Riflessioni in pillole Rubriche

I papà dei ragazzi di via Ritiro

Napoli, 19 Marzo – Il bello della vita sta nel fatto che va avanti nonostante gli ostacoli, i lockdown, e i colori, ha un calendario che rispetta e che non si ferma, e così le feste si rincorrono senza tregua.

Oggi si celebra San Giuseppe e la festa del papà. San Giuseppe era un uomo devoto, che si è preso cura della sua famiglia, che l’ha amata e supportata.

Ecco, così erano i papà dei ragazzi di via Ritiro, devoti, umili, lavoratori, intelligenti, saggi, che avevano imparato dalla vita, dalla fatica, dal lavoro duro e da un’educazione “antica”.

Quasi tutti non avevano avuto la possibilità di studiare, già in tenerissima età, erano stati avviati nel mondo del lavoro.

Erano per lo più contadini, manovali, operai, uomini perbene che lavoravano alacremente. Li ricordo all’imbrunire quando tornavano a casa, stanchi e taciturni, tra quelle rughe apparse troppo velocemente sul viso, il peso della vita. Nonostante ciò erano sempre rasati, come se la barba incolta sul viso fosse qualcosa di spregevole. La rasatura mattutina era un rito. Il pennello preventivamente bagnato sotto l’acqua, veniva strofinato sul sapone, lo stesso che si usava per lavarsi mani, viso e il resto del corpo, la schiuma che si formava si stendeva sul viso con movimenti circolari e ben mirati. La mimica era meravigliosa, guance che si gonfiavano, labbra che sembravano risucchiate dai denti, collo che si allungava come quello di una giraffa. Guardavo sempre ammirata mio padre mentre si radeva, ai miei occhi era un artista perché in quel frangente stava creando un viso nuovo.

La domenica e i giorni di festa si trasformavano, indossavano il vestito “buono” ovvero delle feste e andavano a messa, quasi tutti indossavano il cappello, mio padre aveva un Borsalino, ne andava così fiero.

Era il riscatto di una settimana in cui perdevano la loro identità, la loro bellezza, ricoperti da terra o da catrame, da mani che parlavano. Chi aveva i capelli, perché molti erano calvi, li pettinavano all’indietro, con la riga marcata lateralmente, qualcuno usava la brillantina Linetti e si sentiva tanto alla moda.

Tornavano a casa dopo la messa di mezzogiorno, con il sacchetto di noccioline, che l’abbondante venditore ambulante posizionato sul marciapiede di fronte alla chiesa, vendeva con molto garbo.

Li porto tutti nel cuore i papà di via Ritiro, alcuni di più ma unicamente perché ho più ricordi con loro.

Voglio ricordarli partendo da mio padre, si chiamava Vincenzo, era nato nel 1920, un uomo tutto d’un pezzo, intelligentissimo, percettivo e nonostante avesse solo la quinta elementare e parlasse poco e male l’italiano, era stato il presidente della Coldiretti, si occupava di politica e conosceva tutte le normative neanche fosse un commercialista. Era un contadino, di questo lavoro amava quasi unicamente la libertà che gli dava. Era molto emancipato, ci teneva tantissimo che noi figlie ci istruissimo e lavorassimo. Diceva: “Una donna che lavora, è una donna libera”.

Poi c’erano i miei zii, Baldassarre, Lorenzo, Giosuè e Raffaele, fratelli di mio padre.

Zio Baldassarre era simpaticissimo, lo adoravo. Molto serafico, in tutta la mia vita non l’ho mai visto una sola volta arrabbiato, un uomo pacifico con due occhi chiari e vispi. Non si lamentava mai di nulla, godeva della vita nella sua semplicità. Ci accomunava la mela Stark essendone io golosissima e lui un produttore.

Zio Lorenzo aveva degli occhi bellissimi azzurri come il cielo, era di una simpatia estrema, un uomo che solo a guardarlo ti rasserenavi. Anche lui era contadino, faceva il suo lavoro con passione. Amico di tutti, molto amato per la sua capacità di vivere la vita con leggerezza, nonostante tutte le difficoltà.

Zio Raffaele era l’ultimo dei cinque figli, era molto bello, l’unico a non aver perso i capelli, aveva una folta chioma che gli incorniciava il viso perfetto. Era gioviale, giocherellone, con spirito imprenditoriale, un uomo che non aveva paura di mettersi in gioco, di sfidare la vita. Con lui viveva anche zio Giosuè che non essendosi mai sposato, divenne parte integrante della sua famiglia. Fu proprio lui che se ne continuò ad occupare quando il destino portò via zio Raffaele a soli cinquant’anni, divenne così un padre putativo come San Giuseppe.

Ciccillo, ovvero Francesco, aveva una Simca bianca, se la mia mente non mi inganna, credo che fosse l’unico a possedere un’automobile. Lavorava in una tipografia nei pressi di piazza Dante, una tra le piazze più importanti della città che fungeva da stazione a tutti i pullman che provenivano dalla periferia. Spesso ci incontrava alla fermata e ci dava un passaggio, che gioia quando accadeva. Lui era quello che ad ogni emergenza c’era. Era un accanito fumatore, veniva sgridato puntualmente da mio padre che lo incitava a smettere, ma lui amava troppo fumare. Un uomo disponibile, garbato, divertente che nell’intimità della sua casa, faceva battute facendoci ridere un sacco, una persona davvero straordinaria.

Poi c’era don Armando, non ho mai saputo perché lo chiamassimo con questo appellativo. Era un bellissimo uomo, non a caso cugino della mamma della divina Sofia Loren. Era ragioniere, sempre elegante e ben vestito, appassionato di calcio, lirica ed enigmistica. Molto paziente, riservato e amabile nel parlare, più che parole, regalava sorrisi.

Un papà davvero silenzioso era Raffaele, Fiuccio, così lo chiamavamo. Era uno dei più bravi posatori di piastrelle del paese. Era molto schivo, lavorava in silenzio, meticolosamente. Quando rifacemmo il bagno chiamammo lui, non dimenticherò mai il viso sconsolato di mio padre che, essendo un gran chiacchierone, dopo l’ennesimo tentativo di discorrere con lui, venne a sedersi sconfitto in cucina. Noi ridevamo come matti e Fiuccio da lontano, sotto i baffi.

Pappone, ovvero Giuseppe era un omone fantastico, affabile e amabile con noi bambini, ho un dolcissimo ricordo di lui. Quando lo incontravi per strada aveva sempre un sorriso, una parola dolce. Aprì un negozio al centro del paese, una sorta di cartoleria, prima di andare a scuola era d’obbligo fermarsi da lui vuoi per qualche materiale che serviva, vuoi per comprare qualche caramella. Era il gigante buono, quello delle favole, che oggi non esistono più, neanche nell’immaginario collettivo.

Luigi, era un grandissimo lavoratore, la sua pelle cotta dal sole sia d’inverno che d’estate, lavorava la terra e lavorava sodo. Aveva un tre ruote Ape della Piaggio e sui quattro lati del retro, un reticolato di protezione, che lo faceva diventare una sorta di salottino in sicurezza. D’estate ci caricava insieme ai suoi figli e via verso la spiaggia libera di Licola mare, tutti ammassati in quei pochi metri quadrati, i più piccoli in braccio ai più grandi, nelle curve ridevamo felici e la vita ci sembrava meravigliosa.

È a tutti loro e a tutti i papà del mondo che voglio fare i miei auguri.

“Siate sempre, un esempio e un punto fermo nella vita dei vostri figli, insegnategli ad amare e rispettare le donne e ad usare la loro forza per aiutare i deboli e gli indifesi”.

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