Cultura

La misteriosa Romania tra ecologia umana, mitologia e storiografia

Napoli, 5 Settembre – L’Ambiente è un insieme di Natura e Cultura, che non può essere esaminato se non dall’Ecologia Umana, che si avvale di un metodo multidisciplinare, interdisciplinare e transdisciplinare, quasi una sorta di ponte culturale che vede scorrere solo pezzi significativi e selezionati di saperi delle scienze naturali-geologia, paleontologia, biologia, chimica- ed umane come storia, archeologia, etnologia, sociologia. Lo studio ambientale dell’Ecologia Umana dà più risalto alla Cultura che alla Natura, riconoscendone il rivoluzionario ruolo di dominio da almeno 3 secoli, da quando la potente tecnologia ci aiuta di più a plasmare il paesaggio e l’ambiente di cui siamo sempre più artefici. La Natura dunque ha perso il suo dominio sull’Uomo nonostante molti si ostinino a non riconoscerlo neanche quando l’Uomo è andata sulla Luna e si appresta a mettere il piede anche su Marte. Il rispetto della Natura, invocato da giovani tumultuosi e da vecchi sacrati non sempre è approfondito poiché dovrebbero solo preoccuparsi di dire che la Natura va utilizzata con più conoscenze di Ecologia e non con la paura dell’ecocatastrofismo di moda culturale. Di tali deviazioni sono responsabili anche non pochi media italiani, asserviti ai partiti o alla moda superficiale dell’informazione emotiva, basata sulla paura del futuro prossimo che solo chi non crede nell’Uomo sa diffondere. Prima si ammetteva il dominio della natura sulla cultura: “ogni cosa nascente è protetta dalla natura, maestra dei maestri, come fa la chioccia con i suoi pulcini”, scriveva il genio rinascimentale di Leonardo da Vinci. Per Leonardo dunque la Natura era Maestra dei Maestri. Non è più così poiché l’Uomo ha stratificato sopra il paesaggio planetario con la sua cultura.

Dell’ambiente della Romania non poco ancora resta di misterioso cioè non bene illuminato dalla razionalità del sapere storico. Quando insegnavo in Transilvania, nella piccola città di Deva della judet Hunedoara, ammiravo spesso due statue: quella storica di Traiano e quella mitologica di Decebalo poste in piazze centrali cittadine. Terminati i 5 anni di servizio raccolsi gli appunti e scrissi 4 libri dedicati alla Romania. Forse quello più scolastico era: ”Italia e Romania. Geografia, Analogie Regionali e di Ecologia Umana”, Sapere Edizioni, che donai alla biblioteca del liceo “Transilvania”, alla biblioteca di Deva “Ovid Densusianu” e all’Istituto Italiano di Cultura di Bucarest ”Vito Grasso”, persona colta che ho conosciuto in vita e andai anche al suo funerale a Bucarest. Peccato che ad un mia richiesta, circa un lustro fa, del perché non fosse in elenco digitale per i lettori il mio libro, non sono stato esaudito e non ho capito ancora il perché se non la becera burocrazia che non riuscii a stanare nonostante tentai più volte scrivendo pure all’Ambasciata. I colleghi romeni di discipline umanistiche, che là si chiamano scienze umane per distinguerle dalle scienze reali, non ipotizzavano affatto il mito del vello d’oro in Romania, credo sui monti Apuseni o non molto lontano da essi. L’oro è il metallo che possiede straordinarie caratteristiche di: lucentezza, duttilità, inalterabilità e rarità. Già 7 mila anni fa, gli Egizi gli avevano attribuito un elemento di sacralità elevandolo a simbolo di regalità ed eternità creando, così, le basi per un gran numero di miti dell’oro divulgatosi nel corso della storia. Uno fra questi è il “vello d’oro” conquistato nella Colchide dagli Argonauti. Perché escluderlo dalla Romania con tutto l’oro che possedeva già allora e in miniere a cielo aperto. Detto in poche parole il mito tratta del viaggio avventuroso di andare nella Colchide a recuperare la pelle intera di un ariete appesa ad un ramo di quercia oltre il Ponto Eusino ovvero il Mar Nero! Giasone era figlio del re di Iolcos (oggi Volos nel golfo greco di Pegase in Tessaglia). Poiché il trono paterno era stato usurpato dallo zio Pelia, il giovane ne chiese la restituzione.

Questa gli fu accordata a condizione che si impossessasse del vello di un ariete sacro che si trovava nella Colchide ( credo che fosse la Transilvania dei monti Apuseni e non l’attuale Georgia nel Caucaso) oltre il Mar Nero. Non solo si trattava di affrontare un viaggio marino su una barca a remi, ma anche di superare con forza, coraggio ed astuzia una serie di durissime prove lungo tutto il tragitto poiché il Ponto Eusino era ancora Axèinos, cioè inospitale per i pericoli e i misteri connessi.

 

Giasone fa dunque costruire la nave Argo (lunga e stretta) e seleziona una cinquantina di compagni di viaggio (chiamati Argonauti) fra i più audaci eroi del suo tempo del calibro di Eracle, Orfeo, Teseo, Castore, Polluce e Atalanta come unica donna. Arrivato finalmente nella Colchide dopo mille peripezie, Giasone supera anche le prove finali con l’aiuto delle arti magiche di Medea, la figlia del re, dei Daci? Molti autori classici, greci e latini, fecero a gara nell’ampliare la missione pericolosa degli Argonauti tramandandoci numerose versioni della leggenda assai discordanti fra loro. Invece, a me parve che, i colleghi più o meno umanisti e storici, non trascuravano del tutto, di insegnare al liceo i 4 miti basilari della cultura romena. Il primo era il mito dell’etnogenesi del popolo romeno, ossia la nascita del loro popolo. Raccontavano agli studenti la leggenda secondo la quale l’ottimo principe romano, Traiano, una volta conquistata la Dacia , in seguito alle guerre del 101-102 e 105-106  d.C., si innamora di Dochia, la figlia del re dei daci,  Decebalo.  Quando la vide esile, alta con capelli lunghi e  occhi chiari nonchè astuta e coraggiosa, rimase se ne invaghì.  C’è un poema epico, dal titolo Traiano e Dochia,  che racconta quello che si suppone che sia avvenuto: Traiano tentò di prendere in sposa la bella principessa, descritta come una vera amazzone, ma lei lo rifiutò, vedendolo solamente come l’invasore crudele che conquistò le sue terre e distrusse il suo popolo. Decise di scappare e di rifugiarsi sui monti Carpazi, dove solo i Daci riuscivano ad inoltrarsi senza smarrirsi. Si tolse i suoi abiti regali e si vestì con un saio da pastore, per non essere riconosciuta. Traiano la inseguì e quando le arrivò davanti stese le braccia per fermarla. Dochia chiese allora aiuto al Dio dei daci, Zamolxis.  Il dio la trasformò in una statua di pietra.  L’imperatore romano pianse disperato, le mise la sua corona in testa e la dichiarò comunque la sua regina.  “Così nacque il popolo romeno”, concludevo, in modo metaforico,  la lezione sulla genesi del popolo romeno. Non è da escludere la meraviglia di ragazzi di 14-17 anni che, oltre ad essere colpiti dal romanticismo di questo amore impossibile, erano seriamente confusi sul significato di questa leggenda. Più di qualcuno degli studenti non capiva come fosse realmente nato  il popolo romeno se,  quando Traiano la toccò, Dochia si era trasformata in una statua di pietra. No conosco bene se i professori di storia locale precisassero bene che stavano parlando di mito e non di storia. Tra questi vi era il già pensionato Gligor Hasa, cittadino onorario di Deva, cultore di storia epica e autore di molti saggi tra cui Comoara lui Decebal (il tesoro di Decebalo) e Aurul Dacic. Miracol sub blestem (Oro dei Daci. Miracolo sotto la maledizione). Con G. Hasa, D. Huruba, V. Stoljan, ecc. si frequentava la locale Associazione Scrittori della Judet Hunedoara diretta da Valeriu Bargàu prima e poi dalla vedova Mariana Pandàru e si scriveva sulla rivista “Ardeal Literarul”. I miei colleghi del liceo tecnologico “Transilvania” erano meno provinciali dei colleghi italiani e più aperti ad una visione globale dei problemi anche se guardavano ed ascoltavano, all’intervallo, quasi tutti l’oroscopo, ingegneri compresi che non erano pochi poiché la Romania di Ceausescu, 1965-89, ne volle molti. Là le donne erano in gran parte ingegneri, notai, medici, ecc. molto più dell’Italia.

Spetta poi alla razionalità e ai trattati di storia fare chiarezza tra non poche contraddizioni ed incertezze presenti nel racconto mitico, che ha sempre molto di fantastico o irrazionale anche se non è da escludere del tutto. La Storia, invece, suggerisce di credere ai seguenti fatti: Traiano sconfisse, con 13 legioni al suo seguito più altrettanti alleati, l’esercito di Decebalo, che aveva un numero di armati superiore a 100 mila, ma meno allenati alla guerra come le legioni romane. Sembra che i Romani, dopo la resa di re Decebalo, fecero circa mezzo milione di prigionieri. I maschi che si rifiutarono di combattere poi nelle legioni di Roma, furono, in gran parte schiavizzati o uccisi sul posto. Non poche delle donne dei Daci, ancora in età fertile, procrearono con i legionari e diedero vita ai daco-romani attuali. Decebalo, nel 106 d. C., preferì suicidarsi per non cadere ostaggio dei Romani, anche perché circondato da un drappello di cavalleria guidata da un noto ufficiale e nobile Romano. Ancora oggi, qualcuno che si addentra nella profonda cavità carpatica, sente le sua grida con voce tenebrosa (così mi riferì il prof. di storia, Vlad Sorin, che era meno filodacico del suo collega, già pensionato, prima citato). Il più giovane collega, Sorin, era un appassionato di folclore e promuoveva i costumi tradizionali con balli anche nel cortile interno del comune e suddetto liceo di Deva. Durante le visite d’istruzione spesso era la nostra guida storica. Una volta l’ho ascoltato parlare, in Prefettura a Deva, sul condottiero hunedoareno, Iancu di Hunedoara, che sconfisse l’armata turca con un numero di soldati di gran lunga inferiore. Vlad cura pure la storia locale, il folclore ed ama il suo paesetto di San Petro, vicino Calan.

Nel 2006 ho visitato, con studenti locali e salentini, guidati dal collega Francesco Masi di Galatina (LE), Sarmizegetusa Ulpia Traiana, a sud di Hatec, e nel 2004, con l’ispettore, Ioan Andrei ed altri, le non lontane, “Porte di Ferro”, dove l’esercitò dei Daci ingaggiò baldanzoso di vincere la battaglia decisiva con le legioni dei Romani. Secondo alcuni dei miei colleghi di Storia del Liceo tecnologico ”Transilvania” di Deva, re Decebalo, non si arrese, ma preferì morire in una buia grotta. Conobbi nel 2007, a Orastie, un cultore dei Daci, che dirigeva una rivista in merito, dove modificava la storia filoromana in filodacica. Un tale vezzo, tipico di storici provinciali, avviene, da qualche trentennio, anche in Italia quando si studiano i Sanniti, gli Etruschi, gli Appuli, i Liguri, i Camuni, ecc.. Si rischia però di stravedere come l’innamorato stravede per l’innamorata. Molti miei ex studenti romeni del liceo “Transilvania” di Deva, si sono laureati come i 4 dell’Università di Cluj Napoca, di cui riporto la foto inviatami da loro il giorno della laurea.

Molti, della Dacia, riconoscono soprattutto la casa automobilistica romena che ha preso il nome proprio dall’antica regione della Dacia e pure lo sponsor della squadra di calcio dell’Udinese! Non sono rimaste molte tracce di questo popolo fiero e indomito e quello che si sa lo si deve in larga parte ai resti della loro inespugnabile capitale nascosta tra le foreste dei monti di Orastie in Transilvania: Sarmizegetusa Regia, città-fortezza,  ubicata a 1200 metri di quota, è centro di studio di archeologi e di esoterismo perché molti sono convinti che sia un portale di comunicazione con un mondo parallelo. Per conoscere la storia del popolo della Dacia non si può escludere la Colonna Traiana,  un libro di pietra alto quanto un palazzo di 12 piani immerso nell’ambiente storico romano. In realtà, la conquista delle Dacia, sotto Traiano, fu un’operazione militare durata 5 anni,  che impegnò metà del potenziale bellico dell’impero romano. Una complicata guerra sanguinosa in cui morirono decine di migliaia di legionari Romani e altrettanti Daci. Erodoto definiva i Daci come “i più coraggiosi e giusti dei Traci “ per la bravura e il coraggio con cui affrontavano la morte, che  era per loro un passaggio verso l’immortalità dell’anima.  Omero scrive: “I Daci possiedono coraggio ed umanità in battaglia, possiedono una educazione morale, che manifestano curando i forestieri e i feriti caduti nella loro terra”.  

La Dacia Felix era un potente stato, in espansione, con un temibile esercito, un re, Decebalo, un unico Dio, Zamolxis, grazie al quale, diceva Platone, i daci erano immortali. La capitale dell’impero, Sarmizegetusa, era circondata da foreste impenetrabili, una vera fortezza naturale, imprendibile.  La Dacia rappresentava un pericolo per l’Impero Romano, che temeva una coalizione di barbari contro Roma. Traiano passerà alla storia come l’Optimus princeps, ovvero come il migliore imperatore conosciuto da Roma nell’arco di tutta la sua lunga storia. Venne annoverato tra i “Cinque buoni Imperatori” del II secolo, insieme a Ottaviano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio. Traiano, con la conquista della Dacia, portò Roma alla massima espansione. Altri imperatori prima di Traiano, tra questi, Giulio Cesare e Domiziano, provarono ad invadere la Dacia, ma ne furono sconfitti. Traiano decise di riprovare,  confidando nelle sue doti di grande stratega militare e sperando che, in caso di grande trionfo,  gli fosse conferito un posto d’onore nella storia del grande impero. Ma Traiano fu attratto anche dalle informazioni riservate su come avevano decorate le case i nobili Daci con tanto vasellame e bracciali d’oro massiccio oltre al grande tesoro di Decebalo ed anche perché l’Impero Romano era in quegli anni sempre più povero per le spese militari. La Dacia, nei monti Apuseni o del Tramonto, aveva numerose miniere d’oro e argento e rappresentava per i Romani un vero El Dorado. All’avvicinarsi dell’esercito nemico, quando la sconfitta era ormai inevitabile, il re Decebalo preferì tagliarsi la gola con un pugnale ricurvo piuttosto che cadere prigioniero.

La vittoria fruttò a Roma più di 350 tonnellate di oro e ancora di più di argento, un tesoro di inestimabile valore, l’ultimo grande bottino dell’Impero Romano. L’ambiente mitologico e storico del tesoro dei Daci ha dell’attraente misterioso e dunque incredibile. Decebalo aveva deviato il corso di un fiume, per scavare una buca nel letto, nascosto il tesoro, ricoperto con pietre, e infine aveva riportato il fiume nel suo corso. Spesso sono stato in prossimità dell’ambiente fluviale, leggendario e storico indicatomi da colleghi romeni lungo il fiume Strei, ma non ho intravisto, ancora, sia il luccichio dell’oro che le ombre e le penombre storiche leggendarie di cui tanti si narra sia pure in sordina nelle scuole romene. I romani non l’avrebbero mai trovato se non avessero avuto la soffiata di un soldato vicino al re Decebal, di nome Bicilis. La sua malefica figura ha dato nascita a una parola, bicisnic, che significa, in romeno,  “uomo senza onore, traditore e leccapiedi”. E’ proprio grazie a questo tesoro se a Roma si possono ammirare ancora, dopo 1.904 anni, monumenti come il Foro di Traiano, con la sua imponente Colonna Traiana in mezzo. Apollodoro di Damasco, l’architetto preferito di Traiano, aveva già progettato per il suo imperatore il ponte più grande costruito durante l’Impero, il Ponte di Drobeta, sul Danubio, in Dacia. Dopo il suo ritorno a Roma, Apollodoro progettò il Foro di Traiano e la Colonna,  che fu innalzata nel 113 d.C. per celebrare la conquista della Dacia ed esaltare la gloria dell’imperatore. Lo scopo di questa meravigliosa opera non era solo celebrativo, ma anche didascalico, in quanto la colonna descrive le imprese più salienti della guerra in Dacia. Per esaminare l’ambiente della Romania come di altri, è necessaria una visione multidisciplinare che selezioni poi aspetti utili per approfondire l’esistente. Riporto due grafici tratti dai miei 4 saggi sulla Romania ed in particolare il quinto che la tratta d’esempio per lo sviluppo ambientale: ”Ecologia Umana e Sviluppo Ambientale (Esempio Italia e Romania)”, pubblicato a Padova, on line, da leolibri.it

L’ambiente romeno ha un punto di riferimento storico non secondario nella Colonna Traiana, considerato quasi il certificato di nascita del popolo Romeno. Alla morte prematura di Traiano, le sue ceneri furono deposte in un urna d’oro alla base della colonna, considerata uno dei più bei monumenti dell’antica Roma. Un vero kolossal storico, una pellicola cinematografica a spirale, che descrive le campagne militari romane in Dacia. Massacri, devastazioni, teste romane su delle picche, Romani che incendiano villaggi, Daci fatti prigionieri e deportati, accampamenti in luoghi desolati, sconosciuti alle mappe dei soldati, foreste e monti impenetrabili, Traiano che guarda la testa del re Decebalo, portata come trofeo da uno dei suoi soldati. Scene di lotta tra i Daci e i Romani, immagini terribili raffigurate magistralmente sulla Colonna Traiana, alcune ri portate a nuova fama cinematografica nel famoso film di Ridley Scott, il Gladiatore. Che successe in Dacia, la nuova e l’ultima provincia romana, dopo il ritorno di Traiano a Roma? Rimase sotto l’occupazione romana fino al 271 d. C., una dominazione storicamente racchiusa in meno di 200 anni, ma che lasciò un’impronta duratura nell’ambiente naturale e sociale, tanto che la lingua romena, che si sarebbe sviluppata nei secoli successivi, è considerata lingua romanza come l’italiano, lo spagnolo, il portoghese e il francese. Nonostante l’isolamento della regione, lontana da Roma, in una zona successivamente occupata da slavi e magiari, il romeno ha una forte radice latina. Della dominazione dell’Impero romano resta il nome di una nazione, la Romania, un’isola di latinità sopravvissuta nell’Europa Orientale in un mare linguistico slavo, il romeno ha oltre il 70% di parole di origine latina.

Insegnare all’estero ti pone di fronte ad ambienti culturali diversi con i quali devi armonizzarti pur restando ancorato, come una sorta di cordone ombelicale, al tuo ambiente culturale di provenienza. Quando insegnavo in Transilvania, 2004-2008, ho ammirato e tanti ambienti naturali, storici, religiosi e visto tanti reperti di storia sia museati che rinvenuti casualmente o ricercati come i fossili di Eunerinee nella valle del fiume Nandru in Judet Hunedoara, sui monti Poiana Rusca a sud della città di Deva dove ero in servizio.

Di tali molluschi, gasteropodi, ho classificato due nuove specie di nerinee, a cui ho aggiunto, al nome latino della specie, cognome e  anno come si usa fare in tassonomia e paleontologia che studia i fossili naturali. Il prossimo n. della rivista Vox Libri dovrebbe riportare la scoperta paleontologica, pubblicata già da altro media. La Dacia è in gran parte il territorio dell’attuale Romania, è dominato dal massiccio dei Monti Carpazi, le cui tre catene formano un gigantesco triangolo: i Carpazi Orientali, i Carpazi Meridionali, con la cima più alta (il Monte Moldoveanu, 2.544 metri) e i Carpazi Occidentali. Catene montuose che digradano dolcemente verso la pianura, con sempre meno vaste foreste. Il confine meridionale del Paese è costituito da un lungo tratto del Danubio, che sfocia nel Mar Nero. I Carpazi si estendono per 1.300 km e ospitano un patrimonio floristico e faunistico come orsi, cinghiali, lupi, galli cedroni, ecc. tra i più importanti d’Europa. Non mancano i fossili di paleontologia umana nei vari musei romeni sia grandi come a Bucarest che piccoli come a Deva. Tra i luoghi ho ammirato, in particolare, Sarmizegetusa Regia, capitale dei Daci di Re Decebalo fino al 106 d. C. quando Roma, con l’imperatore Traiano, la espugnò. Poi spostò la capitale dei Daci, assoggettati a Roma, a 50 km più ad ovest nella Judet Hunedoara: Sarmizegetusa Ulpia Traiana. La religiosità venne gestita dai sacerdoti politeisti prima di Costantino il Grande e poi dai Cattolici, che in Europa orientale con la Romania si chiamano Ortodossi cioè più fedeli al verbo dei vangeli? Pare di si perché la politica papale del XI sec. sancì il celibato dei preti, ma gli Ortodossi non condivisero e fanno ancora ammogliare i preti-mariti più o meno fedeli e padri più o meno esemplari- come lo erano i padri della Chiesa. Roma, con Costantino, fece propria la religione cattolica che si estese, dal IV sec d.C., a tutto l’impero. I nobili Daci possedevano lussuose dimore, adorne di molti oggetti d’oro, che ricavavano gratis dalle ingenti miniere a cielo aperto vicino Sacaramb sui Monti Apuseni o “Monti del Tramonto” dei Romani, le miniere, da me fotografate e riportate dopo, sono degli Alburnus Maior, denominati tali dai Romani che pianificarono l’estrazione, che ho ammirato estasiato.

I Romani, rivestivano l’interno delle pareti delle le miniere di legno e su due piani sovrapposti, da me visitate con due colleghi lungo un filone aurifero incastonato nella volta, che si vedeva riflesso dalla intensa luce emessa dalla torcia della guida. Molto oro estratto dalle miniere dei monti Apuseni è esposto al Museo dell’Oro di Brad, una cittadina mineraria frequentata da nobili asburgici e con un monumento alla latinità in centro. L’eccidio dei Daci da parte dei vincitori Romani non sarebbe stato totale,  come pensò Roesler; i Romani avrebbero invece sterminato la sola aristocrazia guerriera e religiosa di una teocrazia barbara. Credo che Roesler avesse ragione poiché sono stati rinvenuti molti scheletri di giovanissimi trafitti dai pali aguzzi, vicino alla chiesa di San Nicola di Hunedoara, a nord del castello Corvino del XV sec. Nell’immolare giovanissimi su pali aguzzi, prima delle battaglie con i Romani, dimostra il grado evolutivo della teocrazia barbara dei Daci. I santuari di Sarmizegetusa sarebbero finiti distrutti, i sacerdoti perseguitati, esiliati, e il rituale di evocatio deorum non si sarebbe svolto come di consueto. Ciò sarebbe equivalso a una sorta di proibizione religiosa data la peculiarità della fede dei Daci, consistente in un monoteismo, quello di Zalmoxis, simile al culto di Yahweh, che esaltava l’aristocrazia guerriera a detrimento delle masse.

Le fonti parlano di perdite umane immense e quindi di un vero e proprio spopolamento della Dacia. E se la realtà non poté essere così dura, quantunque la debolezza demografica dei Daci, dopo le guerre, sia da ritenersi ovvia, il numero dei morti e dei prigionieri diventati schiavi fu grandissimo. La popolazione rimasta non solo era ridotta numericamente, ma anche minata nella sua struttura: deprivata dei ceti superiori, senza leggi e regole, con un statuto giuridico sospeso e con la religione in crisi. Nella realtà provinciale non si conosce nessuna istituzione, nessun culto e nessun aristocratico di sicura origine dacica. I Romani privarono dei Daci alcune zone importanti: ad esempio, Sarmizegetusa Regia, la capitale preromana, fu totalmente distrutta e sulle sue rovine venne stanziata una guarnigione, per vietare ogni futuro acceso agli autoctoni. Si cercò così, senza alcun dubbio, di cancellare la religione statale, che aveva animato la resistenza.  E’ risaputo che i Daci avessero adottato una religione monoteista, in specie per via dei sacrifici umani invisi al mondo romano, fu paragonata al trattamento riservato dai Romani al druidismo. Potremmo formulare varie ipotesi riguardo all’assenza di divinità nelle iscrizioni e nell’arte della  provincia Dacia. La religione dei Daci in età romana. Coppia di divinità anonime (Turda). Collezione del Museo Nazionale di Storia della Transilvania, Cluj-Napoca. Va piuttosto evidenziato che il territorio di quell’antica provincia risulta solo in parte conosciuto: iscrizioni e monumenti provengono dai centri urbani, mentre il mondo rurale ci resta poco noto. L’Ecologia Umana, forse più di altri saperi multipli è interdisciplinare poiché pone a centro l’ambiente con una visione ecocentrica, non antropocentrica tradizione né biocentrica che è più di matrice culturale anglosassone. Io sono per una visione ecocentrica che media le due estreme suaccennate. Sono anche per ribadire, come valenti studiosi scrivono da decenni, il primato della Cultura sulla Natura.

 

 

 

Giuseppe Pace (Già Prof. del Ministero A. Esteri del Liceo Tecnologico ”Transilvania”  di Deva, Romania).

 

 

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