Attualita'

Ambiente napoletano, approccio d’Ecologia Umana

Napoli, 11 Dicembre – La napoletanità, la patavinità, ecc. sono luoghi comuni oppure sono indicativi o indicatori ambientali? Se non molto qualcosa c’è perché uno scrittore israeliano scrisse: ”Tutto il mondo è paese, ma questo paese è unico al mondo”. La stessa deduzione l’ho riportata nel mio saggio: ”Letino tra mito, storia e ricordi” del 2009. Dunque sentirsi parte di una napoletanità dovrebbe essere un valore positivo, ma spesso mi appare un disvalore quando si affermano luoghi comuni infondati del tutto come: ”qua si fa il caffè o la pizza migliore del mondo”, ecc.. Un barista storico di Cadoneghe, Paolo Mazzari, detto Carletto dal nome del padre già barista, qualche mattina fa mi disse in compagnia di G. Scanferla mentre degustavamo il caffè :”questo caffè è di Carletto non è napoletano”. Poi ci raccontò una storiella che uno straniero in visita a Napoli fu condotto da un napoletano in tre bar per sorbire e gustare ottimi caffè. Dopo che li ebbe gustati l’amico napoletano, forse affetto ed afflitto da megalomania territoriale, gli chiese di dare un voto in decimi ai tre caffè. Lo straniero lo accontentò. Mise 4/10 al primo caffè e specificò perché, poi mise 5 all’altro e 6 al terzo sempre specificando. Il napoletano ci restò male ma non mise in dubbio il suo territorialismo esasperato. Eppure non era un uomo che non avesse studiato né povero. Eccoci dunque ad introdurre l’ambiente di Napoli ed ampio dintorno. La ricerca di radici nell’epoca della globalizzazione non è un male se contemperate all’evoluzione globale dell’Homo sapiens che può vivere sia in habitat ristretti che ampi fino all’areale terrestre se non universale. Egli dunque non è come gli Ofidi o serpenti che vivono in habitat poco estesi. Nel suo DNA c’è l’informazione evolutiva di un areale almeno terrestre che la cultura avanzata può far esprimere non quella attardata, più presente in economie e società attardate. Al lettore lascio la deduzione sulla napoletanità per non urtare facilmente la coda di paglia del meridionalismo piagnone che a Napoli non è minore di altrove al Sud Italia, anzi direi che è maggiore anche perchè si invocano spesso i Borboni per riaffermare il monito popolare: ”si stava meglio quando si stava peggio”! Di Napoli hanno scritto in tanti, ma un approccio d’ecologia umana di un osservatore, non del tutto estraneo all’ambiente campano e napoletano, non si ritiene superfluo, anzi potrebbe aiutare il lettore a capire più da vicino il vero e l’oggettivo. La lanterna o lente d’ingrandimento dell’Ecologia Umana si avvale di tre caratteri: multidisciplinari, interdisciplinari e transdiscplinari. Ad essi si integrano elementi personali di culturale formazione iniziale dell’’osservatore in ambiente campano periferico dapprima- a Letino e Piedimonte Matese- e poi in ambiente centrale di Napoli. Al paesetto natale di Letino, sul Matese più alto tra Campania e Molise, in ambiente provinciale, vi erano due elementi formativi: il mito del fiume Lete che partiva da quello non estraneo della Sibilla Cumana e dalla Maestra elementare. Quest’ultima assecondava il programma genitoriale di plasmare il loro primogenito di tre, verso le arti liberali anche con regali che la Maestra gli donava come premio di rendimento scolastico, ma i regali erano stati predisposti dal padre dietro le quinte della cattedra. Osservare dunque l’ambiente da descrivere, sia pure per sommi capi, da 700 km distante dopo non pochi  decenni, ma anche dall’interno: toccato, vissuto e visionato anche con l’aiuto di formatori eccellenti dell’Università “Federico II” di Napoli come Lorenzo Casertano, al quale hanno dedicato un interessante libro postumo dove traspare: ”l’uomo ha sempre guardato alle manifestazioni della natura con molto interesse, a volte come atterrito spettatore, altre volte con l’occhio più attento di chi vuol comprendere”. E’ con il suo spirito di comprensione che sto scrivendo su Napoli e ampi dintorni. Della bella città di Napoli, è bene subito correggere un  campanilismo informativo (dovuto al biologico territorialismo, più presente nel  popolo napoletano, che ha contagiato anche parte della borghesia e della nobiltà ancora esistente nel retroterra) diffuso a piene mani.

Del popolo napoletano sono quasi tutti innamorati (esempi eclatanti sono con il ritenere che il caffè, la pizza, la canzone, ecc. siano di qualità insuperabile in qualunque altra parte del globo) e quando si è innamorati non si vedono più i difetti ma solo i pregi. La nobiltà prima e la borghesia poi spesso hanno fatto leva sul popolo con la sua ingenuità dovuta spesso all’ignoranza, per governare con minore opposizione. Lo fece il colto e  e nobile Giulio Cesare, nonchè tanti altri Cesari di Roma caput mundi. Lo fa l’attuale e colto Sindaco ed ex Magistrato, L. De Magistris, figlio e nipote di magistrati, che più di altri è innamorato del suo popolo? Sembra di si e lo si vede anche come lo asseconda quando quel popolo vuole sacralizzare Diego Armando Maradona, quasi come Massimo Decio Meridio, ex generale dell’imperatore filosofo, Marco Aurelio, e poi “Il Gladiatore”, nel noto film che vuole vedere in Commodo un parricida, che interrompe il buon uso della nomina imperiale extradinastica. Lo faceva anche il Comandante e monarchico Achille Lauro, che proveniva direttamente dal popolo quando faceva il mozzo di navi, lo fa meno l’ex comunista e Governatore regionale, Vincenzo De Luca, quando ringrazia per il voto plebiscitario (del 64% di voti, quasi alla veneto leghista di Luca Zaia, che di voti ne ha avuti il 74%) e ringrazia prima la destra moderata. Insomma il popolo è sempre stato usato dai ceti più abbienti per la credulità come pure nel XVII sec. con Tommaso Aniello o Masaniello. Quando il ceto borghese sceglierà un suo membro come Sindaco o Governatore regionale? Se lo sceglie straniero della città e dintorni, forse farà cosa buona e giusta e non illuderà ancora quel popolo che ha necessità di essere più evoluto verso il cittadino e non restare suddito com’è ancora, purtroppo. I tempi lunghi non gli sono bastati come per popoli di altre città metropolitane. Bisogna cambiare rotta e senza continuare ad essere dalla parte del popolo per poi tradirlo col malgoverno della res publica.

Napoli ha per coordinate 40 gradi e 50 primi Nord e 14 gradi e 15 primi Est. Si estende su un territorio di 117,27 kmq ad una quota di piazza di 17 m (al Municipio) e al 3 giugno 2020 registrava 959,084 residenti con una densità di 8.178,43 ab./kmq. Napoli non è mai stata simile ad altre grandi città per cause naturalistiche e storiche come Roma (sorta nel 753 a. C.), Milano (fondata nel 590 a. C. dai Celti). La sua grandezza del passato è dovuta alla Roma imperiale con molte ville patrizie disseminate a nord e a sud del golfo, ma non nella città attuale. Prima di Roma, anche repubblicana, esistevano poche cittadine nel golfo di Napoli come Cuma a Nord, Cava dei Tirreni a Sud e Capua ed Alife nell’entroterra. Napoli è stata ed è rimasta più tipica di altre grandi città e metropoli europee e mai la città è stata superpopolata come attualmente. La sua origine naturalistica su di una caldera vulcanica (di non meno di 4 mila anni quando inizia una relativa stabilità geologica anche se bisogna partire da 42 mila fino ai 10,5mila anni fa) e sul litorale marino non ha consentito l’insediarsi di una numerosa popolazione a partire da Cuma (città derivata dai Greci di Calcide) e Dicearchia (città fondata già nel 531 a. C. da alcuni Greci fuggiti dall’isola di Samo per sfuggire ad una tirannide, quella di Policrate, nel 421 a.C. i Sanniti la occuparono) città cantata anche dal puteolano, Salvatore Brunetti, che ne ricorda con nostalgia l’onestà amministrativa paragonata ad oggi, che risente di riflesso forse del frequente malgoverno di Napoli. Nella pianura campana vi è Capua, oggi S.M.Capua V., che pare abbia una profondità storica maggiore di Napoli e di Cuma stessa anche se è alcuni non partono dagli Osci e Sanniti ma dagli Etruschi nel 524 a.C.. Virgilio, cantore ed innamorato di Roma augustea, attribuisce il nome Capua addirittura all’Eneide da Capi, un eroe troiano vicino ad Enea  (anche Padova avrebbe un’origine analoga con un altro eroe troiano, Antenore) e questo farebbe spostare la data della fondazione di Capua molto dopo a quella effettiva, accertata anche da reperti storici. Più probabile è la Capua degli Etruschi in una dimensione regionale più vasta posta sotto il nome di Volturnum. Per toponimia pertanto la città inizialmente potrebbe aver avuto il nome proprio di Volturnum per poi diventare Capua solo nel 423 a.C. con la conquista dei Sanniti Pentri. Il nome Volturnum sarebbe confermato da due fattori. Il primo è che gli Etruschi erano soliti dare i nomi ai villaggi che fondavano basandosi sul nome gentilizio che abitavano tali villaggi ed è confermato che in questa Capua originaria vivesse una gens etrusca di nome Velòurna. Altro fattore che confermerebbe tale nome è la presenza di un vento scirocco di nome proprio Volturnum che soffiava sulla zona dove vi era questo villaggio originario e tra l’altro tale vento sarebbe anche la causa della particolare forma ad orientamento invertito dell’asse cittadino evidentemente posto in questa maniera per impedire che il vento disturbasse i cittadini. La città di Napoli e terza per popolazione dopo Roma e Milano, ma prima, in Europa, per densità demografica nell’area metropolitana ed anche prima per l’abbandono scolastico, purtroppo. L’abbandono scolastico è un indicatore sociale e culturale che fa dell’ambiente napoletano e del suo immediato intorno un insieme caotico e poco edificante come evidenziano i media locali con la cronaca da “mezzogiorno di fuoco” per truffe e catene truffaldine di ogni risma con tentacoli che arrivano dappertutto. Il saggi di R. Saviano ed il film con la serie TV Gomorra, mettono in risalto quel popolo di cui sembra innamorato il Filosofo di sinistra nonchè saggista molto letto. Nel popolo napoletano (più che nella borghesia napoletana che spesso eccelle in molti campi dei saperi e delle professioni con eccellenze politiche uniche) spesso appare un’insolenza inusuale in altre realtà metropolitane europee. Essa sembra tipica dei lazzari, che forse grazie alle favorevoli condizioni climatiche e al rapporto privilegiato con la campagna circostante, benché miseri, riuscivano a sopravvivere senza eccessive preoccupazioni nel doversi procurare cibo e vestiario. Spesso sfaccendati, si adattavano a compiere qualsiasi mestiere che si presentasse loro occasionalmente, non disdegnando, talvolta, di compiere qualche piccolo furto o raggiro e, più spesso, mendicando. Per questo motivo il termine lazzarone è sinonimo, nell’italiano comune, di persona pigra e indolente, o poco di buono. Chi tuttavia interpretasse i “lazzari” come un gruppo rivoluzionario ante litteram rischierebbe di formulare un giudizio affrettato. In occasione dell’attacco francese al Regno di Napoli (gennaio 1799), infatti, essi combatterono contro l’esercito napoleonico, in nome della tradizione cattolica, e difesero Ferdinando IV. Il Sociologia e Prof. dell’Università di Padova, Sabino Acquaviva, spesso diceva che il popolo meridionale è stato usato come una sorta di “mazzacane” (piccole pietre per il riempimento di superfici concave irregolari o come riempimento tra il pietrisco di maggiori dimensioni) nelle grandi rivoluzioni storiche e lo è stato anche durante e dopo il noto 68. In altri termini usava l’eufemismo per dire che molti del Sud Italia non erano avanguardie nei mutamenti innovativi sociali e culturali. Lo diceva alle lezioni d’Ecologia Umana a cui partecipai come perfezionamento postalaurea. Per il lettore ricordo che il citato prof., d’origine ebrea, è stato al di sopra delle parti e ha scritto non pochi saggi sociologici di grande valore culturale e mai provinciali e con notevole presenza di saperi scientifici che nell’ambiente di Padova erano quasi più di casa con un Galileo che vi ha insegnato 18 anni dal 1592 al 1610. Ma anche a Napoli la scienza è stata di casa e nel 2015 non a caso sono state dedicate “Due settimane ‘Nel segno di Darwin’, ciclo di manifestazioni per celebrare il celebre scienziato organizzato dall’Ateneo in collaborazione con Città della Scienza e la Stazione Zoologica ‘Dohrn’, nell’ambito di F2 Cultura, il programma culturale che la Federico II propone alla sua comunità, alla cittadinanza e alle scuole. Nel segno di Darwin si compone di molteplici iniziative. Nell’ambito di queste, dal 9 al 24 febbraio 2015 il Centro Musei delle Scienze Naturali e Fisiche dell’Università di Napoli Federico II promosse l’evento “Grazie Darwin per ricordare, appunto, il celebre naturalista inglese Charles Darwin, le cui geniali intuizioni ispirarono la teoria dell’evoluzione alla base di tutta la moderna biologia.

A Napoli la Stazione zoologica dedicata al naturalista e zoologo tedesco Anton Dohrn  è un’istituzione scientifica ed ente di ricerca situata nella Villa Comunale. Fu la prima istituzione di derivazione non borbonica e fu fondata proprio a Napoli per scelta dello stesso Dohrn, affascinato dalla città e interessato per la ricchezza faunistica del golfo. L’acquario di Napoli con annessa Stazione zoologica divennero un centro mondiale di studio della biologia marina.  Dopo aver visitato un acquario aperto a Berlino, Dohrn pensò che aprire a Napoli un acquario a pagamento avrebbe garantito al laboratorio abbastanza soldi da pagare il salario ad un assistente permanente. Napoli, con una popolazione di 500.000 abitanti, era una delle più grandi ed attraenti città d’Europa, ed aveva anche un considerevole flusso di turisti (30.000 all’anno) che avrebbero potuto essere potenziali visitatori dell’acquario. Presso la Stazione Dohrn si svolgono oggi ricerche nel campo della Biologia e dell’Oceanografia, in maniera interdisciplinare negli specifici campi di saperi naturalistici. La Stazione ha in dotazione la Vettoria, una nave di ricerca appositamente studiata per operare campionamenti del mare nel campo della biologia ed ecologia marine. L’acquario della stazione zoologica, assieme all’erbario, all’archivio storico, alla biblioteca ed alla interessante collezione zoologica, è all’interno dell’edificio della Stazione e rappresenta una delle strutture più antiche in ambito europeo di questo genere. Fu aperto al pubblico nel gennaio del 1874. Oggi l’acquario contiene circa trenta vasche con oltre duecento specie marine di animali e vegetali, la maggior parte delle quali provengono dal Golfo di Napoli. Periodicamente sono ospitate diverse tartarughe marine, prevalentemente della specie Caretta caretta, recuperate ferite in mare ed in attesa di essere reintrodotte nel loro originario habitat. Nel 1957 è stata inserita una nuova sala in cui è stata trasferita la biblioteca. Geologicamente, il territorio napoletano è una caldera in quiescenza con un diametro di 12–15 km, i cui limiti sono dati dalle colline di Posillipo, di Camaldoli e dai rilievi settentrionali del cratere di Quarto, la collina di Sanseverino, l’acropoli di Cuma, e Monte di Procida. In questo circuito si trovano numerosi crateri e piccoli edifici vulcanici (circa 24), alcuni dei quali presentano manifestazioni gassose effusive come la Solfatara o idrotermali come Agnano, Pozzuoli e Lucrino, nonché il più noto bradisismo riconoscibile per la sua entità nel passato nel cosiddetto tempio di Serapide a Pozzuoli).

Il Monte Nuovo del territorio di Pozzuoli (comune di oltre 80.00 puteolani) è un vulcano apparso d’improvviso nel 1538 ed è indice di un dinamismo del sottosuolo notevole. In questo territorio Roma caput mundi volle realizzare il porto per collegarsi all’Oriente fino a quando l’imperatore Traiano non costruì quello più artificiale di Ostia. A Pozzuoli vi sono non pochi edifici monumentali di epoca romana, fra cui l’antico mercato (Macellum) chiamato “Tempio di Serapide”, il Tempio di Augusto, trasformato poi in duomo della città e recentemente restaurato, grandi edifici termali, tratti di strade romane, ampie necropoli monumentali (tra cui la necropoli di via Celle), e ben due anfiteatri di cui l’Anfiteatro Flavio che è il terzo più grande d’Italia. Il collegamento dei Campi Flegrei con Napoli avveniva attraverso la Crypta Neapolitana, galleria scavata nella roccia di tufo in epoca romana. All’ingresso della crypta si trova un colombaro di epoca imperiale identificato come la tomba del mantovano, di padre, Virgilio. Il Lago d’Averno e la grotta in tufo di forma trapezoidale della Sibilla Cumana sono due ambienti mitici e storici ricchi di segni che hanno ornato tutta la immensa storiografia del passato e descritto con fantasia universale il misterioso e labile confine tra l’ambiente della vita e della morte dell’Homo sapiens andando con Virgilio, Dante, Ovidio e così via ben oltre la morte stessa. Pozzuoli acquista valore extralocale con l’arrivo dei Romani nel 338 a. C., che vi stanziano un porto ed una notevole flotta, comandata da Plinio il Vecchio, quando accorse a prestare soccorso agli scampati dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Sul Vesuvio vi sono salito di pomeriggio, con mio fratello Antonio, nell’estate del 1984 mentre ero commissario d’esame di maturità al liceo scientifico “R. Caccioppoli” di Napoli. Del matematico geniale a Napoli si raccontano ancora molte cose, ma è indice che nella locale Università “Federico II” non si laureano solo giuristi ed umanisti eccellenti, ma anche dei saperi scientifici come l’immunologo Giulio Tarro, amico di Sabin, il Naturalista Pietro Omodeo poi docente all’Università di Padova, ecc. All’Università Federico II ebbi come docenti di rilievo gli zoologi B. De Lerma e P. Battaglini, i geografi L. Brancaccio e U. Moncharmont (Naturalista che fu anche consulente della Stazione Zoologica A. Dohrn), l’ecologo M. Merola, i geologi P. Scandone il vulcanologo L. Casertano, ecc. Sul media ”Occhio di Napoli” del 3 febbraio c.a. fu riportato un mio articolo ”Dell’eruzione catastrofica del Vesuvio del 79 d. C., vengono rinvenute, ad Ercolano, 7 proteine cerebrali vetrificate”.

Sul Vesuvio vi salimmo con la ripida funicolare ”nota dalla canzone Funiculì Funiculà” che il napoletano presidente della Reupplica, Giovanni Leone, cantò a Mosca negli anni Settanta. Dalla cima sud del conetto vesuviano, a circa 1260 m di quota, un po’ più bassa del bordo a nord di 1285 m- la città si scorgeva in lontananza avvolta in un alone misterioso eppure abbastanza noto dagli storici, archeologi, vulcanologi, geologi, sociologi, ecc.. Il Vesuvio è posto nel versante sud-est della città metropolitana del Golfo di Napoli con il territorio dell’omonimo parco naturale nazionale istituito nel 1995. Con un’altezza, al 2010, di 1.281 m, il vulcano sorge all’interno di una parziale caldera di circa 4 km di diametro, caldera che è la parte restante di un precedente edificio vulcanico, l’attuale Monte Somma (alto sui 3.000 metri prima dell’eruzione del 79 d. C. che ne determinò il crollo del fianco sud in corrispondenza del quale si sarebbe formato il cono attuale con il suo cratere. Per questo l’intero complesso vulcanico, detto Somma-Vesuvio, è classificato come vulcano a recinto, e con il nome Vesuvio ci si riferisce comunemente al cono interno, o Gran Cono con fumata eruttiva del 1944 ripresa dagli aerei americani.

In Vulcanologia redassi la mia tesi di laurea a Napoli con il prof. Lorenzo Casertano, noto divulgatore con non si rifugiava nelle torri d’avorio degli scienziati ma scriveva di vulcanologia anche nelle pagine scientifiche di noti quotidiani nazionali. Egli non era un docente provinciale, come tanti, e conosceva anche i vulcani e lo società dell’America Latina, ecc. per conto del Ministero A. Esteri. La mia tesi però non fu sul Vesuvio ma sul Krakatoa su indicazione del relatore suddetto che mi disse: “ci sono già più tesi sul Vesuvio che potrebbero se messe in pila, superarne quasi l’altezza, mentre sul Krakatoa c’è solo un romanzetto di un carcerato olandese che grazie all’eruzione si salvò”! Ma torno a Napoli e al Vesuvio per rammentare che vidi quel pomeriggio del 1984 vivificati i riti della fecondità che venivano praticati alle turiste in cima al Vesuvio: si accendeva un sigaro e lo si aspirava facendo fumo sotto la gonna delle stesse che desideravano avere figli e non li avevano ancora avuti. Non erano guide autorizzate né colte, ma popolane e popolari con quella tipica insolenza. Qualche turista vide in loro la lunga mano della camorra per il modo di are, senza alcuna ricevuta e tessera di riconoscimento. Ma a Napoli i parcheggiatori abusivi e la corsa della speranza verso ospedali lontani è una costante e se qualche milanese lo dice pubblicamente, sia pure con poco bonton, apriti o cielo per lesa maestà della napoletanità dalla coda di paglia o del diffuso meridionalismo piagnone ben presente nella piccola borghesia parassitaria del Sud nostrano, mentre i merdionalisti non piagnoni sono ancora una minoranza, purtroppo. Il mito, la tradizione e qualche volta la superstizione, il malocchio, ecc. nell’ambiente di Napoli e ampia periferia, non mancano mai. Nell’antichità si pensava che il Vesuvio fosse consacrato ad Ercole all’eroe semidio, ed Ercolano la città alla sua base, si credeva che anche il vulcano, seppur indirettamente traesse origine dal nome dell’eroe greco. Ercole infatti era il figlio che il divino Giove aveva avuto da Alcmena, regina di Tebe. Ercole sarebbe diventato il “figlio di Hýēs“, da cui sarebbe derivato il latino Vesuvius. Una tradizione popolare della fine del Seicento (portata avanti dall’abate e storico Camillo Tutini) vorrebbe invece che la parola derivi dalla locuzione latina Vae suis! (“Guai ai suoi!”), giacché la maggior parte delle eruzioni sino ad allora accadute, avevano sempre preceduto o posticipato avvenimenti storici importanti, e quasi sempre carichi di disgrazie per Napoli o la Campania. Un esempio su tutti: l’eruzione del 1631 sarebbe stato il “preavviso” naturale dei moti del 1647 di Tommaso Aniello o Masaniello. Nelle poesie napoletane sul Vesuvio di fine Ottocento si può trovare il Vesuvio chiamato la Montagna (con l’articolo e la lettera M in maiuscolo) per indicarne la maggiore importanza rispetto alle altre. Nelle canzoni napoletane la Montagna viene spesso invocata come tetra di presagi. La lingua napoletana è famosa anche per il festival della canzone napoletana sempre più affidata ad ambienti popolari. Di glottologi e filologi della lingua napoletana l’ambiente di Napoli e dintorni non ne manca, ma ne ricordo uno in particolare anche per la passione civile, Salvatore Brunetti, che ho conosciuto a Bojano (CB) più di una ventina d’anni fa e che scrisse la presentazione del mio saggio “Piedimonte M. e Letino tra Campania e Sannio”, edito nel 2011 e presentato nella biblioteca civica di Piedimonte Matese due anni fa con la presenza del colto Dirigente liceale di Teano, P. Mesolella, nonchè direttore del primo media digitale casertano.

Del mito de fiume Lete S. Brunetti è rimasto positivamente colpito nonché ha definito ”sacrale” il costume tradizionale di Letino, mio paesetto natale.  L’illustre musicologo e recuperatore di tradizioni popolari, suddetto, è fra quanti sostengono che il puteolano è uno dei pochi dialetti che ha conservato caratteristiche originali e una particolare musicalità dovuta alla presenza di iati e dittonghi. Ai napoletani è sembrato sempre assai strano che in un territorio contiguo alla città, così vicino e collegato, si potesse parlare in modo tanto diverso. Il libro è stampato da Lux in Fabula, associazione culturale animata dall’artista visivo Claudio Correale, che da trenta anni promuove cultura e conoscenza del territorio flegreo, documentando le vicende legate al bradisismo, la storia e la produzione letteraria, il tutto a disposizione di tutti, gratuitamente sul proprio sito Web. Virgilio parla puteolano. Un saggio storico sul dialetto dei Campi Flegrei, che viene avvertito come «straniero» dai napoletani. Corriere del Mezzogiorno (Campania), 10.07.2019, di Eleonora Puntillo.

La rivisitazione-rivalutazione delle lingue autoctone sembra però ignorare il fenomeno puteolano, anche se qualche anno fa nella Facoltà di Lettere vi fu un tentativo di approfondimento glottologico, una tesi di laurea (La dittongazione nel dialetto puteolano di Anastasia Manna) parve l’inizio di un’attenzione, rimasta senza seguito. Adesso, mentre in quel di Capodimonte ad iniziativa del Museo si tiene un corso di lingua napoletana, a Pozzuoli viene pubblicato il saggio storico-grammaticale Dialetto puteolano di Salvatore Brunetti, libro nato da un dialogo con il maestro Roberto De Simone. Si andava a Pozzuoli anche per farsi due risate nel sentir parlare i puteolani, con quel loro strano modo di strascicare e arricchire le vocali appoggiandovi sopra un tono forte e lungo, e accoppiandole con altre vocali. Ai napoletani è sembrato sempre assai strano che in un territorio contiguo alla città, così vicino e collegato, si potesse parlare in modo tanto diverso.

La rivisitazione-rivalutazione delle lingue autoctone sembra però ignorare il fenomeno puteolano, anche se qualche anno fa nella Facoltà di Lettere vi fu un tentativo di approfondimento glottologico, una tesi di laurea (La dittongazione nel dialetto puteolano di Anastasia Manna) parve l’inizio di un’attenzione, rimasta senza seguito. Adesso, mentre in quel di Capodimonte ad iniziativa del Museo si tiene un corso di lingua napoletana, a Pozzuoli viene pubblicato il saggio storicogrammaticale “Dialetto puteolano” di Salvatore Brunetti, libro nato da un dialogo con il maestro Roberto De Simone. Salvatore Brunetti è fra quanti sostengono che il puteolano è uno dei pochi dialetti che ha conservato caratteristiche originali e una particolare musicalità dovuta alla presenza di iati e dittonghi. Il libro è stampato da Lux in Fabula, associazione culturale animata dall’artista visivo Claudio Correale, che da trenta anni promuove cultura e conoscenza del territorio flegreo, documentando le vicende legate al bradisismo, la storia e la produzione letteraria, il tutto a disposizione di tutti, gratuitamente sul proprio sito Web. Appare singolare la somiglianza del dialetto puteolano con la parlata di Torre Annunziata e di Marcianise, spiegabile con l’ipotesi che la fuga della popolazione causata dall’eruzione del Montenuovo (settembre 1538) ebbe due direttrici, per i pescatori verso il dirimpettaio centro marittimo, per i contadini verso quell’entroterra agricolo. In entrambi i centri il dialetto s’è mantenuto nei secoli, confermando così la sua forza. Nelle cento pagine di Salvatore Brunetti c’è proprio tutto: la grammatica, la scrittura, le coniugazioni dei verbi, la dittongazione per cui la «i» diventa «ei», la «e» si fa «ae», e via dicendo, sicché la popolare diva puteolana diventa Sofeia Loraen, che è ovviamente ‘a reigeina; e viene reso con rara efficacia quel modo di pronunciare le parole che tanto fa sorridere gli «stranieri». E che anche Brunetti definisce «singolare» quando racconta che la vocale «u» viene accompagnata dai puteolani dalla consonante «v», per cui uno diventa veuno, paura si pronuncia paveura, e via dittongando. Particolarmente interessante la coniugazione dei verbi, col napoletanissimo «songo» (sono) che diventa saongo, l’italiano «corro» diventa caorro, mentre i pronomi cambiano totalmente colore tranne il primo e l’ultimo: io, teu, iesso, neuie, veuie, loro. Brunetti ha voluto divertirsi e divertire i lettori: ha piazzato un ricchissimo «gran finale» fatto di denominazioni dialettali di luoghi tipici (ncopp’ ‘a Deumiziana, abbascio ‘i Cappucceine), dialoghi più o meno filosofici (‘u pueta cheurneuto ovvero il poeta cornuto), le traduzioni in puteolano non solo di numerose canzoni napoletane ma anche della prima Bucolica di Virgilio (il poeta latino da queste parti era di casa): «Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi…» che fu da Brunetti recitata (per intero, con grande divertimento dei latinisti) in un convegno sul poeta latino: «Viat’ a taè Teìtero che staie cheuccato ‘u ccupierto saott’ ‘i ffrasche ‘i neu faggio…». La città del Sole e della canzone mondiale “O Sole Mio” ha un clima mite o ottimo del tipo mediterraneo come ho studiato anche al Corso di Meteorologia Aeronautica all’Aeroporto di Capodichino nel 1973 con tanto d’esame d’ammissione e finale per il Diploma. A Napoli gli inverni sono e piovosi e le estati calde e secche nonchè rinfrescate dalla brezza marina sul golfo partenopeo. Secondo la classificazione convenzionale di Koppen, Napoli, nella sua fascia costiera, appartiene alla zona C e in un mese d’estate riceve una quantità di precipitazioni superiore a 40 millimetri. Il sole splende mediamente per 250 giorni l’anno. La particolare conformazione morfologica del territorio del capoluogo, comunque, è tale da fare in modo che la città possieda al suo interno differenti microclimi, con la possibilità quindi di incontrare variazioni climatiche anche significative spostandosi di pochi chilometri. Da un filmato recente che ho visto ed udito in streming noto come valenti personalità della cultura locale, fatta eccezione per il vulcanologo, pendono nel senso che si sentono più vicine al popolo napoletano che commiserano, giustificano ed assolvono sempre. Ma chi è questo popolo o moltitudine? Siamo tutti e nessuno, ma il legislatore vi ha voluto riporre il potere e qualunque sentenza inizia in nome del popolo italiano. Esso vota senza più distinzione di possidenti né di possesso di titolo di studio obbligatorio, basta avere la cittadinanza italiana per esercitar il diritto di voto anche se oltre il 40% dei campani non si reca più alle urne. Invece per l’ambiente già abbiamo distinto le varie specificità ma non di quello politico che appare più vago, ma Napoli inizia come polis greca dopo Cuma e altrove. La vulcanologia ci dice che all’origine Napoli si insedia su di una forma distintiva di teatro che era ad est dell’attuale Maschio Angioino e area portuale. Poi da Cuma pian piano si è spostata verso piazza mercato ed infine fino a Posillipo e retroterra collinare.

A parte la città della canzone “o sole mio”, della pizza napoletana con l’arte dei suoi pizzaioli che è stata valutata, nel 1995, dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità nonché per i suoi monumenti, che testimoniano la successione dell’esistere di culture mediterranee ed europee. Nel 1997 il vulcano più noto al mondo con l’apparato Somma-Vesuvio è stato eletto dalla stessa agenzia internazionale (con il vicino Miglio d’Oro, in cui ricadono anche i quartieri orientali della città) tra le riserve mondiali della biosfera. Durante Roma e l’organizzazione statale romana Napoli è cresciuta di popolazione, prima era di poco più popolata di Pompei e di Capua. La storiografia ufficiale dice che Napoli ebbe origine dapprima come Cuma dei cumani. VIII sec. a.C. poi fu tra le città più importanti della Magna Grecia e dopo fu contesa tra i Romani e i montanari Sanniti dell’interno prima e dai Longobardi e Normanni poi con centro Aversa.

Attorno a Napoli più che nell’area urbana poco rilevante, Roma caput mundi fu presente con molte ville nobiliari sia a Bacoli sul litorale Nord che Sud come la villa di Tiberio a Capri. A Pozzuoli vi era il porto militare romano di Lucrino con la flotta che

Monete di Alife al tempo dei Sanniti.

nel 79 d.C. accorse comandata da Plinio il Vecchio per soccorrere gli scampati dall’eruzione Pliniana e che Plinio il Giovane nipote del grande Naturalista, descrisse bene l’eruzione e la inviò a Tacito. Tale descrizione minuziosa per allora fu il primo documento scientifico del fenomeno vulcanico attivo che dimezzò il monte fino agli attuali 1270 m. Da allora il Vesuvio risulta il vulcano più studiato del mondo.

 

Dopo la caduta dell’Impero romano d’occidente del 476 d. C. la città nel VII sec d. C. diede origine al ducato indipendente dall’Impero Romano d’Oriente o di Bisanzio; in seguito, dal 1200 e per più di cinquecento anni, fu capitale del Regno di Napoli con la Restaurazione divenne capitale del Regno delle Due Sicilie sotto i Borboni, nobili spagnoli, fino all’avventuriero genovese Garibaldi e al nobile piemontese Savoia con il titolo reale di Vittorio Emanuele II che unificò l’Italia in un unico grande Stato nel 1861 e 1866. Napoli ha avuto la sede nel XIII sec. dell’Università regia, Federico II, nonostante questi regnasse dalla città di Palermo 3 volte più popolata di Napoli che registrava meno di 50 mila ab. Lo Stupore del mondo e colto re svevo volle la più antica università del mondo ad essere nata attraverso un provvedimento statale, ma si aggiunge poi, l’ Orientale, la più antica università di studi sinologici e orientalistici del continente, e l’antica accademia militare della Nunziatella. Nel 1971 Napoli registrò il massimo di residenti in città di 1.227.000, mentre nel 1861 ne registrava solo 484.000 con ben 130 nobili casate con palazzi in centro di Napoli e ducati, contee e baronie in tutto il regno dei Borboni da cui traevano rendite, prodotti alimentari e servitori a basso costo. Napoli è sempre stata, più di altre città europee un ambiente di due classi sociali preminenti: il popolo povero e incolto o cafone e i nobili ricchi, colti o dai modi gentili e dal fare cortese, che attiravano loro simili da molte parti d’Europa. L’Ambiente napoletano l’ho conosciuto e vissuto mentre studiavo alla sua Università, fondata dallo svevo Federico II nel XIII sec. per formare i quadri amministrativi del suo vasto impero europeo, mentre le Università di Bologna e Padova non erano, inizialmente, statali né abbastanza laiche come quella di Napoli, che dovrebbe fare più leva su tale carattere ghibellino ancora oggi.

Federico II era un sovrano più colto degli altri sovrani europei, parlava in più lingue compreso l’arabo. Con lo stato del Vaticano e dunque con il papa re non ebbe un rapporto idilliaco e ne causò anche la sua scomunica papalina per la lotta di investitura dei vescovi dappertutto in Europa, un vecchio braccio di ferro che continua ancora oggi con la Cina e Francesco, vedi l’ultimo accordo segreto ed avversato dagli Usa. Da ricordare che all’Università di Napoli Federico II, si istitui la prima cattedra dei Economia politica del mondo, le prime cattedre di zoologia  e di genetica in Italia. All’Università di Napoli, nonostante la popolazione studentesca si moltiplicasse, portandola al terzo posto in Europa, dopo Berlino e Vienna, gli edifici a disposizione  erano carenti e talvolta non adeguati. Nel 1884 l’Università fu spostata nella nuova sede di Corso Umberto e via Mezzocannone dov’è risiede ancora. L’Università di Napoli dall’Ocse non viene ancora valutata in graduatoria internazionale tra i posti d’eccellenza e spesso appare oggetto di cronache truffaldine di esami e professori, come recentemente, ma volendo evidenziare soprattutto gli aspetti più edificanti sembra utile il progetto educativo “I Musei narrano la Scienza”. Esso è un’esperienza significativa per facilitare l’apprendimento delle scienze naturali e la formazione del cittadino e come tale trasversale a tutti gli ordini di scuola. Nel mio saggio “Canale di Pace…”, in c. di s., delineo l’evoluzione del suddito in cittadino e nell’ambiente campano essa appare meno facile. Non sempre la scuola riesce a ”compiere il miracolo di trasformare il suddito in cittadino” come preannunciava Pietro Calamandrei. Il Centro Museale “Centro Musei delle Scienze Naturali” dell’Università di Napoli Federico II, istituito nel 1992, è una struttura pubblica fortemente impegnata nella corretta diffusione della cultura scientifica. Al Centro Museale afferiscono il Real Museo Mineralogico (istituito nel 1801), il Museo Zoologico (1813), il Museo di Antropologia (1881) e il Museo di Paleontologia (1932), ospitati nei complessi del San Salvatore e di San Marcellino e Festo, edifici di rilevante interesse culturale ed artistico. In particolare, le collezioni mineralogiche sono esposte nel prestigioso salone monumentale un tempo Biblioteca del Collegio dei Gesuiti, mentre le collezioni paleontologiche sono esposte nel complesso di San Marcellino e Festo, recentemente ristrutturato. Nel complesso il Centro occupa una superficie di 2800 mq e custodisce più di 150.000 reperti e vanta circa 35.000 visitatori l’anno. Il patrimonio museale è vasto e le collezioni documentano numerosi aspetti del mondo della Natura connessi con le attività di ricerca degli scienziati napoletani e con il territorio. Le collezioni dei Musei naturalistici della Federico II non sono, quindi, solo “gioielli” da mettere in mostra ma anche la testimonianza della vivacità scientifica degli studiosi che operarono ed operano nella nostra regione. Protocollo d’intesa tra il Centro Museale della Federico II e la Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania. Ma l’ambiente culturale napoletano era e resta ancora, purtroppo, prerogativa della classe media e del ceto borghese e pochi ancora sono i figli del popolo a frequentarla e soprattutto concludere gli studi universitari. Da Padova rilevo non poche differenze ambientali tra i due atenei di quasi stessa grandezza di frequenza studentesca. L’Ambiente patavino a me pare è più aperto anche ai figli del popolo, meno estrai a varcare i portoni casalinghi dell’Università e premia meglio lo studente patavino rispetto a quello partenopeo, che adesso ha solo l’imbarazzo della scelta di più sedi. Eletta patrimonio storico e culturale dei Paesi del Mediterraneo da parte dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo, Napoli ha rivestito e riveste tuttora un forte peso in numerosi campi del sapere, della cultura non solo meridionale italiano ed europeo ma mondiale. Essa fu protagonista con altre città dell’umanesimo, dell’illuminismo e del rinascimento, barocco, liberty napoletano e il caravaggismo  nonchè della musica e delle arti minori come la porecellana di Capodimonte ed il presepe napoletano che sicuramente quest’anno rivaluterà il suo idolo calcistico, Diego Armando Maradona, che ha lasciato molti nomi omonimi a Napoli.

Il mito di Maradona a Napoli non è solo popolano e popolare anche se in Campania, secondo il rapporto sul benessere equo e sostenibile 2018 (BES), curato da Istat, il 19% degli iscritti a scuola lascia prematuramente gli studi. Si va dal 22% di Napoli, al 18% di Caserta, al 15% di Salerno, fino a realtà come Avellino dove i giovani con solo la licenza media sono meno dell’8% del totale. Al bar frequentato da Maradona vicino ai Quartieri Spagnoli già si conserva una ciocca di capelli dell’eroe del calcio quasi come una reliquia. Sembra che prima ancora delle reliquie di San Gennaro quelle di Maradona saranno destinate a maggiore devozione. Eppure del beneventano martire cristiano del 305 d. C., Gennaro, martirizzato alla Solfatara di Pozzuoli, c’è la reale cappella del Tesoro di San Gennaro, che è una cappella barocca del duomo di Napoli voluta dai napoletani per un voto al loro patrono. Si tratta di una delle massime espressioni artistiche dell’ambiente napoletano. Le decorazioni pittoriche e ad affresco dell’interno, fanno della cappella l’epicentro della pittura barocca emiliana a Napoli.

Grazie a diverse bolle pontificie, la reale cappella non appartiene alla curia arcivescovile. ma alla città rappresentata da un’antica istituzione civica, ancora oggi esistente, la Deputazione, e dai sedili di Napoli. A Napoli altre reliquie pure sono da ricordare come quelle del principe romeno del XV sec.,Vlad III detto Dracula, che la figlia Maria maritata al conte Ferrillo fece tumulare nella centrale chiesa di Santa Maria la Nova, non lontano dalla cappella del Cristo velato. Di ciò ho scritto non poco sui media campani soprattutto dopo il saggio “Vampiri e Romania”, leolibri.it. Napoli merita altri punti di richiamo turistico per l’indotto economico ed anche per un turismo culturale in crescita dappertutto.

 

 

 

Da ricordare inoltre l’ambiente illuministico, che nel 1799 vide quel movimento di intellettuali che diede vita ai moti e alla (breve) esistenza della Repubblica Partenopea con reazione borbonica che incrementò i martiri della libertà dai Borboni e ne fece uccidere oltre 120 compresa la colta straniera Eleonora Pimentel Fonseca, che prima di morire citò Virgilio: ”Forsan et haec olim meminisse iuvabit” (Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo). Lapide commemorativa a Procida in Piazza dei Martiri, luogo delle prime esecuzioni dei 122 esponenti della Repubblica Napoletana del 1799, giustiziati dalla politica restauratrice repressiva dei Borboni dopo la caduta della repubblica con l’albero della libertà. Tra essi, 119 uomini e tre donne. Le esecuzioni cominciarono a Procida già alcuni giorni prima della caduta della Repubblica, il 1º giugno del 1799, per concludersi oltre un anno l’11 settembre 1800 a Napoli.Le condanne vennero eseguite quasi tutte per impiccagione (ai nobili venne per lo più comminata la decapitazione), tra Procida (nell’attuale Piazza dei Martiri) e Napoli, in piazza del Mercato, luogo storicamente deputato alle esecuzioni. Si ricordano gli eroi non del calcio né della chiesa, ma del vivere civile anche se i punti di vista storici non sono unanimi: Ercole D’Agnese nato a Piedimonte d’Alife il 3 maggio 1745, prof. universitario di filosofia del diritto e, in seguito, presidente della Repubblica Partenopea, giustiziato a Napoli il 1º ottobre 1799, seppure nobile, per impiccagione. Fu giustiziato, sebbene versasse in condizioni disperate a causa degli effetti del veleno che ingurgitò per sfuggire all’esecuzione, a Piazza del Carmine a Napoli; Colombo Andreassi, nato in Abruzzo il 19 ottobre 1770, avvocato, giustiziato, Gennaro Felice Arcucci, nato a Capri il 5 gennaio 1738, medico, giustiziato a Napoli il 18 marzo 1800,Vincenzo Assante, nato a Procida, di 55 anni, chirurgo, giustiziato a Procida il 1º giugno 1799,Pasquale Assisi, nato a Cosenza il 5 gennaio 1750, ufficiale di fanteria, giustiziato a Napoli il 14 ottobre 1799, Francesco A. Astore, nato nel Salento il 28 agosto 1742, avvocato, giustiziato a Napoli il 30 settembre 1799; Pasquale Baffi nato, prof. dell’università di lingua e letteratura greca, giustiziato a Napoli l’11 novembre 1799; Francesco Bagno, nato nel casertano il 26 giugno 1774, prof. di medicina nell’Ospedale degli Incurabili, giustiziato a Napoli il 28 novembre 1799; Giuseppe Carlo Belloni, nato a Vicenza il 4 febbraio 1754, minore osservante di Santa Maria la Nova, giustiziato a Napoli il 13 luglio 1799; Domenico Bisceglia, nato in provincia di Cosenza il 3 gennaio 1756, avvocato, giustiziato a Napoli il 28 novembre 1799;Luigi Bozzaiotra, nato nel 1763, notaio, giustiziato a Napoli il 22 ottobre 1799; Francesco Buonocore, nato a Ischia il 30 novembre 1769, comandante d’artiglieria del castello d’Ischia, giustiziato a Procida il 1º giugno 1799; Giuliano Colonna principe di Aliano, nato a Napolia il 3 ottobre 1769, giustiziato a Napoli il 20 agosto 1799; Saverio Caputo, marchese della Petrella, olivetano di Sant’Anna de Lombardi, prof. di teologia, giustiziato a Napoli il 31 ottobre 1799;Francesco Caracciolo nato a Napoli il18.01.1752 ammiraglio, giustiziato a Napoli il 29 giugno 1799; Ettore Carafa, conte di Ruvo e duca di Andria, nato ad Andria il 10.08.1763, giustiziato a Napoli il 4 settembre 1799;Domenico Cirillo, medico, botanico e prof. universitario, giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1799; Ignazio Ciaia, letterato, giustiziato a Napoli il 29 ottobre 1799; Francesco Conforti, sacerdote, professore di storia, giustiziato a Napoli il 7 dicembre 1799;Onofrio De Colaci, magistrato, giustiziato Napoli il 22 ottobre 1799; Vincenzo De Filippis prof. di matematiche nell’università di Bologna, giustiziato a Napoli il 28 novembre 1799; Antonio Sardelli, nato in Puglia il 18 aprile 1776, avvocato, giustiziato a Napoli il 7 dicembre 1799;Onofrio Schiavo, nato a Procida farmacista, giustiziato a Procida il 1º giugno 1799; Salvatore Schiano, nato a Procida di 53 anni, notaio, giustiziato a Procida il 1º giugno 1799;Giuseppe Schipani dei duchi di Diano di Salerno, di 60 anni, generale, giustiziato a Ischia il 19 luglio 1799; Antonio Scialoja, nato a Procida di 51 anni, sacerdote, giustiziato a Procida il 15 giugno 1799;Marcello Eusebio Scotti, nato a Napoli il 9 luglio 1742, sacerdote in Procida, giustiziato a Napoli il 4 gennaio 1800; Giuseppe Sieyes, nato a Napoli nel 1763, negoziante vice-console di Francia, giustiziato a Napoli il 24 settembre 1799; Agamennone Spanò, calabrese di 34 anni, generale e comandante della Guardia Nazionale, giustiziato ad Ischia il 19 luglio 1799; Antonio Tocco, nato a Napoli nel 1772, avvocato, giustiziato a Napoli il 14 ottobre 1799; Antonio Tramagli, Conte Palatino, Grand’Ufficiale, Avvocato Cassazionista, nato a Napoli nel 1771, giustiziato per decapitazione a Napoli il 7 luglio 1799; Domenico Vincenzo Troisi, nato vicino a Latina il 23 dicembre 1749, prete dei Vergini di Napoli, prof. dell’università, giustiziato a Napoli il 24 ottobre 1799; Giovanni Varanese, nato nel campobassano il 13 luglio 1777, studente di medicina, giustiziato a Napoli il 22 ottobre 1799. Con l’attuale rivoluzione digitale e dello smart working i cambiamenti locali e globali sono sorprendenti. Lo smart working, mediante il suo approccio lavorativo telematico, va ad impattare su diversi attori economici. In particolare sso modificherà la vita dei lavoratori,  delle aziende, del sistema economico locale e globale. Ma qual è il suo impatto sul futuro a livello macroeconomico globale oltre allo sconvolgimento economico generato dallo smart working localmente? Si prevede, per quanto possibile, come i cambiamenti che inevitabilmente lo smart working porta con sé possano modificare le economie nazionali e quali problemi o crisi potrebbero manifestarsi. Si va anche ad anticipare quelle che potrebbero essere le plausibili contromosse a livello politico e di gestione sovranazionali, fino a giungere a quella che alla fine, con buona probabilità, sarà la soluzione finale che permetterà di ritornare all’equilibrio economico. Sarà notevole lo sconvolgimento con l’introduzione  della digital economy , che sconvolgerà anche gli equilibri economici nazionali ed internazionali. Non a caso gli esperti dicono che si sta entrando nel pieno della IV rivoluzione industriale che avrà lo stesso impatto che ebbe l’introduzione della corrente elettrica. Per l’ambiente di Napoli ed ampio dintorni, la digitalizzazione è ancora non ottimale ed è ora di dinamizzare l’innovazione in modo che tutti possano applicare la innegabile creatività napoletana a cercare nuovi lavori a distanza, senza più fare la fila per un posto di operatore scolastico, infermiere, assistente tecnico, poliziotto, eccetera, eccetera.

 

 

Prof. Giuseppe Pace

 

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