Cultura

Annotazioni sull’ambiente della tecnologia digitale

Napoli, 10 Maggio – L’ambiente che viviamo da circa da 30 anni è quello della quarta rivoluzione industriale o della tecnologia digitale. Le altre tre precedenti sono state: il neolitico (con l’addomesticamento degli animale, l’agricoltura e la vita stanziale); l’avvento del motore (con l’economia industriale a partire dalla Gran Bretagna del 1600); l’uso dell’elettricità di fine 1800, fino all’informatica ed ultimo la digitalizzazione della vita privata e pubblica. Le trasformazione digitale delle relazioni umane è iniziata molti anni fa, e non è nata con i sistemi di messaggistica istantanea. Essa è figlia del link o, meglio, hyperlink. Quest’ultima applicazione digitale si può anche ritenere tra le invenzioni più importanti del secolo scorso e, tutto sommato, ha origine da un’idea semplice: io sono qua e con un clic vado là. Hyperlink sta per collegamento ipertestuale o speciale rimando contenuto all’interno di unipertesto, come quelli nel world wide web Se dunque il link sta per collegamento ad un file Had-link sta per collegamento fisico o l’associazione di un file al suo contenuto. Symlink, invece, sta per collegamento simbolico o un file che è semplicemente un rimando ad un altro file. All’inizio, il link collegava dei documenti ipertestuali, ma ben presto ha iniziato a collegare persone non solo per informazioni utili, ma pure per altro come per i sentimenti e le emozioni. Basta aprire un qualsiasi social network per (ri) scoprire quanto sia ancora attuale e rivoluzionario il link, che in informatica, sta per collegamento tra l’elaboratore centrale e le sue unità periferiche, o tra elaboratori diversi. In un ipertesto, parola o immagine appositamente designata che, quando viene selezionata, determina l’accesso del browser a una nuova pagina web. Gli amici sono dei link, il curriculum è un link, sono link le foto postate su instagram e le ricerche che si fanno per capire, sempre restando confinati alle relazioni umane, le caratteristiche di persona, chi è, cosa fa, di cosa si occupa. Spesso si sente dire che il curriculum inviato non è sincero poiché puoi scrivere di tutto e di più. Se quanto vantato poi non corrisponde a verità e magari il concorso o l’assunzione curriculare è avvenuta? C’è sempre il periodo di prova si potrebbe ipotizzare. Spesso dunque la reputazione e la vita privata di una persona sono di fatto affidate ai link, che hanno soppiantato totalmente il ruolo millenario delle vicine di casa o meglio le comari di paese. Io sono qua e vado là, a vedere, senza che si sappia, chi è quella persona che ha suscitato il mio interesse. Vale per una selezione lavorativa o per una selezione sentimentale. Senza guardare negli occhi per vedere dentro. Senza ascoltare come cambiano la voce e l’espressione del viso al suono secco di una domanda. Senza possibilità di capire, dalla gestualità del corpo, le reazioni involontarie, quelle che non si possono nascondere dietro alle parole. Datemi un link e vi sovvertirò il mondo, avrebbe affermato Archimede, se ne fosse stato lui l’inventore. E le informazioni superficiali che si possono avere dai link sono molte: gli interessi, gli hobby, il lavoro, la partecipazione alla vita sociale, la situazione sentimentale… perfino le opinioni sui valori e sulla morale. Tutto tranne i sentimenti, quelli dai link non si vedono. Le prime avvisaglie che qualcosa stava cambiando si sono avute verso la fine degli anni ‘90, con l’utilizzo di massa della posta elettronica nei luoghi di lavoro. Per non parlare poi della spazzatura elettronica che certi motori di ricerca garantiscono meglio di altri come ad esempio gmail.com. I nostalgici ricorderanno senz’altro quelle inutili e infinite discussioni, consumate a colpi di tante e mail ricche di insulti e di provocazioni, in cui chiunque si sentiva legittimato a scrivere qualsiasi cosa.

La rivoluzione digitale per il Mezzogiorno del mondo e d’Italia, potrebbe essere un formidabile volano per recuperare i molti ritardi economici e sociale degli ambienti locali. Non sono tra i detrattori della tecnologia nuova che sembrano dire ”si stava meglio quando si stava peggio”. Si sa che qualunque novità genera timori e paure, spesso infondate. E’ sempre il vecchio ritornello storico” E’ l’uomo che comanda la macchina oppure l’inverso”? L’Italia si è trasformata ben presto in un Paese di rissosi da tastiera, capaci di dar luogo a vere e proprie sfide all’O.K. Corral, che tentavano goffamente, con fiumi di parole e frasi spesso sgrammaticate, di rivendicare una qualche ragione, di scaricare responsabilità o di affibbiare una qualche colpa. Parallelamente alle liti a distanza, però, fiorivano anche le prime relazioni clandestine virtuali con crisi di coppie, ma anche di nuovi amori ed amicizie. Poi c’è stata un’ulteriore evoluzione: i social e le chat hanno velocizzato gli scambi e le relazioni si sono velocizzate. Sono diventate prodotti da consumare in fretta, laddove, da sempre, necessitano di tempo e di lentezza. Il linguaggio si è dovuto adeguare ad assumere un ruolo per il quale non era stato pensato: esprimere in pochi tic tac sul touch screen, e bip delle notifiche, le emozioni, le reazioni e i sentimenti. Chissà se dopo aver inventato i microcip e toutch screen un fisico italiano migrato nella Silicon Valley, ha deciso di cambiare ricerca e si è rivolto verso la comprensione della consapevolezza o coscienza. A Padova, su invito dell’Associazione degli ex universitari locali, “Alumni”, quasi si confessò: ”dopo aver raggiunto il successo, mi accorsi che non ero felice, mi mancava qualcosa e mi sono messo a capire meglio anche la coscienza, che prima era esclusiva “verità” delle religioni e dei domini dei saperi umanistici e non scientifici”. Condivido la considerazione che non solo i sacrati o ministri di culto di qualsiasi religione debbano parlare di cosa è il senso della vita, o l’anima, lo spirito, ma anche la scienza deve porre sotto i riflettori propri la conoscenza della coscienza, anche se all’inizio ci sfugge e richiede non poco tempo per metterne a fuoco delle parti che poi messe assieme potrebbero darci benefici non indifferenti, senza farci soffrire più tanto. Per chi è attento alle parole, ne subisce il fascino, la bellezza, e le considera il dono che il grande padre Giove ha fatto agli uomini per comunicare efficacemente, è facile accorgersi di tante piccole sfumature che denotano la pericolosità delle relazioni digitali. Per esempio, quando si parlava, oggi, invece, si chatta con qualcuno con cui si ha un rapporto libero e leale, si fa poca attenzione alla punteggiatura, diventa quasi superflua. Si lasciano le domande e le risposte aperte. Si danno tutte le possibilità. È un po’ come stare rilassati al bar a bere una cioccolata calda o un chinotto. A me è capitato che un collega, ex insegnante di religione, mi correggesse ogni singolo errore formale in un articolo di 5-8 pag.. Se ve ne erano pochi ne marcava uno o due e me li rispediva, non solo a me, ma anche agli altri 70-100 a cui lo avevo inviato. Gli chiesi perché lo facesse e mi rispose che dovevo imparare a non commettere errori prima di rendere pubblico lo scritto. Mi sembrò e mi sembra ancora un eccesso di diffidenza verso la tolleranza del lettore abituato a vedere gli errori di distrazione perché sa che, il più della volte, dipendono dalla mancanza di rilettura di ciò che si scrive d’impeto. Ma quando si sta sulla difensiva, o si vuole esprimere disappunto, la punteggiatura diventa un requisito comunicativo essenziale, come lo era per il mio perduto per strada correttore ”non autorizzato”!. Scrivere No potrebbe bastare, ma No!, è molto più efficace. Evidenzia la chiusura, rende il rifiuto definitivo. Toglie il diritto di replica. La punteggiatura nella narrativa ha un ruolo essenziale, ma mentre si parla, anche laddove si facciano delle pause, difficilmente si percepisce dove inizia il punto è quando si va realmente a capo. E il punto esclamativo? Io lo trovo utile perché nelle discipline scientifiche il dubbio è normalissimo averlo se non c’è una verità assoluta di una legge fisica o di una eguaglianza matematica. Mentre alcuni lo trovano ambiguo, che potrebbe mettere in difficoltà, secondo loro. Se qualcuno risponde Sì!, qual è il corretto significato da attribuire alla risposta?  Quel punto esclamativo significa “sì, sì, sì”? È un’esortazione, tipo, “sì, muoviti”? È voglia di chiudere in fretta la conversazione e passare ad altro, senza soffermarsi troppo? Beh, può significare qualunque cosa, dipende dallo stato d’animo di chi lo scrive e di chi lo interpreta. Insomma stiamo a discutere il messaggio sibillino ricordando che la Sibilla avrebbe detto” andrai alla guerra e tornerai se non morirai”! Guccini, invece, nel Cyrano scritto con Dati, utilizzava un’espressione evocativa: “Infilerò la penna ben dentro il vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio”. Forse non è proprio così, forse le parole non uccidono, ma sicuramente possono fare molto male e ferire profondamente. Se non fosse una triste realtà, ci sarebbe da ridere di fronte a una situazione grottesca in cui qualcuno prova dolore, piange, soffre e si emoziona non davanti a una persona ma davanti a uno schermo che non ha nemmeno le sembianze umane. Eppure, con questo tipo di schiavitù bisogna farci i conti. C’è chi calcola i tempi di risposta, o di visualizzazione, di un messaggio perché anche i silenzi, le pause e i ritardi digitali hanno assunto un significato diverso e sono portatori di un notevole carico d’ansia. Se non risponde, ci sarà un motivo, significa che mi ignora o “chissà cosa stia facendo”. L’ipotesi che possa aver lasciato da parte il telefono non viene presa in considerazione. Alzi la mano chi almeno una volta non è stato assalito da un’angoscia incontrollabile mentre, durante una discussione (si fa per dire) accesa, magari in un momento topico in cui si stava consumando la fine di una storia d’amore, il messaggio “Sta scrivendo…” si è interrotto di colpo. Per poi riprendere. In quei frammenti di tempo si concentra tutta la relazione: i pensieri si affastellano, sono fiumi in piena, si susseguono velocemente emozioni e stati d’animo come non era mai
successo nella storia dell’uomo. Dall’altra parte c’è qualcuno che ha cambiato idea. E quella pausa rende evidente una reazione comunissima, ma che di solito non viene percepita nella vita reale, a meno che non venga inventato un display da applicare sulla fronte che segnali “sta cambiando idea” durante una conversazione. Nelle relazioni digitali ci sono un uomo, una donna e due schermi che li separano. Che fanno da filtro. Che nascondono e ingannano. Parole virtuali e sofferenze reali. Tutto. Rigorosamente. Davanti. A. Uno. Schermo. Velocemente.
Qua i punti ci stavano bene… Il problema è che ci siamo abituati troppo alla velocità della vita. Non riusciamo più a trattenere nulla, ad assaporare. Sintetizziamo. A volte si sente il bisogno di “chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro te ma nella mente tua non c’è”. E respirare. E dargli
tempo. Dargli spazio. Invece, le relazioni digitali vanno di corsa, richiedono velocità, Non c’è tempo per ragionare, per rallentare, per riflettere, per spiegare, per chiedere scusa, per esprimere un concetto che riguardi gli infiniti ambiti della vita quotidiana.
Figuriamoci se c’è tempo per stringersi la mano, baciarsi, abbracciarsi, camminare fianco a fianco. A che scopo, se ci sono decine di emoticon pronte all’uso che sintetizzano benissimo altrettanti gesti? In passato, per curiosità, ho letto la corrispondenza tra i fisici e i matematici dell’800. Si trattava di lettere lunghissime e rispettose in cui venivano dibattute questioni complesse per arrivare a una qualche conclusione. Non c’era un vincitore. Le conversazioni digitali vogliono che spesso ci sia un vincitore e un vinto. E, nella competizione, le emoticons hanno un ruolo centrale. La dinamica è spesso la seguente: si inizia a scambiare messaggi in modo soft e, per un motivo o per un altro, si arriva al climax, a un punto di rottura in cui la rabbia è esplosa, il viso diventa rosso come il succo di melograno e il cuore galoppa come Furia cavallo del west. Ma non si può reagire, c’è lo schermo, bisogna usare un’emoticon. Ma per rappresentare bene quello stato d’animo, servirebbe una gif animata che raffiguri Mario Merola in modalità
“piazzata” che spara minacce casuali del calibro di “T’accid ‘a madre”. Invece no, qual è l’emoticon che si usa per rappresentare quello stato di agitazione e tagliare corto? Il pollice alzato di Fonzie, usato non per dire “tutto ok” ma per un più provocatorio “stai bene così”. E chi lo usa conosce benissimo la reazione violenta che suscita nell’avversario e che va ben oltre le minacce di Mario Merola: roba tipo “te lo spezzerei, quel pollice, se fossi lì”. Ma per fortuna c’è sempre uno schermo. Il pollice non è vero, è un fake pollice, che conduce a una verità incontrovertibile: se Leibniz avesse risposto all’epistola prior e all’epistola posterior di Newton con un pollice alzato, probabilmente non avremmo mai conosciuto Le monadi e la
gravitazione universale… Paradossalmente, però, e questo è veramente un mistero comunicativo, l’immagine che rappresenta l’incazzatura (passatemi il termine) esiste, si tratta di una faccetta rossa e arrabbiata che non assume mai il reale significato a cui è deputata. Non viene presa sul serio,
perché, diciamo la verità, quando parte l’embolo della rissa, a nessuno verrebbe in mente di assumere l’espressione di una faccetta rossa simpaticamente imbronciata. Ben più pericolose sono le emoticon che rappresentano le diverse sfumature d’amore. E le diverse sfumature di ipocrisia e di falsità. C’è un abuso di simboli mielosi che nella realtà non si trasformerebbero mai in azioni concrete. Baci e bacetti inviati a persone che dal vivo non vorresti toccare nemmeno con la canna da pesca. Invece la rete prolifera di bit che trasportano cuori e baci “cuorosi” a chiunque, anche a perfetti sconosciuti, per fingere empatia o per esprimere un qualche sentimento. Tanto c’è lo schermo del telefono a fare da filtro. Dall’altra parte, però, c’è sempre qualcuno che interpreta, fraintende, spera, soffre… e spesso l’altra parte non si capisce bene quale sia, se quella del mittente o del
destinatario. Se gli scambi virtuali tra due persone stanno dimostrando ampiamente le difficoltà relazionali di questa e delle future generazioni, gli
scambi di gruppo denotano dei disagi ben più importanti, che rafforzano l’impressione espressa da Umberto Eco qualche anno fa, ovvero che “internet ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Eco non scherzava quando creava deserto attorno alla fede e faceva bruciare i libri ai conservatori perché credeva di essere un democratico, magari di partito. Era dunque un console romano dei populares non degli optimates o conservatori. Direi che la tecnologia informatica e digitale dà più vantaggi che danni che comunque non mancano, ma questi ultimi sono sempre indice di ignoranza o analfabetismo di ritorno. Per esempio, se in un gruppo c’è qualcuno che scrive, che so, Qualcuno sa dirmi la vera ricetta della coda alla vaccinara?, la risposta non proviene soltanto da chi ha qualcosa da dire. Ci mancherebbe altro. Ognuno deve dire la sua. E quando ricapita un momento di visibilità? No. Io no. NO! Io no, mi dispiace. Io ce l’avevo, ma l’ho persa. Provo a chiedere a mia nonna e ti faccio sapere. Io no, ma ho quella degli strozzapreti alla romana, va bene lo stesso? Te la darei volentieri, ma sono fuori casa. Decine di messaggi per non ottenere nulla, a parte un aumento non richiesto del traffico di rete. Poi ci sono le comunicazioni di servizio, quelle che bisognerebbe leggere senza replicare e che invece danno luogo alle 50 sfumature di “grazie”. Grazie. Grazie! Grazie mille. Grazie davvero. Grazie (cuoricino). Grazie (emoticon circondata da cuoricini).Ma grazie! Di nulla. Grazie a te. E infine ci sono gli auguri, quelli che nella realtà nessuno ricorda, a parte quelle poche persone che ci tengono sul serio. In ogni caso, al segnale di auguri si scatena ogni volta l’inferno. Un trionfo di faccette festanti, bicchieri brindanti e coriandoli di ogni tipo. Forse dipende dall’età, forse dipende dalla stanchezza, forse dipende dalla scarsa capacità di comprendere dei valori diversi perché sono troppo ancorato ai miei, ma queste relazioni non riesco proprio a viverle con partecipazione. Dignitoso distacco. Eppure sostengo la trasformazione digitale da sempre e in quasi tutti gli innumerevoli aspetti positivi di cui è portatrice. Tranne questo. Non lo comprendo. Ho bisogno di tutte quelle
manifestazioni di cui l’uomo è capace di esprimere solo dal vivo. Insomma di quella vita che la virtualizzazione dei sentimenti in qualche modo ha offuscato. Nel territorio della Regione Veneto si osservano innumerevoli opere d’arte nelle ville venete palladiane e non nonché nelle tante chiese come a Padova che ne ha come Roma pur essendo circa 10 volte meno popolata di residenti ma con molti più presenti giornalmente perché una città terziaria e quaternaria con servizi privati che sono di gran lunga migliori di quelli pubblici per l’imprenditoria veneta d’eccellenza in molti campi. Con l’attuale rivoluzione digitale e dello smart working i cambiamenti locali e globali sono sorprendenti. Lo smart working, mediante il suo approccio lavorativo telematico, va ad impattare su diversi attori economici. In particolare esso modificherà la vita dei lavoratori,  delle aziende, del sistema economico locale e globale. Ma qual è il suo impatto sul futuro a livello macroeconomico globale oltre allo sconvolgimento economico generato dallo smart working localmente? Si prevede, per quanto possibile, come i cambiamenti che inevitabilmente lo smart working porta con sé possano modificare le economie nazionali e quali problemi o crisi potrebbero manifestarsi. Ma già siamo sul treno rapido dell’innovazione globale, anche se non pochi non lo vogliono ancora vedere.

Si va anche ad anticipare quelle che potrebbero essere le plausibili contromosse a livello politico e di gestione sovranazionali, fino a giungere a quella che alla fine, con buona probabilità, sarà la soluzione finale che permetterà di ritornare all’equilibrio economico. Sarà notevole lo sconvolgimento con l’introduzione  della digital economy , che sconvolgerà anche gli equilibri economici nazionali ed internazionali. Non a caso gli esperti dicono che si sta entrando nel pieno della IV rivoluzione industriale che avrà lo stesso impatto che ebbe l’introduzione della corrente elettrica. Per l’ambiente di Napoli ed ampio dintorni, la digitalizzazione è ancora non ottimale ed è ora di dinamizzare l’innovazione in modo che tutti possano applicare la innegabile creatività napoletana a cercare nuovi lavori a distanza, senza più fare la fila per un posto comunale, provinciale, regionale, oppure di operatore scolastico, infermiere, assistente tecnico, poliziotto, eccetera, eccetera. Andando nell’ambiente non troppo locale della Transumanza orizzontale e verticale, che non era solo italiana, come ha riconosciuto l’Unesco, vorrei ribadire che contempla migliaia di anni come ho verificato girando per il mondo argentino, statunitense, africano, asiatico e romeno, dove ad Alba Iulia vi è un museo degli Appuli e della transumanza tra la Dacia e l’Apulia, territorio pugliese.

Un paese non basta, scrisse un noto saggista ebreo, perché ogni mondo è paese, ma questo paese, X e non solo, è unico al mondo! Quando qualche amico mi chiede la mie origini, rispondo sempre così: ”sono pastorali, non contadine come circa il 90% degli italiani prima della Grande Guerra e nel Mezzogiorno anche subito dopo la seconda guerra mondiale”. Poi mi dilungo nel dire che, secondo noti studiosi, i contadini sono tendenzialmente monarchici perché legati alla tradizione, mentre i pastori sono ancora da esaminare perché pare che un solo studioso, abruzzese protagonista del novecento, li abbia considerati nella poesia transumante. La Transumanza è il fenomeno ambientale che per millenni ha interessato molti ambienti del pianeta Terra con tantissimi ovini, un po’ meno di bovini ed equini e caprini. Questi animali utili all’economia umana dal territorio locale (di Letino, del Matese e dall’Abruzzo ad esempio), venivano condotti dai pastori associatisi per la circostanza, alla Puglia.

Migravano il 5-10 ottobre dai freddi monti al caldo di pianura e ritornavano il 5 maggio. Tale fenomeno era globale ed è ancora presente, sia pure molto limitato, in territori delle Alpi, Pirenei, Urali, Carpazi, Himalaya, Ande, ecc..

Con la poesia “I pastori” di G. D’Annunzio, la memoria della Transumanza ha valore poetico emblematico universale. Leggiamola insieme: “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti. Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d’acqua natia rimanga ne’ cuori esuli a conforto che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d’avellano. E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! Ora lungh’esso il litoral cammina la greggia. Senza mutamento è l’aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciaquìo, calpestìo, dolci rumori.

Ah, perché non son io co’ miei pastori?”. Resto, infine, a volare con la memoria, non profonda ma superficiale dei neuroni cerebrali, rivedendo un mio avo pastore transumante da Letino a Marcianise nel 1924 e me prima della pandemia ultima in una centrale piazza sotto il Salone o Palazzo della Ragione di Padova, città colta,  e tanto moderna quando antica.

Essa, in particolare, è ubicata tra due fiumi,uno a nord il Brenta e uno a sud il Bacchiglione, che la cullano con belle rive piene di pedoni che recuperano la vitalità dopo una giornata o settimana lavorativa e sedentaria, magari davanti ad un videoschermo e tastiera digitale.

 

 

 

 

 

Giuseppe Pace (cultore di Ecologia umana)

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