico…”.

Così scriveva ad Antonio Somma retrospettivamente, in una lettera del 22 aprile 1853. Ed egli ci tenne a conservare tutti i punti di scena del dramma vittorugano. Lo si vede fin dall’esordio dell’opera laddove il sipario si apre, sulle ultime note tragicissime del preludio, per consegnarci con effetto sconcertante al “deflagrare della musica per banda” della festa a palazzo. Sono presenti tre gruppi strumentali: un’orchestrina in scena (costituita di soli archi) di reminiscenza mozartiana (Don Giovanni), cui è assegnata l’esecuzione di un minuetto e di un perigordino, una Banda interna di fiati e l’Orchestra normale. Tale Introduzione è pertanto concepita acusticamente secondo tre piani che si alternano fino a risuonare insieme nel concertato precedente l’ingresso di Monterone.

Tutto l’inizio del primo atto, come fa notare Budden, fino all’apparizione di Monterone, è scritto nel linguaggio dell’opera comica “inserito però nel più ampio contesto della tragedia a sua volta approfondito dal contrasto”. La dialettica di questi due livelli si protrae lungo l’intero svolgimento del dramma, spesso con una divaricazione di significati tra contenuto e forma e con una utilizzazione assolutamente rovesciata, in senso semantico, delle forme convenzionali del melodramma ottocentesco. Si pensi alla beffa dei cortigiani alla fine del primo atto (“Zitti, zitti), il “La rà, la rà” con cui Rigoletto entra in scena nel secondo, prima di abbandonarsi alla disperazione o ancora alla valenza negativa di una forma “entusiastica” come la cabaletta nel “Cortigiani vil razza dannata” in cui esplode il buffone ormai privo di maschera. Il culmine della sovrapposizione di tali due livelli stilistici è dato dal capolavoro del quartetto vocale del terzo atto in cui per dirla con Weiss, “due personaggi sono in preda alla disperazione, mentre gli altri due stanno facendo baldoria” di modo che il comico scorre sopra il tragico.

Hugo inoltre interessava a Verdi per i “caratteri potenti, appassionati e soprattutto originali” (Lettera a De Sanctis del 16 maggio 1853). Lo aveva colpito con forza il personaggio del buffone, “estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore” (Verdi a Marzari, 14.12 1850). Egli campeggia su tutti gli altri personaggi che sono solo funzionali al compiersi della sua personalità. In contrasto con lui, risalta il carattere leggero e libertino del Duca, il classico seduttore che si esprime appieno fin dall’esordio dell’opera in un pezzo  lontano dalla consueta cavatina, una ballata strofica (quattro quartine di endecasillabi) in 6/8, “Questa o quella per me pari sono”, che offre già un ritratto calzante dell’avventuriero in amore, in uno stile sillabato con accompagnamento di accordi “pausati e ribattuti”, due per due, come di mandola. Nel ‘potente signore’ Verdi individuò con acume l’origine di tutte le peripezie dell’opera: “[…] i timori di Rigoletto, la passione di Gilda ecc.,che formano molti punti drammatici eccellenti, e fra gli altri la scena del quartetto, che in quanto ad effetto sarà sempre una delle migliori che vanti il nostro teatro” (Lettera ad Antonio Somma del 22 aprile 1853).

È un seduttore che in alcuni momenti mostra quasi di credere alle sue passioni e che, d’altronde, a differenza di Don Giovanni, rimane impunito a continuare con successo le sue scorribande.  Il risuonare agghiacciante, dopo il sacrificio di Gilda, dell’altra canzone frivola che lo caratterizza nel terzo atto, “La donna è mobile”,  svela a Rigoletto la dura realtà: il colpevole non è morto e nel sacco vi è proprio sua figlia. Il personaggio più lirico e puro della vicenda è quello di Gilda, l’unico mosso esclusivamente dall’amore, che si sacrifica per l’uomo che l’ha sedotta, posponendo a quest’amore perfino l’affetto filiale verso un padre che vive unicamente per lei. La sua purezza si esprime nella vocalità di un soprano di coloratura manifestata, ad esempio, nella sua prima ed unica aria, “Caro nome”, in cui ricama fantasiosamente ornamenti sul nome dell’amato, con un tipo di “fioritura vocale” che assume valore introspettivo. Il Saint-Vallier dell’originale hughiano diventa Monterone, personaggio che come nel dramma di origine conserva poche battute, ma che ricopre un ruolo fondamentale nello svolgimento drammaturgico e nell’evoluzione della coscienza del protagonista.

Egli per primo, padre addolorato e offeso dal Duca che gli ha sedotto la figlia, è il portatore di quella “maledizione”( prima pregnante ‘parola scenica’ verdiana) in cui Verdi individuò immediatamente il motore propulsivo di tutta l’azione. A completare il quadro dei personaggi due esponenti da bassifondi, Sparafucile e Maddalena. Il primo, il sicario di professione, a cui Rigoletto si paragonerà, riflettendosi come in uno specchio (“Pari siamo” del secondo atto), offre l’opportunità di un duetto straordinario del baritono e del basso che si incontrano in una cupa notte, svolgendosi  nello stile del “parlante” delle antiche opere comiche, vale a dire in un’ asciutta declamazione vocale, mentre tutto l’interesse melodico è in orchestra. In esso le voci non si sovrappongono mai, svolgendo un vero dialogo. Qui il grottesco della profferta omicida di Sparafucile nel tono di un’onesta trattativa commerciale, è sottolineato dal carattere suadente e accattivante della musica che prende l’avvio da un violoncello con sordina e un contrabbasso sull’accompagnamento pulsante dei fiati e del pizzicato degli archi. 

Maddalena, sua sorella, agisce come esca in una locanda per coloro che il fratello dovrà uccidere. È presente unicamente nel terzo atto, prestando la sua voce di mezzosoprano al mirabile quartetto in cui si realizza in musica una perfetta caratterizzazione di quattro individualità attraverso distinte unità melodiche date in un assieme. Vi è infine l’insieme dei cortigiani riuniti in una sorta di “clan” costituito da solo coro virile.

Per quanto riguarda la concezione e la struttura dell’opera, in Rigoletto Verdi inaugura per la prima volta compiutamente un procedimento compositivo che rimarrà sostanzialmente in vigore fino all’Aida. È un’opera emblematica dell’unitarietà di ispirazione verdiana e della grande organicità delle sue creazioni. Il compositore parte da un’intuizione, da un “nucleo primigenio” che poi esplode nel corso della creazione. Verdi era consapevole della rivoluzionarietà della sua realizzazione: “ […] ho ideato il Rigoletto quasi senz’arie, senza finali, con una filza interminabile di duetti, perché così ero convinto” (Verdi a Borsi, lettera dell’8.9.’52).

Colpiscono inoltre la rapidità e la concisione con cui si avvicendano le situazioni e l’inarrestabilità del divenire di Rigoletto. Egli trascorre dalla leggerezza della commedia del quadro iniziale del primo atto in cui sbeffeggia i cortigiani gettando le basi per il desiderio di vendetta di questi ultimi, alla paura e alla pensosità che seguono alla maledizione ricevuta da Monterone, alla tenerezza paterna nell’incontro con Gilda, quindi alla sorpresa e alla disperazione che seguono alla beffa subita, e infine al completo smascheramento nel secondo atto, dopo l’ultimo scherzo della commedia, quel “La rà, la rà” che non convince più nessuno in cui il personaggio emerge in tutta la sua grandezza shakespeariana. Da quel momento  Verdi descriverà progressivamente l’abbandono del personaggio allo strazio, alla vendetta e al dolore attraverso cui si compie la completa umanizzazione del buffone. La maledizione dà inizio al primo affondo nella coscienza, che si esprime in quella consapevolezza dell’emarginazione e dell’ingiustizia della propria condizione.

È la maledizione a provocare un brusco cambio di registro con un taglio netto scenico e musicale, pur rimanendo l’atto unitario grazie a procedimenti squisitamente musicali. I singoli pezzi rispondono a un preciso piano architettonico, in un continuum melodrammatico che procede senza soste dall’inizio alla fine. Un esempio del massimo contenuto narrativo di ciascuna concisa unità formale di tale magistrale architettura è offerta dal penultimo brano dell’opera, la Scena, Terzetto e Tempesta, tra Maddalena, Sparafucile e Gilda, che decide della sorte di quest’ultima, in cui è difficile stabilire dove finisce la scena e dove comincia il terzetto vero e proprio. È un brano che cresce su se stesso, attraverso inserzioni strumentali e vocali anche brevi e discontinue, in un aumento progressivo della tensione che culmina nella “violenza sonora” della tempesta, espressione fisica della sofferenza morale dei personaggi. Elemento connettivo dell’intero brano è rappresentato da quel tremolo d’archi cui segue un coro a bocca chiusa, intonato dietro la scena, che svolge un disegno cromatico per terze, un frammento vocale e strumentale di quattro battute che salda insieme le singole sezioni.

La suprema unità è sancita infine dal ritorno del tema cardine della maledizione (il tema in do minore che abbiamo ascoltato fin dall’esordio del Preludio) alla conclusione del terzo atto, in cui Verdi rinuncia alla possibilità di un concertato che pure gli veniva offerta dall’originale dramma francese, per definire la tragedia con l’ultimo grido disperato del buffone (“Ah! La maledizione”), questa volta in re bemolle minore. Rapporto di tonalità non casuale, in quanto era quello già intercorso tra l’inizio e la fine della scena di Monterone nell’Introduzione, a riprova ulteriore della perfetta organicità della creazione verdiana. Forse è per questo che l’autore non esitò a ritenersi profondamente soddisfatto di tale opera, considerandola una delle sue più riuscite. Questa perfezione formale in rapporto all’idea drammatica ha spinto Alberto Savinio a considerare il Rigoletto, esaltandone l’essenza estetica fatta di ritmo, scorrevolezza, stringato divenire, “ un puro gioco tragico” che prepara il Falstaff, malgrado sia apparentemente una delle opere più “ingrommate di umano” e più “ancorate al pathos”.

Rigoletto un dramma di emarginazione. Crediamo che il messaggio fondamentale che Verdi affida a quest’opera sia la più totale mancanza di speranza nella giustizia umana: siamo condannati a difenderci dai nostri simili, a nascondere ogni nostro momento di felicità per timore che l’invidia lo voglia distruggere.

Si finge di essere amico della vittima prescelta per poterlo punire e vessare in modo ancora più crudele.

Il dramma dell’incomprensione, del bullismo, della prevaricazione, della diversità e della viltà: gli uomini sono fondamentalmente meschini e codardi e si riuniscono in gruppo per sentirsi meno deboli.

Quando il branco decide la vittima, nulla li può fermare. La diversità, l’eccezionalità disturba, rende il gruppo anonimo, e perciò va stigmatizzata ed eliminata.

Una riflessione amara e fortemente autobiografica dove Verdi si identifica nel gobbo deriso da tutti, nel mostro, nel fenomeno da circo che viene continuamente dileggiato, che si illude di essere accettato diventato a sua volte implacabile aguzzino di altri emarginati, che non ha redenzione, che non è fortunato. Rigoletto è prudentissimo e circospetto nella sua vita privata. Impedisce ogni movimento alla figlia, ma ciò nonostante il destino è in agguato ed ineluttabilmente fa incontrare il duca e Gilda.

Il duca fastidiosamente fortunato e vincente, rappresenta la cecità del destino, a cui destina ogni vittoria nonostante la sua meschina condotta: seduce le adolescenti per puro gusto sadico di rovinare loro la vita, gioca crudelmente con i loro sentimenti senza alcuna pietà. Viene beffardamente risparmiato dalla morte, che sadicamente prende Gilda, martire consapevole e senza alcuna speranza di dimenticare il duca.

Noi possiamo solo assistere impotenti alla classica tragedia che si svolge inesorabile e senza alcuna possibilità di lieto fine: l’incredibile perfezione del meccanismo teatrale del libretto ci travolge e ci sconvolge: Passiamo da un iniziale fastidio verso questo prolisso e volgare gobbo, ad una totale adesione al suo punto di vista. Gilda ci viene presentata come una ragazza normale che flirta con un suo coetaneo, mentre poi assume la dimensione eroica della vittima predestinata e cosciente. La vicenda precipita alla fine del primo atto e gli stessi personaggi si rivelano molto diversi da quello che Verdi ci aveva fatto credere nelle prime scene. Rigoletto è un dramma della complessità dell’animo umano, della impossibilità di potere prevedere la realtà delle intenzioni altrui: una gigantesca farsa umana dove nessuno è sincero, dove ciascuno finge di essere un altro e dove alla fine la realtà beffa sempre l’emarginato.

Verdi è straordinario perché non ci lascia alcuna speranza, ci prende a schiaffi, ci urla in faccia la verità, la crudeltà del destino, il cinismo del caso, l’assoluta insensatezza della nostra vita, l’assoluta incapacità dell’uomo di elevarsi e decidere il proprio destino. Per i protagonisti verdiani non c’è salvezza, non c’è giustizia, non c’è fortuna, non c’è vendetta.

Come per Verdi stesso, che per tutta la vita si è sentito diverso, quando povero aveva un talento straordinario per la musica e quando da famoso continuò a sentirsi non accettato, emarginato dai suoi compaesani che non accettavano la sua seconda moglie. Si ritira in campagna perché solo tra i contadini riesce a trovare pace e riesce a sentirsi al riparo, sicuro, protetto dalla malvagità insita nell’animo umano.

Pertanto vogliamo rendere bruciante ed evidente questo gioco delle parti, questa lenta agonia che il carnefice infligge alla vittima, poiché non ci resta che la lealtà verso il pubblico. Dobbiamo fare capire che non c’è mai amor vero nel duca, amicizia nei cortigiani, e che in fondo anche il rapporto tra padre e figlia non è cristallino. La stessa

Giovanna, si fa corrompere senza esitazione, pur essendo la vera custode di Gilda. La vicenda è dolorosa e crudele e noi dobbiamo renderla tale, evitando qualsiasi consolazione dubbio di umanità.

In questi tempi di guerra, credo che cercare di capire la complessità dell’animo senza scorciatoie consolatorie possa darci una boccata di ossigeno. La verità, per quanto dolorosa è sempre preferibile a qualsiasi menzogna e sforzarci di vedere la cruda realtà ci permette di crescere e capire che ogni minima nostra azione può essere vitale per l’altro. Vorremmo che attraverso Rigoletto e i suoi disumani personaggi, potessimo ritrovare la nostra umanità e cercare di essere più sinceri, più corretti, più leali, più misericordiosi.

RIGOLETTO

Musica di Giuseppe Verdi

Melodramma in tre atti

Libretto di Francesco Maria Piave

Tratto dal dramma storico di Victor Hugo, Le roi s’amuse

Prima rappresentazione, 11 marzo 1851, Teatro La Fenice, Venezia

Direttore d’Orchestra, Daniel Oren

Regia, costumi e light design Massimo Gasparon

Maestro del coro, Tiziana Carlini

Scene, Alfredo Troisi

Assistente al direttore d’orchestra Gaetano Soliman

Il Duca di Mantova, Valentyn Dytiuk

Rigoletto, Juan Jesus Rodriguez

Gilda, Caterina Sala

Sparafucile, Carlo Striuli

Maddalena, Martina Belli

Giovanna, Victoria Shereshevskaya

Il Conte Monterone, Maurizio Bove

Marullo, Angelo Nardinocchi

Matteo Borsa, Enzo Peroni

La Contessa di Ceprano, Miriam Artiaco

Il Conte di Ceprano, Luigi Cirillo

ORCHESTRA FILARMONICA “GIUSEPPE VERDI” DI SALERNO

CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI SALERNO – Nuovo allestimento del Teatro “Giuseppe Verdi” di Salerno

Massimo Gasparon

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