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L’Ambiente meridionale perderà 1,2 milioni di abitanti se non trova un proprio sviluppo ambientale sostenibile

Napoli, 21 Agosto – L’ambiente studia l’insieme di natura e cultura, dunque anche aspetti sociali ed economici di un territorio. L’Ecologia Umana studia l’ambiente in modo multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare. Essa suggerisce di non allarmarsi nel vedere diversità ambientali, che sono ovunque nei terrori statali (dei 196 Paesi esistenti oggi nel mondo), anzi sono da valorizzare. Ne consegue che non dobbiamo necessariamente analizzare e giudicare il Mezzogiorno d’Italia più negativo o più positivo rispetto all’ambiente del Nord della penisola. L’ambiente naturale del Sud Italia, esteso 123kmq e con 20,5 milioni di residenti, è meno favorito per la morfologia territoriale con pochissime aree pianeggianti (poche pianure ad eccezione della pugliese, quella maggiore, e piccole valli interne) e le scarse risorse idriche. Pur essendo l’ambiente economico-sociale del Sud Italia tipico di un’economia più attardata rispetto all’ambiente Settentrionale, il Mezzogiorno ha più profonde radici storiche e mitologiche del settentrione, che si rifanno alla cultura greca, latina e bizantina. Le relazioni che escono ed entrano nel complesso ambiente meridionale sono di più difficile stima e con meno indici numerici possibili. Comunque non c’è un Paese al mondo che non abbia ambienti diversi, nel proprio territorio, per tempi di sviluppo ambientale. Il problema però non è solo il divario economico con un Pil meridionale di circa la metà di quello settentrionale, ma l’ambiente sociale alterato al Sud con eccesso di sudditanze rispetto alle libertà del cittadino garantite dalla Costituzione. Tra le città meridionali Napoli rappresenta per molti la stella polare dell’intero Mezzogiorno, città anche ricca di contraddizioni e di una base popolare più composta di sudditi che di cittadini. Napoli con la fascia delle cittadine periferiche ha quasi 4 milioni di residenti e la più alta densità demografica non solo italiana. La città è stata ieri più di oggi centrale nella cultura europea e mondiale. Di essa attualmente emerge di più l’ambiente sociale patologico che fisiologico, purtroppo. Sulle sudditanze, vassalifere moderne direi, fanno leva spesso il malaffare e le mafie come anche patologici feudi elettorali con voti di scambio diffusi. R. Carlini, sul media Internazionale, il 12 c.m. scrive. ”La decontribuzione per le assunzioni nel mezzogiorno d’Italia è la parte più consistente del decreto approvato dal governo il 7 c. m.. in attesa della pubblicazione del decreto, è che ci sarà uno sgravio del 30% sui contributi pensionistici alle imprese che operano nelle “aree svantaggiate”, definite sulla base dei criteri della politica di coesione europea: un prodotto pro capite inferiore al 75% della media nell’Unione europea e un tasso di occupazione inferiore alla media nazionale. Dunque, tutte le regioni del mezzogiorno: Abruzzo, Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna. La misura è annunciata come strutturale: dovrebbe durare fino al 2029, con andamento decrescente dello sgravio. È una manovra quasi decennale, quindi diversa dalle decontribuzioni limitate del passato, come lo sgravio contributivo di tre anni dato dal governo Renzi alle imprese che assumevano a tempo indeterminato nel 2015, o le decontribuzioni selettive, come quelle per le assunzioni di disoccupati di lunga durata e Neet (giovani che non si stanno formando e non lavorano). Il costo stimato per quel che resta del 2020 è di un miliardo, il che porta a ipotizzare all’anno sarà sui 4-5 miliardi.

Una cifra considerevole, una delle più consistenti fra quelle elargite durante e dopo la crisi sanitaria. Quella che affronta un problema strutturale e storico dell’economia italiana – la questione meridionale – e dunque solleva due domande: basta tagliare il costo dei contributi previdenziali per ridurre il divario territoriale? E chi pagherà questa misura? Qualche giorno fa proprio il ministro per il sud e la coesione territoriale, B. Provenzano, autore della proposta, ha pubblicato un post su Facebook per celebrare i 70 anni della Cassa per il Mezzogiorno, contro la “riduzione a caricatura” di una “storia di successi e fallimenti”, nel quale rivendica lo spirito dei fondatori e, pur non nascondendo degenerazioni e abusi, i risultati positivi per l’industrializzazione e l’avanzamento del sud. In confronto all’investimento diretto dello stato – il paragone è con la Tennesse valley authority durante il New deal americano degli anni trenta – lo sgravio del 30% del costo del lavoro per le imprese è una piccola cosa, e lo stesso Provenzano non manca di ripetere che è solo una parte del “piano per il sud”.  È vero che la stessa politica europea prevede gli aiuti per le aree in maggiore difficoltà; ma è altrettanto vero che il piano italiano porterebbe all’istituzione di una sorta di grande zona speciale, al cui interno c’è una fiscalità di vantaggio. Un’eventualità non nuova per l’Europa, si pensi al Portogallo con la sua politica fiscale per attrarre i pensionati europei, o alle varie zone economiche speciali che già ci sono nella stessa Italia e in Europa, ma inedita nella sua estensione. Forse per questo i dettagli del decreto devono essere ancora resi noti. È probabile che l’estensione della misura oltre il 2020 richiederà una trattativa serrata con Bruxelles. Le modalità di attuazione dovranno sciogliere anche altri dubbi rilevanti sui beneficiari. Per esempio: un’azienda potrà chiudere uno stabilimento nel nord dell’Italia per delocalizzare al sud? La Fca potrà spostare una linea produttiva da Mirafiori a Melfi, godendo di vantaggi contributivi? Lo sgravio varrà anche per i lavoratori in proprio, per le partite iva? Come dimostra la vicenda del bonus di seicento euro di cui hanno approfittato persone che non ne avevano bisogno, si tratta di dettagli di cui tenere conto. La Questione Meridionale (QM) è ancora in alto mare per una possibile soluzione, anzi sembra prendere ancora più il largo. Terminata la transumanza tra l’Abruzzo e la Puglia con un paesaggio meridionale plasmato da quella economia e società, che richiama la poesia dannunziana, il Mezzogiorno attuale ha problemi di dipendenza maggiori di allora.

Le statistiche sullo sviluppo del Mezzogiorno le cura l’Associazione Industriale del Mezzogiorno, Svimez. Il quadro che emerge dalle anticipazioni del rapporto Svimez segna una tendenza di abbandono del Mezzogiorno, dove la ripresa dei flussi migratori è “la vera emergenza meridionale, che negli ultimi anni si è via allargata anche al resto del Paese”. Un paese spaccato, un Sud svuotato dall’emigrazione di migliaia di giovani e laureati. Il rapporto della Svimez, già nel passato  riportava all’onore delle cronache i problemi, le forti insufficienze, i ritardi e le specificità che affliggono il Sud Italia. Sulle cause iniziali che determinarono il sorgere o l’amplificarsi del divario nord-sud vi sono pareri assai diversi.

C’è chi vuole vedere nel momento dell’unificazione politica le necessità di bilancio che spinsero il Governo a preferire tra i vari ordinamenti fiscali il più redditizio, e, il più gravoso: quello del Regno dei Savoia, esteso da un giorno all’altro a tutta l’Italia, in aperto contrasto, specialmente, con quello del Regno di Napoli che, d’un tratto, si trovò a passare da un’imposizione fiscale leggera, ad una pesante. Ma questo vale anche oggi tra Paesi ad economia avanzata ed attardata, nei secondi i servizi statali sono scadenti e le tasse sono minori.  Le industrie italiane si de localizzano in Paesi a minore tassazione, ma con servizi sociali più scadenti. Esempi sono la Turchia, l’Egitto, la Moldavia, ecc.. L’unificazione italiana fu considerata quasi alla stregua di un affare coloniale, con l’esplicita alleanza tra il capitale degli invasori e il patrimonio dei possidenti colonizzati. Alleanza che continuerà purtroppo sotto altre forme e con altri protagonisti anche negli anni della Repubblica. Ma ciò che emerge con nitida chiarezza, soprattutto dal dopoguerra ultimo ad oggi è il fatto che le sorti del Mezzogiorno sono intrecciate con quelle del Paese, ma che del Mezzogiorno non si tiene conto a sufficienza quando si prendono le grandi decisioni nazionali: dalla scelta europea, all’abolizione delle gabbie salariali, dello statuto dei lavoratori, all’ingresso nello Sme, a Maastricht. In altri termini, le scelte strategiche di modernizzazione del Paese finiscono per trasformarsi in forzature per l’economia del Sud, in mancanza di un’adeguata società civile, che attua diffusamente l’art. 4 della Costituzione. Problema antico e irrisolto, dunque quello dell’ambiente socioeconomico Mezzogiorno d’Italia. Nei 160 anni di vita dello Stato unitario la QM è stata sempre presente nella vita economica, sociale e politica del Paese, attraverso tutte le forme di governo: centriste, centrodestra e centrosinistra. I suoi termini sono più volte cambiati, e anche radicalmente. Ma è opinione di chi scrive che l’Ambiente sociale ed economico del Mezzogiorno nello Stato unitario, nonostante le attese deluse, sia stato comunque uno di più dinamici dell’area mediterranea, e sicuramente migliore di quello che sarebbe stato se avesse continuato a svolgersi nell’isolamento “tra l’acqua santa e l’acqua salata” di borbonica memoria. Invocata, rivendicata, brandita, vituperata… si sprecano gli aggettivi per la QM: questione più discussa e irrisolta della nostra storia contemporanea, vale a dire la serie di problemi economici, sociali, antropologici e politici che fanno l’Italia incompiuta. Tra le tante Italia esistenti, due normalmente, sono quelle che vengono messe a confronto: il Mezzogiorno e il Centro Nord, con forti disomogeneità al loro interno. Ebbene, nonostante la semplificazione e l’appiattimento delle medie queste due o tre «Italie» (C. Muscarà scrive di 3 Italie), dopo oltre 40anni di intervento straordinario e a 159 dall’unificazione, sono ancora molto distanti, quasi due mondi, con molto poco in comune.  Se le diversità esistono e sembrano persistenti, tuttavia dal dopoguerra ad oggi molto è anche cambiato: il Pil per abitante è più che quadruplicato; l’incidenza degli occupati in agricoltura discesa dal 56% al 15%. E anche se l’incidenza degli occupati nell’industria in senso stretto è rimasta ferma al 13%, gli addetti alle unità locali superiori alle cento unità sono triplicati e la produttività media è oggi otto volte quella del 1951. La rete stradale è più che raddoppiata, e la sua qualità è enormemente migliorata.

La disponibilità giornaliera di acqua per abitante è passata da 80 a 350 litri. Il numero di abitanti per stanza è diminuito da quasi due a meno di uno. Sono scomparse le abitazioni prive di servizi igienici e di elettricità. Gli scritti alla scuola dell’obbligo che, nel 1951 erano il 70% degli obbligati, oggi sono il 100%. Gli iscritti alla secondaria superiore, che nel 1951 erano meno del 10% dei ragazzi di 14-18 anni, oggi sono il 60% (Cafiero, 1992); in quasi ogni provincia del Sud oggi esiste una sede universitaria. Traguardi importanti, ma non sufficienti a spezzare la dipendenza economica dell’area, dai consumi tendenzialmente convergenti con il Nord, ma supportati da attività economiche in gran parte protette dalla concorrenza nazionale e internazionale e condizionate da appalti e forniture assegnati con criteri diversi da quelli del confronto concorrenziale. Area la cui domanda è soddisfatta da un ingente ammontare di importazioni nette, finanziate in gran parte attraverso l’eccedenza della spesa pubblica sui prelievi, e con un eccesso di risparmio non impiegato in loco, a causa dell’inefficienza del sistema bancario locale e, al solito, della mancanza di imprenditorialità non assistita. Certo il Sud consuma di più di quanto produce, ma questo era vero anche per il passato. Ma perché ora la cosa sembra insopportabile a tanta parte dell’opinione pubblica nordista? Forse perché per molti anni i ritorni che il Nord ha tratto dalla spesa pubblica a favore del Mezzogiorno sono stati superiori ai maggiori oneri fiscali sostenuti per finanziarla. Ma quando il processo di integrazione europea ha reso i vincoli finanziari più stringenti e più acute le esigenze di investimenti intensivi a difesa della competitività delle nostre produzioni la dipendenza economica del Mezzogiorno è divenuta sempre meno sostenibile per il resto del Paese fino ai fenomeni politici bossiani e di altre leghe che chiedevano la separazione o autonomia, poi rientrata con la sola richiesta di federalismo in primis quello fiscale fino al 90% come dice L. Zaia che governa il Veneto e si ricandida per il terzo mandato con liste che lo scavalcano a destra mentre quelle a sinistra difficilmente superano il 20% dell’elettorato regionale. Ecco perché il Nord non accetta più né la politica meridionalistica, ormai considerata come una spesa peggio che improduttiva, né il meridionalismo, che tale politica richiede: e sembra talvolta disposto a rifiutare la stessa unità nazionale, pur di sottrarsi all’onere della politica meridionalistica”. Minor prodotto pro capite (intorno al 50% di quello del Nord), fragilità delle strutture produttive (nel Sud è localizzato solo il 15% della capacità produttiva manifatturiera del Paese), con prevalenza invece di settori non concorrenziali e maturi, carenza endemica di infrastrutture, malavita organizzata dilagante, bassa qualità della vita, ma consumi tendenzialmente più vicini al resto del Paese all’80%, con conseguente dipendenza economica in ragione della minor ricchezza prodotta, dipendenza finanziata dai trasferimenti e dalla spesa pubblica in disavanzo: questi, come abbiamo visto, i caratteri fondamentali del sottosviluppo e dell’arretratezza del Sud. Ma dal quadro, per capirci qualcosa, manca ancora dell’altro: mancano le ragioni della persistenza del sottosviluppo, dell’arretratezza e della dipendenza e, perché no, le ragioni del piagnonismo e del vittimismo, che lo studioso, Carlo Maranelli, battezzò  come Meridionalismo piagnone. Interessanti sono i suo libri: “La Questione Meridionale”e “La trasformazione del Mezzogiorno…Considerazioni geografiche sulla questione meridionale”. Per molto tempo si è concentrata l’attenzione sul brigantaggio meridionale, sulla disoccupazione meridionale, sui suoi livelli e sulle sue dinamiche, senza mettere in relazione questo pur grave fenomeno con la qualità dell’occupazione e con il tipo di regole del vivere associato prevalenti nella società meridionale. Tra i rappresentanti del meridionalismo di ispirazione liberale e positivista (come Giustino Fortunato, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, Pasquale Villari), di quello di matrice liberal-socialista (come Gaetano Salvemini) e marxista (fra cui Antonio Gramsci ed Emilio Sereni) e di quello cattolico (come don Luigi Sturzo). Il fatto che il mercato del lavoro nel Sud non funzioni, o funzioni male, con disoccupazione al triplo rispetto al resto del Paese, con una gran quantità di lavoro sommersa e irregolare, non è solo il prodotto dello scarso sviluppo economico, ma anche e soprattutto la reazione della società meridionale a un insieme di regole (salariali e contrattuali) e di vincoli non coerenti con quanto ritenuto naturalmente accettabile dagli agenti che operano nell’Ambiente (datori di lavoro lavoratori, istituzioni). Il mercato del lavoro, più degli altri mercati, deve essere considerato una vera e propria istituzione sociale. Ne segue che il funzionamento del mercato del lavoro potrebbe diversificarsi da un luogo all’altro; società diverse potrebbero imporre norme differenti a datori di lavoro, lavoratori disoccupati ed altri.

L’Ambiente del Mezzogiorno ricchissimo di disponibilità di giovani istruiti e disoccupati, di giacimenti ambientali prestigiosi, di agricoltura d’eccellenza in alcune aree, ha bisogno di colmare il suo gap infrastrutturale, ma anche questa strategia da sola non basterebbe. Servono, assieme agli investimenti, interventi di lungo periodo che plasmino i regolatori sociali alle specifiche esigenze dell’Ambiente locale e politiche che migliorino, armonizzando l’intero ciclo di vita del capitale umano: la scuola e la formazione professionale, la transizione scuola- formazione-lavoro, il lavoro, le carriere, il welfare. Ridefinire i regolatori sociali vuol dire intervenire direttamente nella società civile e nella qualità della vita: in quel complesso, cioè, di norme, comportamenti, culture, abilità, intelligenze, specializzazioni, propensioni che sono alla base di qualsiasi processo di sviluppo economico e di qualsiasi equilibrio sociale. Per troppo tempo si è ritenuta la società civile come un semplice prodotto degli investimenti infrastrutturali e produttivi, nonché dell’imposizione, burocratica e dall’alto, di regole da applicare: i fatti, nel nostro Sud, hanno dimostrato che ciò era una pia illusione. Al Sud a scuola si studia meno bene del settentrione e, di conseguenza, i tassi di abbandono, nella fascia dell’obbligo, si collocano su punte pari a più di tre volte quelli del Centro Nord.  Ebbene, il quadro che emerge da questa semplice analisi statistica sul funzionamento della scuola nel Sud è del tutto sconfortante: sprechi, inefficienze, carenze, scarsa qualità finiscono per produrre un capitale umano in gran parte inutilizzabile. La lezione che se ne ricava e fin troppo chiara: in una realtà come quella meridionale l’elemento strutturalmente distorsivo è rappresentato da una debole e, spesso, inesistente società civile, incapace di comportamenti realmente cooperativi. Al Sud o a Napoli i reati predatori risultano minori del Nord o di Milano perché ne vengono denunciati meno per sfiducia verso lo Stato. Da questa debolezza derivano, poi non pochi degli altri circuiti perversi. La cooperazione volontaria e più facile all’interno di una comunità che ha ereditato una provvista di “capitale sociale” in forma di norme di reciprocità e reti di impegno civico. Se le norme di reciprocità e le reti di impegno civico di cui parla il sociologo Putnam nel suo libro (che ha destato non poche polemiche tra gli studiosi di casa nostra) sulle tradizioni civiche delle regioni italiane altro non sono che il prodotto della società civile, il quesito che ci si deve porre è perché il nostro Sud mostri, al riguardo, storicamente e strutturalmente tanta inadeguatezza.  A questo punto, come nei buoni romanzi d’appendice, occorre, sempre seguendo Putnam, fare qualche passo indietro e precisamente a quella «..fusione di elementi di burocrazia greca e di feudalismo normanno, integrati in uno stato unitario..» che fu il tratto caratteristico del genio di governo di Federico II, che però non influenzò Napoli e immediati dintorni nonostante avesse istituito la più antica università statale a Napoli, che porta il suo nome. Come mi precisava, nella camminata mattutina al fresco agostano, il campano d’origine, ex collega nonché storico e saggista, Salvatore Sarubbi:”Federico II non conquistò mai del tutto Napoli e l’elemento greco napoletano è rimasto più marcato di altri ambienti meridionali”. Nell’Ambiente meridionale storicamente e politicamente tutta la vita economica e sociale veniva regolata dall’alto e non dall’interno e dal basso come nel Nord della penisola. E tutto ciò avveniva in un delicato momento di passaggio, in cui, cioè, cominciavano a manifestarsi, soprattutto in Italia del Nord, originali forme di governo autonomo, come risposta alla violenza e all’anarchia che regnavano endemiche nell’Europa medioevale.  I Comuni sorsero e divennero Signorie eccellenti al Nord, non altrettanto al Sud. Ambedue i sistemi avevano, in qualche modo, posto sotto controllo la questione sociale per eccellenza nel Medioevo: l’ordine pubblico. Le due soluzioni, quella gerarchica al Sud e quella cooperativa al Nord, furono, di fatto, quanto a benessere collettivo, equivalenti fino al XIII sec..  L’assolutismo di Federico II, efficiente, al suo tempo, nel risolvere i problemi dell’azione collettiva, si trasformò ben presto nell’autocrazia diffusa dei baroni. A Napoli è famosa la rivolta dei baroni del XV sec. sedata nel sangue dal Re Alfonso d’Aragona ed affrescata artisticamente nella sala del Maschio Angioino di piazza Municipio. L’autoritarismo delle istituzioni politiche fu aggravato da una struttura sociale storicamente organizzata in modo verticale, avente in se le asimmetrie del potere, lo sfruttamento e la sottomissione, in contrasto con la tradizione  del Nord imperniata  sulle associazioni legate tra loro a formare una rete di rapporti orizzontali, una catena di solidarietà sociale tra uguali. L’abisso tra sudditi e signori era reso più drammatico nel Mezzogiorno dal fatto che tutte le dinastie che si succedettero furono straniere. Dal 1504 al 1860 tutta l’Italia a Sud degli stati pontifici si trovò sotto il dominio degli Asburgo e dei Borboni i quali  seminarono con sistematicità la sfiducia e la discordia tra cittadini, distruggendo tutti i legami di solidarietà orizzontale, allo scopo di rimanere a capo di un ordine gerarchico basato sullo sfruttamento e il servilismo”. Anche nel Triveneto gli Asburgo alimentarono il servilismo fino alla terza guerra d’indipendenza del 1866. Ancora oggi il barista o il contadino rispondono facilmente: “comandi”! Nell’ambiente meridionale la perdita di fiducia reciproca nei rapporti economici e politici altro non è che distruzione di capitale sociale immateriale, distruzione che nel Sud, nel corso dei secoli, ha fortemente indebolito la società civile. Da qui forse la chiave analitica per capire i problemi attuali dell’ambiente economico e sociale meridionale.  Nei modelli di crescita endogena, sviluppati di recente nella teoria economica, la chiave del successo di una economia consiste in un circolo virtuoso tra investimento in capitale umano e sviluppo: l’accumulazione fa sì che le produttività del lavoro e del capitale fisico crescano attraverso l’innovazione e il progresso tecnico, e a loro volta le capacità produttive maggiori rendono possibili ulteriori accumuli di capitale umano. Giovanni Gozzer, grande Pedagogista che pubblicava con Armando Editore, scrisse Il Capitale Invisibile” dove risaltava la cultura rispetto ai beni materiali del capitale visibile. Una volta venne a Padova a parlarne ai docenti come quando pronosticò l’incontro tra il solidarismo cattolico e marxista o cattocomunismo. Poiché il capitale umano costruisce cultura, ossia un insieme di procedure che risulta mutualmente soddisfacente agli attori economici ingaggiati in transazioni ripetute, l’efficienza del sistema economico aumenta e migliora la qualità della vita. Di conseguenza le transazioni aumentano e ciò dà origine a maggiore e più soddisfacente elaborazione culturale. Una società di successo è caratterizzata da una cultura ricca e varia, da molteplici relazioni, da una forte interazione e da reciproca fiducia”. Quando un sistema, per le ragioni più varie, finisce per accumulare capitale umano in misura insufficiente, rispetto ai propri bisogni, si determina una spirale involutiva fatta di bassa innovazione e progresso tecnico, stagnante produttività dei fattori e crescente dipendenza. La povertà e la mancanza di sviluppo che ne conseguono inducono la crescita di forme perverse di relazioni sociali ed economiche di tipo parassitario. Vengono così meno i rapporti di fiducia, in un rapporto di retroazione negativa sulla crescita economica.  Un sotto sistema povero di capitale umano non è in grado di usare i regolatori sociali formali progettati per la parte più evoluta del sistema, in cui magari il processo di accumulazione del capitale umano e nella pienezza del suo circuito virtuoso. Si forma dunque uno iato crescente tra astrattezza e inapplicabilità delle regole e crescente fragilità del complessivo tessuto economico e sociale. Lo stato di diritto viene così distrutto non solo perché “nessuno è in regola”, ma soprattutto perché appare ai più impossibile “mettersi in regola”. In un processo di delegittimazione crescente di tutte le istituzioni regolative. L’impossibilità (o l’inutilità) di rispettare le leggi si riflette, oltre che sui rapporti sociali, soprattutto sui rapporti economici, in quanto genera incertezza e aumenta i costi di transazione. Siamo nel bel mezzo di un circuito perverso in cui la cronica debolezza dello Stato favorisce la diffusione di istituzioni ombra preposta a ristabilire, in maniera parallela, fiducia e sicurezza non generate né dalle istituzioni formali né dal civismo orizzontale. La storia della mafia è, dunque, la storia del fallimento nello Stato nel predisporre un sistema certo e credibile di sanzioni in grado di garantire i diritti di proprietà, cosicché si e formata nel tempo una rete (istituzione) privata a sostegno delle relative relazioni di scambio. “La mafia offriva protezione contro i banditi, i furti nelle campagne, gli abitanti delle città rivali, ma soprattutto contro se stessa”. L’attività mafiosa spesso consiste nel creare un proprio ambiente economico e sociale: produrre e vendere merci con una rete concatenata di prestanomi e d’evasioni fiscali. Il clientelismo, le connivenze con alcuni impiegati pubblici, di vari livelli decisionali, la criminalità organizzata (camorra, ndrangheta, sacra corona unita, mafia) altro non sono che le istituzioni parallele che hanno colmato la patologica assenza di relazioni civili orizzontali di tipo cooperativo, sfruttando a loro vantaggio, progressivamente nel tempo, sia le istituzioni democratiche che le risorse finanziarie incrementali conseguenti al processo di unificazione nazionale prima, e all’intervento straordinario poi. L’aver voluto imporre le stesse regole del Nord evoluto a un Sud quasi privo di società civile ha, di fatto, accentuato e fatto crescere un antistato, con la sua cultura antagonistica. Non sorprende, quindi, se oggi, a 159 anni dall’unità d’Italia- il Veneto 5 anni meno- le cose non siano granché cambiate, nonostante i pur sensibili miglioramenti economici e infrastrutturali e la crescita di numero dei cittadini al Sud sia pure ancora minoritari rispetto ai sudditi. L’impianto teorico che ha, sino ad ora, guidato le azioni pubbliche tendenti a combattere il sottosviluppo considera gli investimenti e i trasferimenti pubblici come fattore necessario e spesso sufficiente per generare un modo endogeno di investimenti privati, per l’aumento medio di produttività e per il rafforzamento e lo sviluppo della società civile, in un processo virtuoso autopropulsivo. In questa accezione la società civile altro non è che un insieme di norme, valori e relazioni, di singoli capitali umani di network, ovvero dì quelli che potremmo chiamare beni relazionali.  Gli investimenti pubblici hanno l’obiettivo di favorire il funzionamento del sistema economico, in termini di efficienza ed equità, e di indurre l’accumulazione privata. Dagli investimenti pubblici e dai beni pubblici da essi prodotti e dall’accumulazione privata indotta, normalmente si fa derivare il miglioramento, la promozione e lo sviluppo della società civile e, quindi, dei beni relazionali. Dai beni relazionali dovrebbe ripartire, in una sorta di processo circolare, un nuovo impulso per lo sviluppo a carattere sempre più endogeno. Quindi, secondo la ricetta teorica tradizionale, più si spende per beni pubblici, più società civile si formerà, con i relativi beni relazionali. Applicando questo schema teorico-causale al Mezzogiorno, vediamo come nonostante nell’area si sia prodotta, dal dopoguerra ad oggi, una quantità rilevante di beni pubblici, questa produzione non sia stata in grado di generare il substrato di beni relazionali capace di attivare un processo endogeno di crescita. Diversamente dal caso dei Paesi ad economia arretrata in cui, generalmente, si tratta di costruire una cultura dello sviluppo in alternativa ad un debole sistema di reti preesistente, nel Mezzogiorno, come abbiamo visto, un sistema forte di relazionalità (perversa e antagonista) già esisteva. Ebbene, questo sistema si è dimostrato talmente forte e strutturato non solo da non venir per nulla scalfite dall’intervento pubblico, ma anzi dall’avvantaggiarsene come una metastasi che si sviluppa sfruttando le sostanze ricostituenti che vengono somministrate ad un organismo malato. Una prima semplice constatazione: solo un tessuto economico sufficientemente dotato di beni relazionali è in grado di generare al proprio interno le spinte necessarie per il proprio sviluppo: mentre nei contesti sociali caratterizzati da network opposti o antagonisti, queste capacità autopropulsive risultano molto deboli, e non potranno essere semplicemente indotte da meri interventi di produzione di beni pubblici tradizionali. In questi casi potrebbe diventare quindi utile una “produzione diretta” di beni relazionali, proprio per sfuggire al parassitismo del circuito perverso antagonista, in modo tale da superare la soglia critica, necessaria e sufficiente per far crescere virtuosamente un sistema relazionale forte, socialmente condiviso, e tendenzialmente maggioritario. 
Non più, dunque, sviluppo come semplice effetto di investimenti produttivi e infrastrutture, ma sviluppo come esatta miscela di questi con la necessaria dotazione di società civile. La crescita culturale è essenziale per innescare uno sviluppo sano auto propulsivo, viceversa se resta il suddito con le sue antiche e nuove sudditanze, il cittadino non uscirà dalla linea di difesa alla quale da troppo tempo si è assuefatto e non applica appieno l’art. 4 della Costituzione. In questo quadro va recuperata la scarsa produttività del Mezzogiorno con alcune misure: 1) la ripresa di quel filo, spezzato circa 30 anni fa, per infrastrutturare l’ambiente naturale meridionale abbattendo le diseconomie ambientali che si trasformano in un aumento dei costi aziendali (la galleria del Matese ad esempio è utile per sviluppare meglio le valli interne (alto Biferno, alto Tammaro, alto Titerno e medio Volturno) tra Molise e Campania; 

2) una fiscalità di vantaggio già prevista dalla legislazione europea dal 2005; 3) una flessibilità salariale all’ingresso più forte dell’attuale come strumento concordato tra le parti sociali per accentuare le convenienze a investire nel Mezzogiorno; 4) uno sforzo simile a quello che fu fatto 30 anni fa con Falcone e Borsellino per infliggere colpi mortali alla criminalità organizzata. Tutto questo non sarà sufficiente se i politici meridionali non dovessero fare la propria parte per selezionare una classe dirigente all’altezza della situazione abbandonando il nefasto familismo e l’autoritarismo dei piccoli ras locali che hanno devastato il panorama politico meridionale impedendo, tra l’altro, l’uso ottimale degli ingenti fondi europei. Occorre un piano di sviluppo concreto definendo tempi di intervento e risorse certe tenendo conto che il mercato del lavoro si evolve in direzione della mobilità.
Una mobilità connessa alla qualificazione e  riqualificazione continua.
Non basta la formazione occorre l’aggiornamento. I mestieri e le  professioni si evolvono rapidamente, muoiono e ne nascono altri. Anche i mestieri tradizionali come l’agricoltore non possono fare più a meno delle tecnologie innovative. Il mercato del lavoro si riflette oggi nel cambiamento sociale, prima di chiedere lavoro si deve chiedere qualificazione. La formazione dev’essere mirata e innovativa. Il concetto di disoccupato viene sostituito dal concetto di non qualificato, per chi è qualificato e orientato non sarà disoccupato. Su questi concetti cambia anche la famiglia e  i rapporti tra uomo e donna. Questo porta a nuove evoluzioni demografiche  e sociali. Si sono anche innalzati i tassi di scolarità per cui la variazione dei comportamenti interessa le classi di età inferiore, lasciando immutata la situazione nelle classi centrali (oltre i 50anni).
Lo sviluppo futuro meridionale è anzitutto capacità di produzione, competitività sui mercati e credibilità tecnologica e creazione di nuovi posti di lavoro. Per il Mezzogiorno alcuni settori strategici possono essere: terziario avanzato, turismo agricoltura ma questi sono aspetti particolari, seppure  importanti, di un processo che va letto in termini complessivi ambientali. Per questo parliamo di sviluppo italiano nei confronti dell’Europa e di sviluppo del Mezzogiorno per ridurre il divario tra Nord e Sud. Al concetto di sviluppo in termini di quantità bisogna aggiungere i parametri di qualità (l’istruzione, la sanità, la ricerca scientifica, la produzione culturale e artistica, la vivibilità urbana, ecc.). Una popolazione lavorativa in crescita porta con sé fenomeni di sviluppo economico che assumono valenza di sviluppo culturale. Ma per far crescere il lavoro nel Mezzogiorno, occorre il concorso di nuovi investimenti produttivi insieme alla qualificazione professionale. Investire quindi in industrie moderne, in servizi avanzati e digitali. Da quanto si è detto sul lavoro e  sui cambiamenti del mercato emerge che orientamento, formazione, qualificazione sono le strategie per accedere al mercato. Flessibilità e mobilità del mercato del lavoro portano forme di part-time, di homework di Job sharing (divisione dei compiti) con un minor costo per unità di prodotto. L’home-working o il telelavoro, ad esempio abbatterà i costi di trasferimento migliorerà i tempi di lavoro, consentirà una riduzione di carichi.

Lavorare meno lavorare tutti, che era  uno slogan provocatorio degli estremisti, sarà il risultato delle tecnologie avanzate. La formazione deve quindi cambiare, per struttura, per contenuti ,per metodologie e per finalità. Oggi dobbiamo includere la formazione nel sistema di imprese, perché la professionalità e il know how sono a pieno titolo tra i  fattori strategici della competitività sui mercati. Secondo la stima della Svimez  il Sud perderà  nei prossimi 50 anni ben 1,2 milioni di abitanti. Interessante appare il “decalogo” proposto da Umberto Minopoli che, intervenendo nel dibattito aperto sul tema dalla rivista on line www.formiche.net scrive: “Le nenie della Svimez sul Mezzogiorno hanno stufato. Nel Sud si è, sino ad ora, sperimentato, in 70 anni, tutto quello che è consentito da politiche stataliste, burocratiche e straordinarie: incentivi, sgravi fiscali, sovvenzioni, misure speciali ecc.. Cioè un secolo di meridionalismo. Risultato: il sottosviluppo resta li’ e la Svimez piagnucola col fallimento, la desolazione e l’abbandono del Sud. E se, finalmente, rovesciassimo il paradigma di un secolo di meridionalismo,”più stato nel Sud“, e provassimo l’opposto: “piu’ mercato nel Sud”? Non mancano iniziative economiche e società di giovani meridionali che hanno attivato come quelle i progetti di start up per far ripartire l’economia del Mezzogiorno, a dimostrazione di una realtà non priva di intelligenti e positive proposte come quelle di SmartIsland, Tripoow, Intertwine, Bookingbility, Ocore, Momo, Macingo. Il 25 settembre 2015, le Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile e i relativi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs nell’acronimo inglese) da raggiungere entro il 2030. È un evento storico, sotto diversi punti di vista. Infatti: è stato espresso un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. In questo modo, ed è questo il carattere fortemente innovativo dell’Agenda, viene definitivamente superata l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale e si afferma una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo; tutti i Paesi sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare il mondo su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se evidentemente le problematiche possono essere diverse a seconda del livello di sviluppo conseguito. Ciò vuol dire che ogni Paese deve impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs, rendicontando sui risultati conseguiti all’interno di un processo coordinato dall’Onu; l’attuazione dell’Agenda richiede un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione. In tale scenario ricadono necessariamente anche gli aspetti connessi all’agire economico. Da qualche anno, anche a seguito delle crisi economiche, delle crescenti disuguaglianze tra i Paesi e all’interno di essi, nonché delle lacune dimostrate dai modelli economici e di welfare più tradizionali, si stanno affermando paradigmi e modi di pensare alternativi e complementari ai modelli economici dominanti che affermano come l’attività economica abbia bisogno di virtù civili e di tendere al bene comune più che alla ricerca di soddisfazioni individuali. Tra questi nuovi contesti c’è il modello dell’economia civile, che si affianca al modello economico liberista di stampo anglosassone e a quello sociale di matrice tedesca e che prende origine proprio in Italia a partire dal pensiero dell’economista Antonio Genovesi e dalla Scuola italiana del Settecento. Al  Mezzogiorno non mancano studiosi e eccellenze del passato d’ Economia. Sta ad esso trovare uno sviluppo sostenibile endogeno senza più aspettare che altri ne vendano uno adatto al loro sistema ambientale con altra cultura e natura.

 

 

 

Giuseppe Pace: autore del saggio “Ecologia Umana Internazionale sviluppo ambientale sostenibile”, leolibri.it

 

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