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Scuola, Regionalizzarla è benefico per l’Italia che spende 50 miliardi annui. In Veneto e Campania va regionalizzata: ecco una ricetta liberista

Napoli, 9 Febbraio – Per un ex docente anche all’estero, il paragone tra sistemi scolastici diversi è stimolante anche per indicare- a tarda età- una scuola migliore di oggi. Per il Partito Pensionati in Veneto la ricetta è semplice e democratica, più di quella attuale, perché liberista: la scuola come altri servizi sociali, va decentrata all’utenza per la qualità. Eccome? Non certo come propone il partito di maggioranza attuale in Veneto né come l’opposizione che è per lo stato quo. Bisogna, invece, responsabilizzare gli studenti, dopo i 16 anni, e ai genitori per gli studenti fino a 16 anni, per la scelta sia della scuola da frequentare che del docente disciplinare che gli impartirà le lezioni, nonchè del Dirigente e dei controllori. La qualità dunque la farà il mercato senza formare scuole di serie A, B e C. Per evitare la competizione selvaggia, la Regione, modererà il “mercato” controllando solo il cordone della borsa della spesa d’istruzione e pagherà in tutto o in parte la retta mensile delle scuole regionali o libere a seconda del merito e del reddito. Per le scuole medie superiori controllerà le medie del profitto e se è oltre un certo valore prestabilito, politicamente, assegnerà borse di studio adeguate anche al reddito familiare o individuale se maggiorenne. Per le Università il meccanismo liberista moderato si ripeterà in modo da rompere, una volta per tutte, con le autogratificazioni ed autovalutazioni del sistema statale d’istruzione, che non tiene conto della pagella dell’Ocse che pone l’Italia niente affatto tra i primi posti nel mondo. Anche le prime università italiane autovalutate, l’Ocse, le pone dopo il 50esimo posto in graduatoria mondiale, dove spiccano quelle anglosassoni e qualcuna francese. Per la scuola dell’obbligo il genitore sceglierà la scuola e il docente e paga la Regione per tutti, ma con aumento sensibile delle tasse annue d’iscrizioni, magari rateizzate. Esse oggi non coprono neanche il 10% della spesa erogato dallo Stato, bisogna alzarla almeno al 20 e al 30% sia pure per fasce di reddito soprattutto. Poi gli accorgimenti si faranno man mano che il nuovo sistema va a regime. Si procederà gradualmente in un arco sperimentale prederminato di 5 o 10 anni. Certo è una rivoluzione, ma necessaria per migliorare il servizio dell’istruzione, oggi burocratizzato, con lo scaricabarile delle responsabilità e con un corpo docenti impiegatizio e demotivato. Lo stipendio attuale (per i laureati della scuola è pari a quella di un diplomato in altri ministeri statali, dice A.Petrocelli, collega di Fisica, che conosce più di me la questione) è basso e cresce solo con l’anzianità. In nessuna realtà lavorativa la paga è senza distinzione di merito, che, nella scuola che produce un servizio di qualità, solo l’utenza può valutare sia pure con opportuni accorgimenti democratici e trasparenti dei Dirigenti e dei Genitori (laureati in diversi domini) del Comitato di Valutazione presieduto da un Pedagogista, un Imprenditore culturale e da un Magistrato, specializzato per l’istruzione. I Dirigenti verranno assunti come i Docenti, i Dirigenti e gli Ispettori regionali sulla base di un curriculum veritiero ed un periodo di prova sul campo e con contratti triennali rinnovabili o meno. Il Docente più richiesto dall’utenza, al secondo anno di contratto, riceverà aumenti consistenti, quello che quasi nessuno chiede verrà pagato meno oppure finito il contratto o periodo di prova biennale verrà lasciato a casa. Queste sono alcune delle strategie programmatiche di base, le altre verranno man mano facendo e sperimentando. Le aziende che vorranno sponsorizzare le scuole avranno disciplinari trasparenti da seguire e se nel territorio non ci sono o sono poche ci penserà la Regione. Lo stato italiano per erogare il servizio d’istruzione ai suoi 8 milioni di studenti, nel 2017, ha speso 66,1 miliardi, eppure oltre 2 milioni di studenti restano ancora fuori della scuola perche dopo i 15 anni e fino a 29 anni sono tanti i giovani che non studiano più, né lavorano. Nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7% del totale, contro il 36,7 del duemila. È un miglioramento, ma non una vittoria, pubblica l’Espresso di settembre scorso. Tuttoscuola, invece, ha calcolato quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria, il costo degli abbandoni si misura allora in cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-14 e 2014-18.

Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre. Ancora non importa a nessuno, questo spreco? Guardando ai vent’anni presi in considerazione dal dossier, la spesa media, diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro annui. Lo Stato spende per la scuola in Veneto 2,7 miliardi, in Campania, con 30% di studenti in più, quasi 4 miliardi. Nonostante che fonti pubbliche di bilanci sui servizi pubblici precisano che al sud lo stato spende meno che al nord, pochi ci credono poiché le tasse d’iscrizione al nord sono più elevate e il numero di studenti stranieri poveri e molto più alto che al sud. “Ai cittadini del Sud arrivano meno soldi: 8.545,5 euro per abitante contro i 9.353,9 del Nordest“. Secondo i numeri della Ragioneria generale, “lo Stato spende per l’istruzione 463 euro per ogni lombardo e 483 per ogni veneto”, mentre la media nazionale, invece, è a 537 euro, spinta in alto soprattutto da Sardegna (788 euro), Calabria (710), Basilicata (702) e Campania (671)”. Le Regioni, nella nuova proposta di autonomia, potrebbero chiedere il controllo solo dei nuovi assunti e di poter firmare contratti integrativi regionali, ma fermo restando che il pagamento degli stipendi sia spostato dal ministero verso le Regioni. Il risultato non cambierebbe. Se Lombardia e Veneto percorressero questa strada, passerebbero di mano 8 miliardi di spesa pubblica: 2,7 per la Regione guidata da Luca Zaia e 5,3 miliardi per quella di Attilio Fontana.

Veneto e Lombardia, insomma, vorrebbero più soldi per la scuola. E per ottenerli hanno bisogno di trasferire la spesa storica dallo Stato ai loro bilanci. L’obiettivo è anche di pagare di più gli insegnanti locali attraverso contratti integrativi regionali. La quantità di persone coinvolte in un cambiamento simile, è enorme. Nella scuola sono impiegati circa 856 mila docenti statali, considerando sia quelli di ruolo sia i supplenti annuali, e circa 207 mila impiegati statali Ata per un totale, quindi, di circa 1.063.000 lavoratori. Solo in Lombardia sono oltre 130 mila i docenti, nel Veneto 65 mila: quasi 200 mila insegnanti pari ad un quarto del totale nazionale. Ciò è precisato da “Truenumbers.it spesa-pubblica-sociale”, che titola:” Sorpresa, non è il Sud l’area del Paese che vive alle spalle del resto d’Italia. Se si prendono i dati della spesa pubblica sociale consolidata, cioè quella che comprende le uscite sia dello Stato che delle regioni, si scopre qualche cosa di davvero impensabile. Ecco i numeri, ma prima si deve fare una premessa: qui si parla di una fetta, la più importante della spesa pubblica italiana dello Stato e delle Regioni, quella, appunto, per lo Stato sociale e cioè: Assistenza sanitaria; Pubblica istruzione; Indennità di disoccupazione, sussidi familiari, in caso di accertato stato di povertà o bisogno; Accesso alle risorse culturali (biblioteche, musei, tempo libero); Assistenza d’invalidità e di vecchiaia e Difesa dell’ambiente naturale. Complessivamente la spesa pubblica sociale è pari a 565 miliardi e 102 milioni di euro. Dove vanno? Sorpresa: la maggioranza relativa finisce nel Nordovest: si tratta di 142 miliardi e 729 milioni, di cui gran parte legati alla spesa pubblica sociale (molto ampia, essendo anche la Regione più popolosa d’Italia) della Lombardia la quale spende ogni anno 83 miliardi e 787 milioni. Dopo la Lombardia, nella classifica nazionale delle regioni con più uscite per il sociale, c’è il Lazio con 72 miliardi e 290 milioni. Il fatto che la differenza sia così lieve nonostante il Lazio abbia meno del 60% della popolazione della Lombardia è già un’indicazione di come questa spesa sia distribuita a livello pro-capite. Seguono Campania, Sicilia e Veneto. Negli ultimi anni, sulla spinta del dibattito sulla maggiore autonomia richiesta da alcune regioni italiane, si è parlato spesso del residuo fiscale del divario Nord-Sud. Che cos’è il residuo fiscale? Indica quante tasse raccolte in una regione rimangono effettivamente sul territorio e quante invece vengono redistribuite nel resto dell’Italia. Le regioni del Nord sono quelle con le cifre più alte, anche perché sono più ricche e quindi le tasse sono più sostanziose. Qui, però, parliamo di qualcosa di diverso: calcoliamo come viene distribuita la spesa pubblica italiana tra le varie regioni. Indipendentemente da quanto si è versato di tasse. Al di là dei numeri assoluti è, comunque, interessante osservare la stessa spesa pubblica sociale in proporzione al Pil e agli abitanti. Ovvero: quanta parte del Pil di una regione dipende dalla spesa pubblica sociale? Ecco qua: Con il 56,19% del Pil che produce, è il Molise la regione che beneficia maggiormente della spesa pubblica. Segue la Calabria, con il 55,33%. E poi la Sardegna con il 54,67%. Come avviene spesso in Italia, la spesa pubblica ha la funzione di riequilibrare le differenze territoriali, sostenendo maggiormente le regioni più povere e meno produttive. E’ difficile definire, poi, se lo faccia solo in modo assistenziale o se ciò funge anche da stimolo. La Sicilia è tra le regioni destinatarie di un ammontare di spesa superiore al 50% del Pil. Vengono poi Puglia, Basilicata, Campania e la Valle d’Aosta, il cui 44,2% del Pil dipende dalla spesa pubblica sociale. Quest’ultima, del resto, è una regione a statuto speciale, e come altre regioni di questo tipo è molto sussidiata. Infatti, anche il Friuli Venezia Giulia (38,71%) ed il Trentino Alto Adige (34,73%) sono al di sopra della media italiana nonostante siano regioni ricche. In fondo alla classifica vi è, ovviamente, la Lombardia, con il 22,73%, che ha un Pil così elevato da far sì che la spesa incida decisamente poco nonostante sia, come abbiamo visto, la più alta in termini assoluti. Bassa incidenza anche in Veneto, con il 25,86%, e in Emilia Romagna, con il 26%. I più fortunati sono i valdostani. Ognuno di loro percepisce, infatti, 15.448,6 euro. Seguono i trentini e gli altoatesini, con 13.431,3 euro pro-capite.

Il ridotto numero degli abitanti e soprattutto lo statuto autonomo incidono moltissimo e, per lo stesso motivo, il Friuli Venezia Giulia è al quarto posto con 11.738,5 euro. Come è facile immaginare, a mettere il Lazio in terza posizione, con 12.265,5 euro per persona, è invece la sua importanza come sede dei ministeri e delle strutture centrali dello Stato. Altre regioni risultano più finanziate dalla media perché effettivamente piccole: è il caso del Molise, che riceve 11.054,1 euro per abitante, della Liguria e dell’Umbria. In fondo alla graduatoria vi sono le regioni più popolose, ma all’ultimo posto non troviamo la Lombardia, bensì la Campania, che riceve molto in proporzione al Pil (45,02%), ma certo non in relazione agli abitanti, considerando che essi arrivano solo 8.201,4 euro a testa (poco più della metà di quanto ricevono i valdostani). Da una stima sommaria i docenti d’origine meridionale costituiscono oltre il 25% del corpo docente delle scuole settentrionali, ancora di più negli uffici scolastici provinciali e regionali con un n. di ispettori e dirigenti che va oltre il 40% degli indigeni regionali doc e dop. L`istruzione non è spesa sociale è un investimento, scrive su di un media G. Vittadini. La crescita, che in Italia è ferma ormai da una quindicina d`anni, è strettamente correlata alla capacità di un sistema di valorizzare l`apporto delle nuove generazioni. Il rapporto tra vita lavorativa e vita ìn pensione (uno dei problemi più gravi della spesa pubblica nel lungo periodo) è sempre più squilibrato, ma (come documenta l`ultimo numero del periodico Atlantide) ciò che più preoccupa sono i dati inerenti la condizione giovanile: nel nostro Paese 2,1 milioni di giovani trai quindici e i ventinove anni, nel 2010, non lavoravano né studiavano (i cosiddetti Neet: “Not in Education, Employment or Training”), i16,8% in più rispetto al 2009. La percentuale dei laureati, pur aumentata (19,0%), è al quartultimo posto nella Ue. La preparazione di base rimane buona, come dimostra il fatto che i cervelli “in fuga” sono apprezzati all`estero, ma non è curato, finanziato e sostenuto il livello di master e dottorati che forma la futura classe dirigente. Per ciò che concerne il mercato del lavoro, la scarsa selettività dell`università fa si che a 5 anni dalla laurea, i giovani appartenenti a famiglie ricche hanno più contratti, più stabili e maggiore reddito. Inoltre la chiusura corporativa fa si che il nostro Paese abbia più giovani disoccupati di lunga durata rispetto alla Francia, alla Germania e alla Spagna: nella scuola solo lo 0,2% degli insegnanti ha meno di 30 anni; l`età media dei ricercatori universitari supera i 40 anni; gli imprenditori “under 30” sono diminuiti del 23,5% tra il 2002 e i12010; i dipendenti della pubblica amministrazione compresi trai 15 e i 24 anni ne12010 erano i13,6% in meno rispetto a12007. Per questo non sembra superfluo soffermarsi su alcune considerazioni che riguardano la formazione dei giovani e il loro ingresso nel mondo del lavoro, elementi indispensabili per invertire il trend negativo di crescita del nostro Paese. La prima e più importante osservazione è che occorre tornare a concepire la spesa per l`istruzione non come una spesa sociale, ma come un investimento. Per la scuola fino alla secondaria superiore questo non significa spendere di più (per la spesa fino a questa fascia di istruzione siamo al di sopra della media Ocse), ma spendere meglio in funzione della qualità che, come mostrano alcuni studi internazionali, si raggiunge favorendo autonomia delle scuole pubbliche, pluralismo scolastico, libertà di scelta delle famiglie, rilancio della formazione professionale, valorizzazione della professionalità insegnante e immissioni dei giovani insegnanti non basate su ope legis. Per ciò che riguarda l`Università, occorre adeguare il numero di laureati allo standard internazionale e, nello stesso tempo, curare maggiormente l`eccellenza fatta di dottorati e di master, che meglio possono essere curati se rimangono legati al mondo universitario piuttosto che alle sole realtà sindacali e imprenditoriali. Il finanziamento va portato alle percentuali dei Paesi leader, ma occorre superare il centralistico metodo dell`FFO e utilizzare criteri che valorizzino la qualità, con tasse più alte e più alte borse di studio per i più bisognosi o per chi sceglie di trascorrere periodi di studio all`estero. Anche per quanto riguarda il mercato del lavoro, invece di distribuire a pioggia soldi alle imprese, occorre valorizzare maggiormente l`imprenditorialità giovanile e favorire le forme di flessibilità che incentivano quantità e qualità di occupazione giovanile (dalle forme interinali, all`apprendistato, fino all`alto apprendistato), senza continuare a fare l`errore di confondere flessibilità con precariato.

Senza la capacità di guardare al domani, non cí sarà sviluppo e benessere né per le nuove, né per le vecchie generazioni. Delle regioni favorevoli a regionalizzare la scuola, in primis c’è il Veneto e, nel Mezzogiorno, la Campania. Chi e come lo farà per prima o in contemporanea? Sicuramente hanno sistemi ambientali non poco diversi e saranno pure diverse le riforme che proporranno. Ora, invece, è il momento di far notare che non molti adulti, figuriamoci quando erano studenti, conoscono l’importanza e l’equilibrio dei poteri del nostro sistema democratico repubblicano. Molti desiderano l’uomo solo al comando non di una nave, ma dell’Italia. Alcuni partiti hanno in realtà un uomo solo che parla e gli altri? Stanno a guardare per applaudire quando cresce di consenso e cambiarlo quando decresce. Non sempre a scuola ai discenti viene spiegata bene la fisiologia democratica della società italiana del nostro tempo. Molti invocano l’Educazione Civica come panacea di tutte le contraddizioni odierne riscontrate nella preparazione dei giovanissimi. Addirittura qualche docente afferma che l’olocausto non c’è stato. Quanti studenti sanno bene i 3 poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario? Perché i media non li spiegano, forse perchè sono di parte per non dire d’appartenenza partitica: giornalisti e soprattutto conduttori TV. Basterebbe che i docenti di Storia dedicassero alcune ore annue a spiegare i tre poteri democratici suddetti che già migliorerebbe il cittadino italiano, che continua a rimanere suddito! Da Aristotele a Pericle e a Platone il concetto di Democrazia viene studiato nei licei classici, ma non nei tecnici e professionali. Da esperienze acquisiti in scuole straniere, i docenti là sono più attenti a colmare lacune di basilari conoscenze della vita democratica.

Ad esempio al Liceo di New York i docenti italiani e statunitensi preparavano bene i loro studenti e gli USA hanno molti più laureati dell’Italia che con la Romania è ultima in Unione Europea. La riforma della Scuola italiana del patavino On. Beniamino Brocca, qualcosa di buono ha fatto di democratico: non condannare i figli dei poveri a frequentare solo i professionali e tecnici e i ricchi ai licei. Un mio prof. universitario diceva spesso:”Ci vorrebbe la Repubblica di Platone”! Attualmente, con la richiesta della regionalizzazione della scuola, sembra che tutto possa migliorare, ma non è così. Se non si pensa bene prima come far evolvere la scuola si rischia di retrocedere con la qualità del servizio già bassa come rileva l’Ocse, che addirittura registra, in Italia, solo un 15% di studenti delle medie di primo grado, che riesce a comprendere il testo che legge. Dobbiamo cominciare a rendere libero il servizio scuola con scuole non necessariamente statali o ancora peggio regionali-statali. Il federalismo fiscale «soluzione fisiologica». «È la dimostrazione – spiega al Sole24Ore.com, Fabrizio Pezzani, ordinario di programmazione e controllo alla Bocconi – che i soldi pubblici sono ancora spesi secondo logiche di welfare mascherato per tenere bassi i conflitti sociali, e non invece come stimolo per crescita e produttività». Secondo Pezzani il federalismo fiscale rappresenta «la soluzione fisiologica per il bene del Paese» a patto, però, che «si punti su responsabilizzazione diretta degli amministratori e controlli reali sulla destinazione finale delle risorse». A completare il quadro non esaltante c’è la constatazione che alla quantità di risorse spese non corrisponde necessariamente la qualità dei risultati, come sottolinea la Ragioneria. Emblematico è il caso dell’Istruzione, dove tutte e 5 le principali regioni meridionali, Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Sardegna, spendono di più rispetto alle medie nazionali senza ottenere significativi miglioramenti su dispersione e competenze scolastiche. Anzi. Alle elementari, l’Invalsi ci ricorda un gap negli apprendimenti rispetto ai bambini del Centro-Nord, di diversi punti percentuali, soprattutto in italiano. E sempre al Sud, sottolineano gli ultimi studi Isfol e Censis, la dispersione scolastica raggiunge picchi fino a oltre il 20% e apprendistato e offerta formativa professionale sono, letteralmente, al lumicino. Anni fa, 2006, il blog di un colto dirigente scolastico italiano, che avevo conosciuto in uno scambio culturale con il liceo estero dov’ero in servizio, pubblicò un mio articolo sulla scuola italiana e non si meravigliò affatto quando scrivevo che bisogna chiedere una scuola che eroghi servizio di qualità indipendentemente se essa è di tipo statale o libera.

Molti docenti (soprattutto se ancora in convalescenza del “virus” marxista che li ha infettati negli anni Sessanta, pochi di estrazione sociale popolare) sono tutt’ora contrari a qualunque forma privatistica di conduzione della scuola  vedono solo lo Stato Padrone, anche per il futuro. Lo Stato però continua a trattare suddito sia il Docente che lo Studente ed il cittadino italiano. Il servizio scuola non deve essere erogato dalla partitocrazia regionale variabile, che deve solo controllare il cordone della borsa poiché la qualità del servizio deve essere dell’utenza che ne usufruisce come succede per altri normali servizi. Solo l’utente è in grado di migliorare l’offerta formativa attuale proposta da Pof, quasi tutti uguali e ben scritti. Senza la capacità di guardare al domani, non cí sarà sviluppo e benessere né per le nuove, né per le vecchie generazioni”. Bisogna iniziare a fare tale delicata operazione epocale e non aspettare ancora che il servizio peggiori ulteriormente. Attualmente uno studente fino alla fine della media di secondo grado costa allo Stato 115 mila euro in Veneto, e 250 mila alla fine dei cinque anni dell’Università. Oltre 600 mila studenti veneti entrano nelle scuole ogni mattina con 45 mila i docenti statali che li preparano coadiuvati da 15 mila ausiliari o Ata. Allo Stato la scuola costa oltre 50 miliardi annui, che potrebbero, se regionalizzati, essere ridotti non di poco e con una qualità migliore. Al cittadino studente, o genitore se minorenne il figlio discente, deve essere data la possibilità o il diritto democratico di scegliersi la scuola ed anche il docente come fa oggi con il regionale sistema sanitario, che in Veneto eccelle per qualità. Nel territorio della ex Serenissima, c’è ancora il primato delle scuole non statali. Esse sono circa il 16% sia pure in netto calo con la crisi nell’ultimo decennio. Dunque si parte avvantaggiati per alzare tale percentuale, incentivando gli utenti mediante il pagamento regionale della retta (oggi di circa 500 euro mensili) di chi sceglie le scuole libere ed aumentando, non di poco, la tassa d’iscrizione (oggi circa 100 euro annue) di chi sceglie di restare nella scuola statale, dopo l’obbligo. Ma torniamo alla nostra ed altrui Democrazia che ci è cara come chi per essa vita rinuncia. La Democrazia è composta da partiti che sono libere associazioni di cittadini, nient’altro. Tali Associazioni sono regolamentate per Legge e devono avere un simbolo, un nome, un programma, uno statuto, ecc.. I partiti, così costituiti, formulano un programma, si scelgono e si presentano i candidati, che pubblicizzano al popolo il programma del partito che li candida alle competitive elezioni, che vengono autorizzate per Legge solo dopo deposito dei candidati e delle firme necessarie di presentazione autenticate come previsto da precise norme. Chi vince la competizione elettorale, senza brogli, schede segnate ed altri trucchi possibili (senza padrini delle organizzazioni malavitose che sponsorizzano questo o quel candidato, che poi diventa anche Sindaco e restituisce facendo vincere appalti), va a governare in parlamento oppure i suoi Enti Locali come regioni e comuni. Ciò premesso bisogna dire che l’Italia ha una democrazia poco matura poiché esprime troppi candidati di bassa cultura scolastica e politica. In molti partiti vi sono leader nullafacenti per professione svolta e studi effettuati. Finita l’epoca della DC, PSI e PCI con leader con alle spalle professioni liberali e titolati, assistiamo ad un degrado politico poco edificante. Salvini, Di Maio, Zingaretti, Meloni, Bonaccini, Borgonzoni, ecc. non pare che abbiano mai lavorato sodo né abbiano studiato oltre la media di II grado, stesso titolo di studio dell’Assessore alla Pubblica Istruzione del Veneto e idem dello Sviluppo economico, del bilancio, dei lavori pubblici, ecc. Insomma al Settentrione nella “stanza dei bottoni” regionali o “cerchio magico politico di maggioranza”entrano o fanno entrare pochissimi laureati, forse perché sono abituati di più a ragionare e ai capi servono “signorsi” e non “signorno”? Si salverebbe il partito del milanese Cavaliere Silvio Berlusconi che esprime persone lavoratrici e ben titolate.

Lo stesso leader intramontabile e stagionato dagli anni è stato un lavoratore indefesso e laureato a Milano con buoni voti. Insomma a differenza del Sindaco di Napoli, Achille Lauro, che non studiò ma lavorò sodo, il Cavaliere ha fatto entrambe le cose e fu l’unico primo ministro che abbia convocato i ministri a Napoli per risolvere l’annoso ed endemico smaltimento dei rifiuti, che ora sembrano diffusi anche dentro le scuole per lo sciopero dei “bidelli”, pardon operatori scolastici, supplenti. Dopo il ciclone giudiziario con Antonio Di Pietro tra i protagonisti di un’epoca, che ha smascherato corrotti e corruttori in tutti i partiti sia pure con pochi casi in quello dalle mani cosiddette pulite, la Magistratura attuale sentenzia che i corrotti crescono senza più neanche il pudore di quella malsana voglia di prendere mazzette per assecondare catene truffaldine d’ogni risma. La corruzione pubblica è ancora di 60 miliardi annui? Non pare sia diminuita, come registra puntualmente la Corte dei Conti. “Scandalo Scuola regionale, conti truccati: 1,4 miliardi in più a Lombardia e Veneto. L’autonomia è tema centrale nell’azione di governo e non c’è dubbio che fra le 23 materie in ballo è l’istruzione la più delicata, sia dal punto di vista economico sia da quello sociale, con i sindacati che hanno organizzato uno sciopero unitario. Proprio sulla scuola regionalizzata, però, si sta giocando sporco”. Come riporta Marco Esposito sul Mattino. A fare i conti – in un articolo pubblicato su «Menabò di etica ed economia» – è Gianfranco Viesti, già protagonista del dibattito con l’appello «No alla secessione dei ricchi», slogan entrato nel linguaggio anche dei sostenitori dell’autonomia. Qual è il ragionamento di Viesti? Parte da un documento pubblicato dal ministro, leghista veneto, di Erika Stefani e che mette a confronto la spesa statale procapite per l’istruzione in sette regioni: tre del Nord (Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, cioè quelle che hanno chiesto l’autonomia differenziata) e quattro del Sud (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia). Quelle del Nord hanno una spesa procapite intorno ai 460 euro mentre al Sud si toccano i 636 in Campania e 685 in Calabria. La media nazionale (non in tabella) è di 530 euro. Il messaggio è chiaro: nel Mezzogiorno si spende troppo e sarebbe equo ridurre gli sprechi, tra i quali spicca una spesa procapite che in Campania è superiore del 39% a quella della Lombardia. Gli accordi sull’autonomia prevedono infatti che dopo tre anni, per le Regioni che hanno chiesto l’autonomia, scatta in automatico la media procapite, che scherzosamente il presidente del Veneto Luca Zaia ha battezzato «la livella», citando la poesia di Totò. Per Lombardia e Veneto ciò significa incassare 1,4 miliardi in più all’anno (l’Emilia sarebbe fuori da tale gioco, non avendo chiesto la regionalizzazione del corpo docente). A chi sarebbero tolti questi 1,4 miliardi? La risposta dovrebbe darla questa mattina in Bicamerale federalismo fiscale il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il quale al momento è tentato dall’eludere la questione, affermando che in attesa dei decreti attuativi qualunque conteggio è prematuro.

Ma Viesti porta un altro ragionamento. Che senso ha, osserva, parametrare la spesa per l’istruzione alla popolazione totale? In effetti con tale criterio la Regione più virtuosa d’Italia sarebbe la Liguria perché per ragioni demografiche conta pochissimi studenti rispetto ai tanti anziani residenti. Gli alunni in rapporto alla popolazione, infatti, non sono gli stessi ovunque: spicca la Campania con il 15,6% contro l’11,9% della Lombardia. Già solo questa correzione avvicina Campania e Puglia a Lombardia e Veneto. Le correzioni indispensabili alle tabelle della Stefani non si fermano qui. La spesa per l’istruzione, infatti, non è solo quella statale monitorata dalla Ragioneria bensì quella più ampia e comprensiva di tutto il sistema pubblico registrata dai Conti pubblici territoriali. La spesa corrente per studente va da un minimo di 5.048 euro in Puglia a un massimo di 5.942 in Calabria, con la Campania nella fascia delle regioni virtuose a 5.256 euro, il Veneto in una posizione analoga a 5.151 e la Lombardia nella fascia dei territori spendaccioni a 5.400 euro. La livella, insomma, dovrebbe portare soldi verso Campania e Puglia, oltre che il Veneto. Ma hanno senso i criteri «piatti» se l’obiettivo è offrire una scuola di qualità ovunque lungo la penisola, nelle città come nelle aree interne? Bisogna tener conto in effetti anche di altri fattori, come l’anzianità del personale. Un insegnante con 30 anni di servizio guadagna il 27% in più di un docente con 10 anni di attività. E i prof con oltre 45 anni d’età sono l’80,6% in Calabria e il 78,7% in Campania contro il 61,9% della Lombardia e il 66,6% del Veneto. Inoltre ci sono territori con molti piccoli comuni e frazioni dove va comunque garantita la scuola primaria, il che spiega il 41% di classi elementari con meno di quindici alunni in Calabria contro l’11% della Lombardia e il 10% della Puglia. Un bambino alle elementari in Calabria costa 394 euro, nel Lazio 260 euro, in Lombardia 226, in Veneto, 240. La Campania spende per l’ordine pubblico 266 euro ad abitante, l’Emilia Romagna 171, la Sardegna 284, la Toscana 214. Costi molto diversi anche sul fronte dei servizi sanitari: Puglia, Marche, Piemonte, spendono, dai 30 ai 51 euro ad abitante, mentre, in Sicilia e nel Lazio, le spese pro capite salgono rispettivamente a 439 e 384 euro. E’ una mappa molto variegata quella tracciata dalla Ragioneria generale dello stato che ha anticipato i dati sulla distribuzione territoriale della spesa statale nel 2008. Sotto la lente dei tecnici della Ragioneria sono finiti circa 524 miliardi (di cui 249 “regionalizzati”, cioè, distribuiti, regione per regione), calcolati su tutti i pagamenti effettuati dall’Erario, anche attraverso risorse comunitarie, per spese correnti e in conto capitale. Complessivamente, scorrendo le 310 pagine dello studio, emerge al primo posto per finanziamenti statali ricevuti il Lazio, con oltre 34 miliardi, seguito da Lombardia, quasi 31 miliardi, Sicilia, 27,3 miliardi e Campania, 22,7. Fanalino di coda la Valle d’Aosta, con poco più di un milione e mezzo di euro. Ma se si guarda la spesa non i valore assoluto ma per abitante e in funzione al prodotto interno lordo, si scopre il “ribaltone” e si vede che a esser più fortunati sono i residenti nelle regioni autonome, rispetto a quelli delle regioni a statuto ordinario. Facendo un esempio, Valle D’Aosta e Trentino-Alto Adige spendono, pro capite, rispettivamente, 12.171 e 10.862 euro, circa 3-4 volte in più, che in Veneto o Lombardia, dove la spesa pubblica si ferma a 3.089 e a 3.192 euro. Stesso risultato, se si considera la spesa sul Pil: tutte e 5 le regioni a statuto speciale, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta, primeggiano la speciale classifica, attestando la propria spesa tra il 20% e il 35% di Pil, contro il 9,4% della Lombardia, il 12% del Piemonte, il 15,2% della Liguria. Se in Veneto si regionalizza la scuola, voluta dai leghisti, lo stipendio, secondo le ultime indiscrezioni, aumenterebbe dal 10-15%. Dunque per i docenti sarebbero 150-200 euro in più al mese. Non pare a chi scrive che la soluzione sia tra le migliori poiché è semplicemente populista, come lo è stato per il referendum sull’autonomia delle 23 materie da decentrare e, usando il linguaggio leghista”portare a casa”. Mi ritorna in mente la risposta che mi diede un collega di scuola dell’Itis “F. Severi” di Padova, al mio ribadire il concetto di patria come ”terra dei padri” (così era scritto in caserma a Rimini dove svolsi il servizio di leva nonchè sui dizionari).

Il collega più anziano mi rispose:”No collega, c’è anche il padre dei padri o padreterno”. Le regioni comunque, a mio giudizio, devono assumere maggiori responsabilità per ridurre l’ineludibile burocrazia romana centralizzata, ma non per crearne una nuova nei capoluoghi regionali (vi sono studi di esperti che registrano una più opprimente burocrazia provinciale, che ti controlla meglio come suddito e ti punisce come cittadino che alza la testa. Poiché ho fatto anche il Sindacalista dello Snals a Padova, ne ho avuto esperienza scolastica con ricorsi di colleghi “ammorbati o corrotti” in sede provinciale, ma non in sede centrale di via Trastevere a Roma dove il cittadino lontano riceve più attenzione del suddito vicino e qualche prepotente, degli ex Provveditorati agli studi, favoriva forse amici e parenti). Anche le Università (in Campania- Napoli, Benevento, Santa Maria Capua Vetere (CE), Salerno- e in Veneto: Padova, Venezia, Rovigo, Treviso, Vicenza e Verona) regionalizzate miglioreranno con una sana competizione e non con una robusta burocrazia, ottusa, attuale che non è capace nemmeno di prevenire il malefico affidamento delle cattedre, spesso “baronali”. Le Regioni sono l’ancora per approdare in un porto di qualità scolastica e di diritto dello studente a scegliere il servizio erogatogli compreso il docente se è maggiorenne, oppure solo indicare preferenze dopo i 16 anni! Se la scuola non asseconda la richiesta risponderà, per iscritto, motivandola adeguatamente e a questa è ammesso ricorso. Finirà così, una volta per tutte, sua maestà la Burocrazia che rende suddito i 60 milioni di cittadini italiani sia pure residente nei suoi 20 Enti Locali o Regioni. Lo Stato, viceversa, divenendo meno pesante anche di impiegati a Roma potrà funzionare meglio per illuminare con il Parlamento che emana nuove Leggi in sintonia costituzionale con quelle del”parlamentino” regionale, che non deve e non può essere pilotato da Governatori con linguaggi barbareschi dei Leghisti “paroni a casa nostra”, “portare a casa da Roma” (sembra il “Sacco di Roma” dei Lanzichenecchi del 1527), né quello, apparente modernista, del Pd che spesso è per lo stato quo, anche se al Sud fa eccezione la Campania. Dopo le elezioni regionali del gennaio scorso, a inizio giugno si andrà a votare in Campania, Veneto, Puglia, Liguria, Toscana e Marche. Nel 2015 votò il 31 maggio. L’accorpamento dovrebbe esserci pure nel 2020, con il Viminale che andrà a indicare la data. Intanto il Papa, per fine maggio c. a., ha prefissato di visitare la “Terra dei Fuochi”. Si spera che resti superpartes e non come in Emilia Romagna, dove ha permesso, al locale cardinale, di schierarsi pubblicamente per una parte, la quale ha rivinto. Per il Diritto Civile, bi millenario, si chiama turbativa elettorale, ma l’altro Stato, quello del Vaticano, spesso è invadente nel nostro, purtroppo. Se si ripetesse il copione, avrebbe più credito la diffusa voce, anche tra i Cattolici, di un Papa comunista!

Prof. Giuseppe Pace (Delegato del Partito Pensionati per la scuola in Veneto)

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