Cultura

Ecologia Umana del Codice Dracula: capitale invisibile tra Romania, Acerenza e Napoli

Il Capitale invisibile è il titolo di un libro pubblicato dal noto Pedagogista, Giovanni Gozzer, che riconosce alle idee il loro valore essenziale per accrescere il capitale visibile o materiale. Nel frequentare il Sannio con la sua ex capitale, Bojano, ho svolto, una prima volta, nel 2006, il ruolo di sacerdote Sannita che interrogava, con un agnello in mano, accanto al pontefice massimo che “sacrifica” un bambino, le divinità-la Tavola Osca d’Agnone del IV sec. a. C., indica le preghiere Sannite- per avere gli auspici di fondare Bojanum Vetus. Una seconda volta, invece, sposai 20 guerrieri Sanniti distintisi in battaglia e implorare per la fertilità la Dea del Matese, montagna sacra dei Sanniti Pentri, ricevendo un lusinghiero apprezzamento dal bojanese, Avv. Alessio Spina, che di Sanniti e e di arte del teatro se ne intende. Il rapporto, sia pure simulato, tra l’uomo e il divino, è stato dunque non solo letto sui libri, ma praticato nella società anche per ravvivare la memoria sannitica per l’identità delle genti che popolano l’antica regione storica, che è da istituire anche come XX regione amministrativa da denominare non Molisannio ma Sannio, con circa un milione di residenti, allargando il territorio molisano al beneventano, Sannio Alifano, ecc. Tale ipotesi è stata auspicata nel mio saggio “Piedimonte Matese e Letino tra Campania e Sannio”, Energie Culturali Contemporanee Editrice, Padova, 2011.

L’Ecologia Umana studia l’Ambiente come insieme di Natura e Cultura con caratteri propri multidisciplinari, interdisciplinari e transdisciplinari. Per quest’ultimo carattere l’Ecologia Umana si presta meglio a sondare anche il mito e il magico presente nelle varie culture locali delle diverse società umane. La memoria profonda è da ricercare nel paleoencefalo dell’Homo sapiens, quella superficiale, invece, nel neoencefalo dove sono note le aree della parola, del piacere, del dolore, ecc.. La ricerca neurologica è da sviluppare di più per la memoria racchiusa nelle aree del paleoencefalo, che affondano le radici fino all’alba dell’Homo sapiens. La ragione o il razionale che è in noi veniva illuminato anche prima del neolitico, con l’addomesticamento di alcuni animali come il cane, gatto, cavallo, galline, pecora, mucca, maiale, coniglio, ecc.. Ma derivava dal paleolitico inferiore e almeno da 3,2 milioni di anni che è l’età di Nonna Lucy o Australopitecus afarensis, fossile rinvenuto in Etiopia. La Paleontologia umana ha fatto molte scoperte sull’alba della nascente ragione della nostra specie biologica, ma altri saperi specialistici stanno indagando, sempre più, sull’evoluzione culturale. Quest’ultima sembra essere solo della nostra specie e in modo eccellente. L’evoluzione culturale ci sta traghettando in un futuro ricco di più novità, in un ambiente globalizzato o planetario e con tecnologia potente e sofisticata basata anche e soprattutto sulla robotica, intelligenza artificiale e comunicativa digitale.

La Natura e la Cultura costituiscono l’Ambiente dell’Homo sapiens, che è un animale sociale come diceva già Aristotele che studiò anche la società delle formiche e delle api, ma successivamente ne furono sperimentati i ruoli intercambiabili grazie all’Etologia, con le sperimentazioni di Otto e Karl R. von Frisch (linguaggio delle api con l’addome), C. Lorenz e D. Morris nonché dell’italiano Danilo Mainardi, che lo scrivente ha conosciuto al X Congresso di Venezia della Società Italiana di Ecologia. Attualmente la Cultura viene ritenuta prevalente sulla Natura, mentre prima della rivoluzione industriale era valida la concezione del primato della Natura sulla Cultura come sosteneva anche Leonardo da Vinci nel 1500: ”Natura maestra dei maestri”. Anche il non vero come il magico, il fantastico, il mito e le leggende, (escluso da Galileo Galilei padre della moderna scienza sperimentale induttiva), può essere messo a fuoco ed osservato con diversi saperi sia per ridurne che per aumentarne la veridicità. La storia naturale inizia con il pianeta Terra, circa 4,6 miliardi di anni fa, la vita 1 miliardo più tardi fino all’ipotesi evoluzionistica dei neodarwinisti attuali. Accanto alle critiche all’evoluzione ottocentesca di C. Darwin e neodarwinsti, si è sviluppata la corrente di pensiero detta creazionismo scientifico, appoggiata, tra gli altri, da due genetisti e professori dell’Università di Perugia, G. Sermonti e G. Fondi.

Chissà che in futuro, tra gli archivi dei nobili Gaetani (la fotografia a sinistra ritrae lo scrivente davanti il palazzo con lo stemma ducale dei Gaetani a Piedimonte Matese, dove dimorò la moglie del duca, Aurora Sanseverino, imparentata con altri nobili famosi, a destra Cusano Mutri con lo scriptorum loci A. V. Maturo) non si possa rinvenire documenti secretati relativi alle parentele dinastiche con il reame di Napoli e con i conti Ferrillo con feudo ad Acerenza. La storia sociale mi appassionava dall’età di 14 anni e continua a farlo anche innestata on la storia naturale della nostra specie biologica, che ha quasi 8 miliardi di individui ospiti del pianeta Terra e con caratteri più simili che diversi con la globalizzazione in essere, ma con notevoli diversità culturali a seconda delle comunità sociali e degli anni trascorsi a scuola, che uò compiere il miracolo di trasformare il suddito in cittadino.  

Il problema dell’evoluzionismo trova sempre meno attori nel dibattito pro e contro, ma esso non dà ne vincitori, poiché entrambe le certezze-ipotesi sono in divenire. Certo è che la visione solo creazionista non trova spazio nella Scienza anche se esistono scienziati “cattolici”, che moderano paragonando le 5 ere geologiche ai 6 giorni della creazione. La pittura di Michelangelo nel Diluvio Universale della Cappella Sistina, dà ancora a credenti e non una sorprendente impressione soprattutto per il legame tra il dito di Dio e d’Adamo. In Romania la ricerca naturalistica dei primi anni di servizio di docente (2004-08) mi portò a scoprire nuove specie di fossili nella Valle del Fiume Nantru sui monti Poiana Rusca delle Alpi Transilvaniche. Tali specie furono riportate dal media ”Caserta 24 ore Il Mezzogiorno Quotidiano di Terra di Lavoro” del 30/04/2012:”Nuove specie di Gasteropodi Nerinee fossili nella valle del Nantru in Transilvania”, Eunerinea transilvaniae romàniae (Pace 2007) e Pragmites nerinea Carpathian (Pace 2011). I due fossili classificati hanno un’età relativa di 100 milioni di anni, quando ancora non avveniva l’orogenesi alpina e transilvanica o dei Carpazi Meridionali.

Prima di tentare di “svelare” il romeno Codice Dracula, ad Acerenza (PZ) e a Napoli, è bene accennare all’ambiente anche del piccolo comune della Basilicata e dell’ambiente antico dei Lucani nonchè della grande città di Napoli, dove avvenne l’innesto nobiliare tra i Voivoda o Principi di Romania del XV sec. e i nobili Ferrillo, legati al Re di Napoli, Ferdinando d’Aragona, casata nobiliare con un discendente ex compagno di scuola dello scrivente del 1966/68. Nel 1480 giunge a Napoli, come scrivono e descrivono le cronache, un’orfana all’età di circa 7 anni, al seguito di Androniaca Cominata (Comnena ) vedova dell’eroe albanese Giorgio Castriota Skandeberg, despota di Albania. Tale vedova giunse profuga alla Corte dell’alleato Ferrante D’Aragona, Re di Napoli, in quanto membri dell’ordine del Dragone, lega di mutuo soccorso cui aveva aderito anche Dracula. La bambina, indicata quale figlia di una sorella di Andronica Commena, era stata salvata dall’invasione turca dei Balcani, che nei paesi slavi in quel periodo metteva a rischio la stessa sopravvivenza degli stati cristiani, crebbe quindi alla corte del Re di Napoli. Dall’analisi di un documento del 1531, e dall’analisi dei dipinti della cripta, nei quali la Principessa narra la sua vita e spiega il perché avesse sovvenzionato la ristrutturazione della cattedrale, si è arrivati all’ipotesi che si trattasse della figlia di Dracula, anche per la coincidenza dei gioielli rappresentativi della dinastia usati dalla stessa puntualmente rappresentanti nelle cripta, identici a quelli del notissimo padre e, arrivando infine ad ipotizzare che quest’ultimo avesse raggiunto al figlia dopo la cattura da parte turchi. La ricerca storica si focalizza dapprima ad Acerenza e poi a Napoli. Ad Acerenza, piccolo comune della Basilicata, vi è la cattedrale dell’arcidiocesi locale, chiesa di Santa Maria Assunta e San Canio vescovo, dove, sotto il presbiterio, sta la cripta, o cappella Ferrillo, consacrata nel 1524, importante testimonianza delle meraviglie artistiche del Rinascimento.

La cripta consta di uno spazio quadrato in cui quattro colonne centrali con alti pulvini decorati sorreggono la volta a crociera ribassata a nove campate. Di fronte all’ingresso è situato un piccolo altare sormontato da una nicchia che contiene il sepolcro della nobiliare famiglia Ferrillo, con i ritratti di Giacomo Alfonso Ferrillo e Maria Balsa. Nella cripta della cattedrale d’Acerenza riposò dunque il Voivoda Dracula e successivamente fu tumulato a Napoli nella basilica di Santa Maria Maggiore? Necessita per questo sapere che a Napoli, nella chiesa suddetta esiste, ancora oggi, una delle cappelle della famiglia Ferrillo-Balsa. Nella fase di abbassare il pavimento della chiesa napoletana, durante il secondo conflitto mondiale, furono trovate due casse di piombo: una portava l’iscrizione Regis Corradini Corpus, all’interno avvolto in un lenzuolo usurato dal tempo, lo scheletro con il teschio sul petto e una spada al fianco. Sull’altra cassa non vi era alcuna indicazione, cosa davvero curiosa ed inusuale. Le casse di piombo erano usate per personaggi importanti quindi ben potrebbe appartenere ad un membro della famiglia Ferrillo, ma come mai non era indicato il nome? La cattedrale, tra le più importanti del Mezzogiorno, risale all’anno mille in stile romanico con influenze gotiche. Ha una grande abside e un interno a tre navate con importanti tavole cinquecentesche, una cripta del 1524, sulle cui pareti vi sono degli affreschi di Giovanni Todisco da Abriola. All’interno della sacrestia emerge un busto di F. C. Giuliano. Di recente sono stati ritrovati le fondamenta di un battistero adiacente la cattedrale. A pronunciarsi sull’argomento e della veridicità del Codice Dracula, è lo studioso lucano Raffaello Glinni che collabora con l’Università di Tallin, che con la sua equipe italiana, prova a far luce sul perché il Principe Vlad III sia sepolto a Napoli. Egli dichiara: «Nel 1476 il conte Vlad Tempes, Dracula, che appartiene all’Ordine del Dragone come il re di Napoli Ferrante D’Aragona, scompare durante una battaglia contro i turchi e viene dato per morto. Una delle sue figlie, Maria, all’età di sette anni viene adottata da una donna napoletana e condotta nel regno di Napoli. Qui in seguito sposa un nobile napoletano della famiglia Ferillo. La coppia ottiene in «regalo» i territori di Acerenza in Basilicata, ma è legata a Napoli tanto che, alla morte, i coniugi vengono seppelliti a Napoli». Il Dragone è il simbolo presente a rilievo sulla lapide Ferrillo riconducibile all’Ordine, ovvero una congregazione nobile-guerresca, alla quale era iscritto (Dracul-Dragone) e anche Ferrante D’Aragona. Questo simbolo è stato al centro della discussione di tesi della studentessa napoletana Erika Stella che notò il Dragone sul sepolcro di Matteo Ferrillo, risolvendo l’intricato enigma. Si ipotizza che nel sepolcro della famiglia Ferrillo, non ci sia il corpo del suo proprietario ma quello di Dracula; non resta che verificare l’autenticità delle spoglie. Fra le varie ipotesi, gli esperti di fama internazionale, avvalorano la tesi che Dracula non morì in battaglia, ma fu fatto prigioniero dai turchi e che sua figlia, Maria Balsa, riscattò il padre e lo condusse con sé in Italia, dove fu seppellito ad Acerenza e poi a Napoli. Fra le smentite invece si narra che Dracula ebbe solo figli maschi, e non vi era mai stata menzionata nessuna figlia di nome Maria, finché l’esperto, Raffaello Glinni, per riscattare l’ipotesi, si imbatté in una cronaca antica che raccontava l’arrivo di una principessa slava a Napoli, di origine ignota, messa in salvo per volere del padre dalla persecuzione dei turchi e affidata ad una famiglia napoletana fedele al re Ferrante D’Aragona.

Si rivela essere Maria Balsa, adottata e cresciuta a Napoli che sposa il nobile Giacomo Alfonso Ferrillo e fonde il suo stemma con quella del marito, simboleggiato da un Drago, quello dei Principi romeni Vlad. A dare man forte a questa tesi, sono i simboli evidenti sul bassorilievo: il Dragone, simbolo riconducibile all’Ordine che allo stemma araldico della famiglia Ferrillo, collegati a due simboli di matrice egizia, due sfingi, insolite su una tomba europea. Le due sfingi contrapposte rappresentano il nome della città di Tebe, chiamata dagli egiziani Tepes, ma è anche il cognome del conte e all’interno di quei simboli c’è scritto proprio «Dracula Tepes». A Venezia, come riportò, l’allegato del media“Il Gazzettino”, fu rinvenuto uno scheletro di donna del 1600 con un mattone in bocca, segno evidente del mito draculiano, misto a quello delle streghe medievali italiane. In Europa, nella colta Venezia, di due secoli dopo Dracula, si scopre un fossile in un cimitero cittadino che fa dedurre che cosa pensavano in merito all’occulto, alla magia e alla superstizione più viva i veneziani, abitanti di una città cosmopolita e colta. Nel cimitero veneziano del Lazzaretto Nuovo, il fossile rinvenuto, eclatante per la magia draculiana, continua a suscitare curiosità, che stimola la storia e la letteratura della stregoneria, soprattutto femminile italiana poiché le streghe sono il risultato fantastico di fatti storici avvenuti realmente e che fanno luce sul ruolo femminile nella società del XVII sec. Alcune di tali alleanze le si possono intravvedere negli stregoni in Nord e Centro Europa e nelle streghe, di Benevento in modo speciale nel Mezzogiorno. Approfittando della lontananza del longobardo Duca di Benevento, Grimoaldo, l’imperatore bizantino invade l’Italia e si lancia alla conquista di Benevento, che cinge d’assedio nel 663. Grimoaldo lascia Pavia e scende a Benevento per prestare soccorso, inducendo l’imperatore alla fuga. Il fatto che i bizantini non abbiano voluto rischiare di affrontare Grimoaldo la dice lunga sulle sue doti militari. Il duca, infatti, non ha perso mai una battaglia, riuscendo a sbaragliare anche i Franchi nei pressi di Asti e a soffocare la ribellione del duca di Cividale. Ironia della sorte, Grimolado morirà per una ferita di caccia. L’assedio che subisce Benevento nel 663 da origine alla leggenda delle streghe: durante l’assedio il Vescovo cristiano San Barbato promette a Romualdo di intercedere presso Dio per salvare la città a patto che egli si impegni a tagliare il noce attorno al quale i longobardi praticavano riti pagani. L’albero venne definitivamente tagliato nel 667 e da quel momento Benevento divenne nell’immaginario collettivo europeo la città delle streghe, le quali, secondo la leggenda, continuarono ad incontrarsi nel luogo in cui sorgeva il noce magico provenendo da ogni parte d’Europa per apprendere o perfezionare l’arte della stregoneria. Le Streghe di Benevento sono enblematiche della realtà sociale meridionale, mentre gli stregoni sono ancora di casa nelle società ad economia più attardate. La storia delle streghe di Benevento è corredata da un grande numero di racconti di diffusione popolare. Un uomo, vedendo la moglie cospargersi di un unguento e lanciarsi in volo dalla finestra, capì che era una janara e sostituì l’unguento con un’altra sostanza, cosicché la notte dopo la moglie morì schiantandosi al suolo. San Bernardino da Siena nelle sue prediche racconta di un famiglio di un cardinale che giunto a Benevento si unì ad un banchetto notturno, e portò con sé una ragazza lì conosciuta, la quale non parlò per tre anni; si scoprì poi che era una janara. Un racconto forse derivante da un poemetto napoletano del 1800 intitolato Storia della famosa noce di Benevento parla di un uomo che si fa condurre al sabba dalla moglie, una janara. Chiede del sale perché il cibo è insipido, ma appena lo condisce il sabba scompare. A Letino, nell’alta valle del mitico fiume Lete, nel Sannio, una donna janara o strega, rientrando tardi cadde dal balcone e da allora zoppica ed era additata a vista durante la sua vita, tranne che dai suoi familiari ed affini. Anche il lupo mannaro nonché mazzamauriello fanno parte dell’immaginario collettivo dei letinesi. La Janara, nelle credenze popolari del Mezzogiorno italiano ed in particolare nel beneventano ed aree limitrofe è una delle tante specie di vampirismo o stregoneria che popolavano i “cunti” o i racconti. Il nome janara deriverebbe da Dianara, cioè sacerdotessa di Diana, dea romana della Luna oppure dal latino “porta”: era appunto avanti la porta, che era utile mettere una scopa, la strega, costretta a contare i fili della scopa avrebbe indugiato fino al sorgere del sole, la cui luce pare fosse sua mortale nemica. Secondo le più antiche leggende, le streghe di Benevento si riunivano sotto un grande albero di noce lungo le sponde del fiume Sabato; invocate da una cantilena, che recitava “‘nguent’ ‘nguent’, mannam’ a lu noc’ e’ Benivient’, sott’ a l’acqua e sott’ o vient’, sott’ a ogn’ mal’tiemp”, esse tenevano i loro sabba in cui veneravano il demonio sotto forma di cane o caprone. Nel Mezzogiorno d’Italia il magico è ancora più presente rispetto al Settentrione, tra Torino e Trieste, e al centro e nord dell’Europa. La Janara usciva solo di notte e si intrufolava nelle stalle dei cavalli per prendere una giumenta e cavalcarla per tutta la notte. Avrebbe avuto inoltre l’abitudine di fare le treccine alla criniera della giovane cavalla rapita, lasciando così un segno della sua presenza. Capitava a volte che la giumenta sfinita dalla lunga cavalcata non sopportasse lo sforzo immane a cui era stata sottoposta, morendo di fatica. Per evitare il rapimento delle giumente si era soliti, nel passato e ancora oggi, piazzare un sacco di sale o una scopa davanti alle porte delle stalle, poiché la Janara non poteva resistere alla tentazione di contare i grani di sale o i fili della scopa e mentre lei contava sarebbe venuto il giorno e sarebbe dovuta fuggire.

Ancora attualmente gli anziani ricordano nei comuni matesini più isolati sia di Gallo Matese che di Letino nel territorio casertano e a Cusano Mutri in quello benevantano qualche donna locale ritenuta “Janara. La Janara solitamente era una esperta di erbe medicamentose e sapeva riconoscere tra le altre anche quelle con poteri narcotici oppure stupefacenti, che usava nelle sue pratiche magiche, come la fabbricazione dell’unguento che le permetteva di diventare incorporea con la stessa natura del vento. Sul Matese, a Miralago, c’è il ristorante-“Rifugio Janara”. Contrariamente a tutte le altre streghe, la Janara era solitaria e tante volte, anche nella vita di tutti i giorni, aveva un carattere aggressivo e acido. Secondo la tradizione, per poterla acciuffare bisognava afferrarla per i capelli, il suo punto debole. A quel punto, alla domanda “ch’ ttie’ ‘mman’?”, cioè “cosa hai tra le mani?” bisognava rispondere “fierr’ e acciaij” in modo che non si potesse liberare; se al contrario si fosse risposto “capigl'”, cioè capelli, la Janara avrebbe risposto “e ij me ne sciulie comm’ a n’anguill'”, cioè me ne scivolo via come un’anguilla, e si sarebbe così liberata dandosi alla fuga. Inoltre si diceva che catturare la Janara significava la protezione delle janare sulla famiglia per sette generazioni in cambio della libertà. Si accreditava alle janare anche la sensazione di soffocamento che a volte si prova durante il sonno, si pensava infatti che la janara si divertisse a saltare sulle persone cercando di soffocarle, si diceva che questo accadesse soprattutto ai bambini, che si proteggevano con degli scongiuri o “abbuotini”, veri e proprie pozioni magiche. Inoltre si riteneva che i bambini che avessero manifestato improvvisamente deformazioni nel fisico, fossero stati nottetempo passati attraverso il treppiede che si usava nel focolare per sostenere il calderone. Probabilmente la leggenda nacque nel periodo del regno longobardo su Benevento, poiché anche se quasi tutti gli abitanti della città si erano convertiti al cristianesimo, alcuni veneravano ancora in segreto gli Dei pagani in particolare le Dee Iside, Diana ed Ecate il cui culto è ancora testimoniato da monumenti sparsi per nella storica città di Benevento, capitale della Longobardia Meridionale per circa mezzo millennio, con diffusione dell’immaginario degli antichi Germani e coloni Romani.

Il noce di Benevento con sotto la danza stregata e brusa la vecia a Prato della Valle di Padova, sono segni artistico popolano evidenti del magico che è nell’Homo sapiens, attualmente. Anche nelle danze del Mezzogiorno d’Italia, o antica Magna Grecia, si riscontrano segni evidenti di aloni magici culturali. Nell’Italia settentrionale è la “Vecia” che si fa bruciare pubblicamente la notte dell’Epifania, come in Veneto e a Padova nell’ampia, centrale e storica piazza adornata di 75 monumenti di papi, studiosi, ecc. di “Prato della Valle”. La figlia del Principe Vlad III o Dracula, Maria Balsa, va in sposa al conte Giacomo Alfonso Ferrillo, figlio di Matteo, amico di Ferdinando d’Aragona o Ferrante I, Re di Napoli dal 1458 al 1494. Ferdinando si sposò due volte ed ebbe molti figli anche fuori dai matrimoni con almeno tre concubine. La prima moglie dal 1444 fu Isabella di Chiaromonte, figlia di Tristano conte di Copertino e Caterina Orsini. Isabella morì nel 1465 dopo aver avuto sei figli di cui una, Beatrice di Napoli (1457-1508) fu Regina d’Ungheria in quanto moglie di Mattia Corvino e di Ladislao II di Boemia e Ungheria. Eccoci al primo legame nobiliare con l’ambiente draculiano, dove regnava Matteo Corvino, amico e carceriere di Dracula ad Hunedoara in un poderoso castello. In seconde nozze il Re di Napoli sposò Giovanna d’Aragona (1454-1517), figlia di Giovanni II d’Aragona e Giovanna Enriquez, ed ebbero due figli. Dei nove figli avuti con le concubine, una fu Lucrezia d’Aragona, incerto se figlia di Giovanna Caracciolo o di Eulalia Ravignano, moglie di Onorato Caetani, duca di Traetto e principe di Altamura. Della nobile casata di Onorato Caetani o Gaetani lo scrivente è stato a Piedimonte d’Alife, oggi Matese, in classe (1966-68) con un suo discendente: Ranieri Gaetani dell’Aquila d’Aragona e conte di Fondi (nella basilica di Anagni vi è la storica cappella dei Caetani del 1200) e di Laurenzana, in Basilicata. Sembra quasi un incontro fortuito, ma nel corso della presente e stimolante ricerca, di Ecologia Umana, lo si rincontra sulle labili e nebbiose piste draculiane. Ritorniamo al Codice Dracula, che sta quasi per essere svelato nella profondissima storiografia del Mezzogiorno d’Italia, mancava solo la vicenda draculiana, direttamente verificata dallo scrivente in cinque anni d’insegnamento in Romania e dieci anni successivi in Italia del sud, del centro e del nord. Matteo Ferrillo possedeva un feudo ad Acerenza in Basilicata, comune importante e da secoli legato ai destini di Napoli capitale di un Regno. Tale regno era il più esteso della penisola italica e con un concentrato di famiglie nobiliari di baroni, di conti e di duchi, che derivano anche dall’antico Sannio con capitale Bojano (CB), dove lo scrivente ha rappresentato, da sacerdote e per due volte, il mito delle Primavere Sacre, quando 7 mila Sabini migrarono guidati dal bue sacro a Bojano nell’VIII sec a. C.. Chissà che in futuro, tra gli archivi dei nobili Gaetani (la fotografia a sinistra ritrae lo scrivente davanti il palazzo con lo stemma ducale dei Gaetani a Piedimonte Matese, dove dimorò la moglie del duca, Aurora Sanseverino, imparentata con altri nobili famosi, a destra Cusano Mutri con lo scriptorum loci A. V. Maturo) non si possa rinvenire documenti secretati relativi alle parentele dinastiche con il reame di Napoli e con i conti Ferrillo con feudo ad Acerenza. Acerenza è un comune ubicato su di un altipiano dai fianchi ripidi tra il fiume Bradano e il suo affluente Fiumarella (ottima posizione difensiva) a oltre 830 metri di quota, è antichissima e nel 1951 aveva più di 5 mila residenti ridotti della metà attualmente per l’esodo verso terre meno povere. Essa è abitata fin dal  VI sec. a. C. con l’antica Acheruntia, Αχερουντία in greco, citata dagli scrittori: il patavino Tito Livio e il melfitano Orazio. Tutti la citano come “Fortezza di guerra” e “presidio”. Nel V sec. fu istituita come una delle Diocesi lucane. Per il periodo dell’arrivo di Maria figlia di Dracula è bene ricordare i due vescovi della sede di Acerenza:l’Arcivescovo Marino De Paulis (dal 1444, fu il primo Arcivescovo di Acerenza e Matera, fino alla morte nel 1470). Gli successe F. Enrico Lunguardo dal 1470 al 1482. Anche a fini di richiamo turistico, Acerenza dovrebbe di più e maglio scoprire e valorizzare la presenza in loco della figlia del Principe Dracula, maritata al conte Ferrillo, che proprio qua aveva un feudo con la sua ricca storia nel tempo. Il mistero che racchiude il Codice Dracula è dunque legato anche al Mezzopgiorno italiano con Maria, la figlia del principe Vlad III, che ricevuto il padre in Basilicata lo fece seppellire nella Cattedrale di Acerenza inizialmente per poi trasferirlo alla tomba di famiglia dei Ferrillo nella chiesa di Santa Maria la Nova a Napoli.

Maria Balsa, moglie del Conte Ferrillo di Acerenza, secondo le cronache del tempo, era figlia del principe romeno,Vlad III. Sulla facciata è presente uno stemma con un drago, che apparteneva in quel periodo proprio alla casata del principe Vlad III. Le curiosità non finiscono qui, perché la Cattedrale di Acerenza è colma di rimandi al vampirismo. All’ingresso sono presenti due creature mostruose che mordono sul collo due ignare vittime. Nella cripta è possibile vedere, su di un bassorilievo, una singolare raffigurazione che riproduce il demone biblico Lilith, noto per comparire solo di notte e succhiare il sangue agli uomini, in particolare ai neonati. Negli affreschi l’uomo che dovrebbe raffigurare Dracula è posto di spalle all’altare, un po’ come se avesse voluto voltare le spalle a Dio. La Madonna con Bambino, raffigurata di fianco, fa la stessa cosa. Più o meno come fece Vlad quando, secondo la leggenda, per rivedere sua moglie, uccisa dai turchi, siglò il patto con il Diavolo che lo rese un non-morto». Di certo si può affermare che nella tomba della famiglia dei nobili Ferrillo, fu tumulato il corpo di Vlad III, sulla lastra tombale c’è lo stemma araldico del dragone, che possedeva sia il Principe di Valacchia, Vlad III o Dracula, che Ferdinando d’Aragona, Re di Napoli. Il “Codice Dracula”, come i Codici di Leonardo da Vinci ed altri codici misteriosi, ha dentro enigmi che attirano la curiosità di molti studiosi e dei media mondiali. Il primo di tali enigmi ha origine nel blasone stemmato del Voivoda o Principe Vlad II, padre di Dracula o Vlad III. Dracul (in lingua romena “Dracul”, significa “il diavolo”: drac = “diavolo” e “ul” = “il”, mentre -ulea è un patronimico, per cui Draculea significa “figlio del diavolo”). Per capire la magnanimia del Re di Napoli del XV secolo, Ferdinando I o Ferrante d’Aragona, è bene ricordare, che favorì i suoi sudditi ad aumentare il proprio reddito con l’introduzione di nuove misure che di fatto consentivano, a tutta la popolazione del regno, di godere di maggiore libertà nella vita quotidiana. Con una legge del 1466, consentì ai coltivatori di disporre liberamente dei propri prodotti, svincolandoli dall’obbligo di dover vendere le derrate al signore locale al prezzo da lui fissato. Le città demaniali acquisirono sempre maggiore importanza mentre imponeva maggiori controlli sul potere baronale, che avevano tentato, invano, una rivolta. Nel regno, gli ebrei protetti dal Re Ferrante svolgevano una notevole attività artigiana e commerciale e per le libertà comunali fu un momento importante. Il Re stesso concesse statuti alle città demaniali e ratificò quelli concessi dai baroni, favorendo la crescita di un’aristocrazia urbana come contrappeso alla nobiltà feudale. Nel ventennio di pace interna al regno, la numerosa famiglia fu utilizzata da Ferdinando I per consolidare la dinastia con una serie di alleanze matrimoniali.

Nel 1465, Alfonso, primogenito di Ferrante, sposò Ippolita Maria Sforza. Il Ducato di Bari fu assegnato prima a Maria Sforza e, dopo la sua morte, a Ludovico il Moro. La principessa Eleonora, figlia di Ferrante, andò in sposa ad Ercole d’Este. Dopo la morte della moglie Isabella di Chiaromonte, Ferrante conservò il legame con la Spagna sposando, il 14 settembre 1477, la cugina Giovanna, sorella di Ferdinando il Cattolico. Le alleanze di Ferrante erano con gli Sforza di Milano e gli Estensi di Modena e Ferrara. Nel 1480 l’esercito ottomano del sultano Maometto II, occuparono Otranto, massacrando la maggior parte della popolazione. L’anno successivo la città fu riconquistata dal figlio di Ferrante Alfonso, duca di Calabria. Il suo governo centralista portò nel 1485 a un tentativo di rivolta da parte dei baroni, tra i quali Pirro del Balzo, duca d’Andria e di Venosa, suo fratello Angilberto duca di Nardò, i Caracciolo di Melfi, F. Coppola, Conte di Sarno e A. Sanseverino, Principe di Salerno appoggiati da Papa Innocenzo VIII. L’insurrezione fu stroncata e molti nobili, ingannati con la promessa di Ferdinando di un’amnistia generale, furono incarcerati a Castelnuovo per sua precisa volontà, forse Ferdinando aveva udito come facevano i parenti ed affini di Transilvania e Valacchia: prima si invitano i nemici, poi si incarcerano ed infine si uccidono. Famosa è la carneficina dei suoi vassalli infedeli, fatta dal Principe Vlad III, nel giorno di Pasqua ortodossa in Romania. Ecco allora che il Codice Dracula ha già una chiave d’accesso che lo genera e poi lo fa sviluppare lungo le piste della storia, della chimica, della magia e le ali del mito e delle ipotesi anche fantastiche, intrise di tradizioni locali e non che si alleano con il dionisiaco e il demoniaco internazionale. La festa Halloween in America settentrionale ed Europa anglosassone. Halloween (termine inglese) è una ricorrenza di origine celtica celebrata la sera del 31 di ottobre, che nel sec. XX ha assunto negli Stati Uniti le forme spiccatamente macabre e commerciali con cui è divenuta nota. L’usanza, molto influenzata dalle nuove tradizioni statunitensi, si è poi diffusa in molti Paesi del mondo e le sue manifestazioni sono molto varie: si passa dalle sfilate in costume ai giochi dei bambini, che girano di casa in casa recitando la formula ricattatoria del trick-or-treat (dolcetto o scherzetto, in italiano). Caratteristica della festa è la simbologia legata alla morte e all’occulto, di cui è tipico il simbolo della zucca con intagliata una faccia sorridente (il più delle volte spaventosa) e illuminata da una candela o una lampadina piazzata all’interno (i rituali di Halloween sono molto più diffusi nel settentrione che nel meridione italiano, più latinizzato e tradizionale) mancherebbero i riti demoniaci indiani e cinesi. Nella maggior parte delle culture antiche e moderne, fin dagli albori della civiltà, sono esistite credenze e pratiche magiche, con caratteristiche sostanzialmente simili anche se formalmente diverse, che si possono trovare in relazione ad aspetti tipici dell’occultismo della superstizione e della stregoneria. Alcune scene di pitture del paleolitico superiore trovate nelle caverne francesi sono state interpretate come aventi finalità magiche. Nell’antichità si credeva anche che la magia si potesse relazionare alla varie fasi lunari: luna piena = magia nera, mezza luna = magia bianca. Nonostante la polemica antimagica di alcuni scrittori cristiani, come Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino e l’ostilità della Chiesa nei riguardi delle arti occulte, il substrato culturale della magia medievale ebbe una certa rilevanza. Persino il mondo religioso germanico fu prodigo di divinità intrise di doti magiche, come Thor e Odino; anzi lo scopo della magia era quello di liberare le forze occulte possedute dalle potenze superiori. La produzione letteraria di carattere magico fu molto ricca, grazie anche a scrittori arabi. Alcune opere astrologiche, come il Tetrabiblos di C. Tolomeo, l’Introductiorum di Albumasar, il Liber Vaccae (o Libro degli esperimenti) ed il famoso Picatrix, ebbero una enorme influenza sulla speculazione magica dell’età rinascimentale. Dante Alighieri condanna maghi ed indovini nella quarta bolgia dell’ottavo girone infernale, Canto XX. Secondo la tradizione cristiana, la magia nera sarebbe un tentativo da parte del Demonio di deviare l’umanità dalla retta via prevista nei piani divini per mezzo della seduzione diabolica seduzione. Il mago nero, ingannato dal Diavolo, cercherebbe un accordo con le potenze del male, vale a dire le schiere demoniache, che in cambio di offerte sacrificali e dell’adorazione tributata loro nel corso di rituali specifici e cruenti (che possono prendere anche la forma di perversioni di rituali religiosi, come le messe nere) lo ricompenserebbero poi con i doni della conoscenza, del potere, della ricchezza e dell’amore, il cui prezzo finale è immancabilmente la perdizione di colui che ha ceduto alla tentazione. La magia nera è tradizionalmente considerata come la capacità di un mago di comprendere e controllare un potere maligno e soprannaturale. È spesso associata all’occultismo e al satanismo. Per secoli si è condivisa ovunque l’esistenza dei vampiri. Nel 1700, questa credenza portò a una vera e propria psicosi di massa tanto da produrre esecuzioni pubbliche di individui ritenuti dei non-morti. Il fenomeno, passato alla storia come «Controversia sui vampiri del XVIII secolo» aveva raggiunto tali proporzioni che Maria Teresa d’Austria incaricò il suo medico personale Gerard van Swieten, di condurre un’indagine per tutto l’impero. La ricerca si protrasse dal 1718 al 1732 e il responso finale fu che i vampiri non esistevano. L’imperatrice asburgica, allora, emanò una legge che vietava le riesumazioni e le profanazioni di tombe. Questo provvedimento, se chiuse formalmente la controversia, consegnò definitivamente il vampiro al mondo della superstizione e della letteratura rendendolo, comunque, immortale. Come noto, lo scrittore irlandese Bram Stoker nel 1897 scrisse «Dracula», il romanzo che ponendo come protagonista la figura di Vlad Ţepeş Dracul, voivoda di Valacchia, avrebbe raccolto e definito le gran parte delle tradizioni balcaniche sul mondo dei vampiri. Innumerevoli sono stati, da allora, i film, i romanzi e le serie tv dedicati a questa creatura che continua ad affascinare e a rimanere una delle nostre paure preferite. Sin dall’antichità, la morte, il sangue e l’oscurità sono gli archetipi più potenti delle paure dell’uomo. Questo spiega perché il mito di una creatura maligna e diabolica che vive di notte nutrendosi dell’essenza vitale degli esseri umani (carne o sangue) è presente in moltissime culture fin dall’arcaico, come in quella mesopotamica, egizia, ebraica, greca e romana. Nelle Grecia antica, una figura assimilabile al vampiro si chiamava vrykolakas, nei Balcani era lo strigoi, in Francia il revenant, in Africa l’asanbosam (un essere arboricolo con denti di ferro) nelle Americhe il loogaroo, in India la ghul, che si ciba di cadaveri, e nelle Filippine l’aswang, sorta di vampiressa dotata di proboscide. Una collega di New York, del liceo G. Marconi, interessata a Dracula, chiese, allo scrivente nel 2005, di inviarle una nuova guida dei posti di Dracula in Romania per darla ad un’agenzia di viaggi. 14 anni dopo, lo scrivente, continua la ricerca draculiana, che stimola il magico che c’è in tutti gli ambienti, anche quelli cosiddetti ad economia avanzata. A Padova, ad esempio, ancora il 30% della popolazione, all’inizio del III millennio, ricorre spesso all’oroscopo e a maghi e maghe per curarsi e sapere del loro futuro, ciò lo ha rilevato, tra gli altri, l’ex Vescovo locale, Antonio Mattiazzo, circa 20 anni fa mentre governava una delle Diocesi più grandi d’Italia, dove alcuni preti si sono dati ai demoni con scandali sessuali da quasi scomunica papale, che non c’è stata, forse per penuria di sacerdoti. Nel Molise, Bojano (CB) antica capitale del Sannio Pentro, si svolgono festival internazionali del folclore, animati dal compianto prof. Cosimo Silvaroli, e molti dei balli deriverebbero dal noto saltarello greco. I Greci s’insediarono ad Ischia già nel VII sec. a. C. e Napoli stessa deriva dal greco Neapolis, nuova città detta anche Partenope, dal mito della sirena locale. Nel Salento, invece, permane il ballo della “pizzica” che è una tipica danza pugliese nata espressamente nel Salento ed in qualche comune della provincia di Taranto e di Bari. E’ nota non solo in Italia ma in tutto il mondo. Nell’antichità era conosciuto come ballo da corteggiamento tra uomo e donna. In molte rappresentazioni è ancora utilizzato l’elemento che caratterizza la danza ossia il fazzoletto che veniva anticamente agitato per la scelta del partner con il quale condividere la magia del ballo. La taranta è un ballo non solo tipico del Sud Italia ma è praticato nelle regioni che sono tutte accomunate dal rito coreutico-musicale sviluppatosi nella Magna Grecia. La taranta è accompagnata da strumenti musicali differenti a seconda delle regioni in cui la si ascolta o balla quindi da castagnole ossia strumenti di legno che si tengono tra le mani, da violini, dalla fisarmonica, dal tamburello, dalla chitarra, dal mandolino e dal flauto. La tarantella è uno dei balli tipici del Centro/Sud Italia maggiormente conosciuto all’estero. E’ una danza tradizionale dal ritmo veloce ed è un ballo che anticamente era legato alla terapia da morso della tarantola. Deriva infatti il suo nome dalla taranta ossia dal morso del ragno. Secondo i racconti antichi chi veniva morso dalla tarantola sarebbe riuscito, tramite il ballo, ad espellere il veleno grazie alla sudorazione e l’energia positiva che inevitabilmente il ballo produce. “La Pizzica” e “la Taranta”, con donne “indemoniate” che ballano spasmodicamente, potrebbe essere un fenomeno di vampirismo femminile e interessante è il museo dedicato a questo tipico nella storica città di Galatina (LE). Lo scrivente conosce i balli salentini suddetti per aver partecipato con il collega di Galatina, Francesco Masi, ad un proficuo scambio culturale tra il Salento e la Transilvania nel 2006 tra studenti e docenti del Colegiul Tehnic ”Transilvania” di Deva e l’Istituto Tecnico Turistico di Galatina diretto dal Dirigente Scolastico, Giulio Cesare Viva.

La “Pizzica” è attualmente ballata dai gruppi folk pugliesi nel mondo e in giro per l’Italia nelle manifestazioni festose. Nel pantheon malefico delle credenze di tutto il mondo il vampiro è l’essere più a contatto con la materia organica dell’uomo, con i suoi fluidi e la sua linfa vitale. Per questo motivo i collegamenti con malattie, morti inspiegabili e fenomeni biologici ricoprono un ruolo importante per l’origine di questo mito. Il vampiro (dal serbo-croato “vampir”) si consolida, con le sue classiche caratteristiche, nell’Europa dell’est intorno al ‘600, quando si iniziò a mettere per iscritto le leggende orali tramandate da numerosi gruppi etnici. Da questi racconti, pur nella diversità delle tradizioni, emergono alcuni tratti comuni che contraddistinguono questa creatura malvagia. Il suo corpo viene descritto in genere come gonfio e ben pasciuto, di colorito scuro o paonazzo, spesso con un occhio semiaperto e un rigagnolo di sangue che esce dalla bocca e dal naso. Le sue unghie sono lunghe, i denti spesso scoperti in un ghigno satanico. Il libro «Vampires, Burial and Death» dell’antropologo americano Paul Barber collega tali caratteristiche ad alcuni fenomeni che si verificano, in certi casi, durante la decomposizione dei cadaveri. Quando in un villaggio, o in una famiglia, si verificavano varie morti consecutive magari causate dalla tubercolosi, si riteneva che la prima persona morta potesse provocare il decesso degli altri tornando misteriosamente in vita. Per questo motivo, se ne riesumava la salma alla ricerca di indizi che provassero la sua attività di vampiro. In particolari condizioni chimico-climatiche il corpo seppellito non va in immediato disfacimento: i gas che si sviluppano al suo interno possono produrre gonfiore, colorito rossastro, emorragie visibili dal naso e dalla bocca e, se passano attraverso la laringe, tali gas producono persino gemiti e rumori. La disidratazione dei tessuti poteva scoprire i denti e la radice dei capelli. Tutto ciò faceva ritenere agli attoniti autori della riesumazione, che il defunto conducesse un’intensa attività post mortem, che potesse uscire dalla tomba per alimentarsi empiamente suggendo il sangue dei vivi. Esemplare fu, in tal senso, il caso di un contadino serbo, Peter Plogojowitz, deceduto nel 1725 a 62 anni per tubercolosi o difterite nel villaggio di Kisilova, in Rezia. Nel giro di pochi giorni lo seguirono nella tomba nove dei suoi familiari e ognuno aveva dichiarato, prima di morire, che Peter aveva fatto loro visita, tentando di soffocarli. Il terrore si impadronì dei paesani i quali andarono a riesumare il corpo di Plogojowitz alla presenza del provveditore e del pope. Con raccapriccio constatarono che il cadavere non presentava il minimo segno di decomposizione: le unghie, cadute, si erano riformate e dalla sua bocca usciva un rigagnolo rossastro. Così gli abitanti del villaggio decisero di trafiggere il corpo con un palo appuntito: quale orrore quando il cadavere emise dei gemiti, inondandosi di sangue fresco. Il corpo venne bruciato e l’episodio fu accuratamente riportato dai responsabili della pubblica sicurezza. Venne successivamente citato da padre Agostino Calmet, l’erudito che scrisse un ampio e celebre trattato sui vampiri. Il prolungarsi delle condizioni di coma o catalessi di un malato, a volte, faceva sì che lo si inumasse mentre era ancora vivo. Si trattava di un caso piuttosto frequente nei secoli passati, tanto che, nell’Ottocento, ancor più dopo la pubblicazione del famoso racconto di Poe «The premature burial», la paura di una simile evenienza si diffuse tanto da far inventare degli specifici sistemi di allarme per le tombe. Possiamo, quindi, immaginare lo choc provato da coloro che partecipassero all’esumazione di un corpo prematuramente seppellito: la posizione scomposta del cadavere, la sua espressione di terrore, i graffi e le incisioni nel coperchio della bara, tutto suggeriva a degli osservatori prevenuti, la diabolica volontà di resurrezione di un vampiro, mentre al contrario si trattava degli spasmi disperati di un poveretto sepolto vivo. A Letino, paesetto montano e natale dello scrivente, solo nel 1888 furono inumati i morti (nell’attuale cimitero, posto nel castello, longobardo-normanno, sulla sommità del monte tra le alte valli dei fiumi Lete e Sava), prima erano seppelliti sotto il pavimento della chiesa di San Giovanni, in centro. La tradizione orale, di alcuni vetusti anziani, raccontava che qualcuno, seppellito prematuramente, prima del 1888 quando una giovane donna fu seppellita nell’attuale camposanto, non sia riuscito a sollevare la pesante botola di marmo e abbia gridato invano “aprite per pietà che sono ancora viva”. Nel 1985, si ipotizzò che all’origine del folklore sui vampiri, c’era la Porfiria, una malattia rara che colpisce l’attività degli enzimi che sintetizzano l’ematina nel sangue e che, nei casi più gravi, deturpa orribilmente il viso di chi ne è affetto. Le labbra si ritirano scoprendo i denti dell’arcata superiore, gli occhi si opacizzano, il naso «cade» e il malato, estremamente fotosensibile, non può sopportare la luce del sole che, scatenando la protoporfirina, gli produce bruciore, prurito e tumefazioni. Secondo il biochimico David Dolphin, ai malati di porfiria, che uscivano di casa esclusivamente al calar delle tenebre, si dava da bere del sangue animale, nel vano tentativo di curare la malattia. Tuttavia, sebbene l’ipotesi sia stata presto respinta dal mondo scientifico, essa si è radicata nell’opinione pubblica. Basterebbe tuttavia farsi una domanda: possibile che le persone affette da questa rara malattia fossero in così gran numero da dare vita a una simile leggenda? I vampiri si tengono ben lontani dalla luce del sole; si nutrono di sangue per mezzo dei loro lunghi denti affilati e bianchissimi che rischiarano le loro stragi nella notte; hanno un colorito pallido, arti lunghi e ossuti; provano una repulsione forte ed istintiva nei confronti dell’aglio. Sicuramente non perché si preoccupino eccessivamente dell’igiene dentale vista la loro alimentazione sanguinolenta. Infine, amano dormire nelle bare e svegliarsi inaspettatamente per terrorizzare il passante di turno che li credeva deceduti. Le porfirie comunque sono un gruppo di malattie rare, per la maggior parte ereditarie, dovute a un’alterazione dell’attività di uno degli enzimi che sintetizzano il gruppo eme nel sangue. La diagnosi viene effettuata con uno scrupoloso esame nel sangue e nelle urine. La malattia che ha ispirato Bram Stoker è la Porfiria eritropoietica congenita, detta anche Morbo di Gunther, una malattia ereditaria ed estremamente infrequente: colpisce alcune centinaia di persone nel mondo. Studiando l’eziologia di questa patologia è possibile collegare l’opinione comune sui vampiri ai suoi sintomi: il morbo è accompagnato da anemia emolitica, causata cioè da un processo di distruzione dei globuli rossi: una valida spiegazione al pallore dei vampiri, insomma. Per cercare di alleviare e risanare l’innaturale colorito i familiari dei malati erano soliti far bere loro sangue animale, ma la chimerica associazione sangue-vampiri non ha un’unica causa: le urine degli affetti da questa patologia tendono ad assumere un colore rossastro sia a causa della crescita di porfirine da eliminare, sia perché in contemporanea si presenta spesso un’infiammazione detta vasculite, che può causare il sanguinamento dei vasi di intestino e reni, determinando la comparsa di sangue in urine e feci. I vampiri provano un’estrema ripugnanza nei confronti dell’aglio: esso, a causa dell’eccesso di porfirine nell’organismo, amplifica l’effetto di alcune tossine contenute nel sangue e porta conseguentemente ad un tragico peggioramento delle condizioni di salute. Perché vi è la repellenza per la luce del giorno? I malati di porfiria soffrono di elevata fotosensibilità, che spesso causa loro la comparsa di bolle ed ustioni sulla pelle quando viene esposta alla luce del sole. I denti lunghi e luminosi sono invece dovuti alle porfirine che si depositano nel fosfato dei denti e che causano in loro fluorescenza, rendendoli visibili anche in ambienti bui sebbene questi appaiono in realtà rossastri quando illuminati con una luce ultravioletta. La mancanza di raggi UV aggrava un altro sintomo: il rachitismo degli arti, in particolare delle mani, che accresce ancor di più quell’aspetto “mostruoso” che ha animato il mito. Questa malattia nei casi più gravi può infine incidere sul sistema nervoso in vari modi. Sono possibili tremori, allucinazioni, scatti d’ira e stati confusionali, fino alla paralisi e al coma; queste due ultime ipotesi si crede possano aver alimentato la credenza che i vampiri si risvegliassero dalla morte. I denti lunghi e luminosi sono invece dovuti alle porfirine che si depositano nel fosfato dei denti e che causano in loro fluorescenza. La porfiria è dunque una malattia riconosciuta, studiata e finalmente non temuta; tuttavia molti continuano ancora a vedere del soprannaturale in ciò che non capiscono. L’uomo di scienza, e l’umanità tutta, dovrebbero non distaccarsi tragicamente dalla misticità, dal metafisico: sarebbe opportuna la ricerca di un lucido compromesso tra passioni e raziocinio, cercare la ragione, le cause che muovono gli ingranaggi dell’universo senza farsi abbagliare da false credenze e limiti imposti. Un laureato in Fisica dell’Università di Padova, nel 1965, iscritto all’Associazioni “Alumni”, Federico Faggin, inventore del microchip, autore dell’ultimo saggio “Silicio” e premiato, negli USA, per lo sviluppo della scienza e della tecnica, sta esaminando (lo scrivente lo ha ascoltato all’Università di Padova quest’anno, dov’era stato invitato), in modo deciso e con la moglie americana, “La Consapevolezza” e l’idea del divino, ma con rigore scientifico come richiede la Fisica, e non solo con i saperi teologico, psicologico e filosofico. Il personaggio di Dracula fu introdotto dall’irlandese Bram Stoker nell’omonimo romanzo datato 1897. Nel libro, uno dei metodi (il quale poi diventerà ricorrente nelle varie trasposizioni letterarie e cinematografiche) che vengono utilizzati per tenere lontano i vampiri (e specialmente Dracula) è l’utilizzo di una collana d’aglio, il cui odore pungente risulta capace di scacciarli via! Nei secoli successivi al XV molti poveri malati di porfiria venivano uccisi dopo strofinio d’aglio sulle loro ferite ed il paletto conficcato nel cuore ed una croce in mano all’assassino, spesso preti e guardie dei vescovi. La croce avrebbe giustificato tali omicidio così efferati? Allora, sui usava farlo anche con l’approvazione del clero, spesso succube dei nobili medievali in province lontane come la Transilvania di quel periodo. La contessa Batory fu incolpata solo di essere eretica non di essere carnefice di 650 vergini per utilizzarne il sangue e “ringiovanire”. L’aglio, il cui nome scientifico è Allium sativum, ha origini molto antiche. La sua origine, forse in Asia centrale, risale alla preistoria ed è stato utilizzato per molto tempo dalla medicina popolare. Ad esempio, il Codice Ebers, un papiro egizio di carattere medico, datato 1550 a.C. circa, fornisce oltre 800 formule terapeutiche, delle quali 22 menzionano l’aglio come rimedio efficace per svariati disturbi. In Romania l’aglio viene molto usato in cucina, ricordo gli odori intensi a scuola là, ma vi ero abituato, da piccolo, da mia nonna, Orsi Maria G., di Letino, paesetto tra Molise e Campania, isolato sui monti alti del Matese, dove le tradizioni sono più lente e dure a morire e le ianare erano molto temute, circa 50 anni fa. Associando il vampirismo al mondo delle malattie, può sembrare abbastanza plausibile citare il morbo della rabbia secondo le argomentazioni del neurologo spagnolo Juan Gómez-Alonso. Il virus produce, infatti, un’infiammazione del cervello che genera comportamenti aggressivi tali da condurre il malato a mordere e aggredire altre persone; squilibra il sonno tanto da rendere svegli di notte e sonnolenti di giorno; la malattia viene trasmessa, oltre che dai cani rabbiosi, anche da lupi e pipistrelli, animali tradizionalmente associati ai revenant. Nell’Ottocento la rabbia era un morbo temutissimo e il morso di un animale infetto veniva cauterizzato con una chiave arroventata intitolata a Sant’Uberto, ritenuto guaritore della malattia. Per l’ipotesi che la principessa di Acerenza, Maria Balsa, o Barsa, fosse una discendente di Vlad Tepes, più noto come Dracula, è stata analizzata la storia della famiglia dei Conti Ferrillo –Balsa, Signori di Acerenza. Questi realizzarono nel 1524 nella Cattedrale della cittadina Lucana una magnifica cripta rinascimentale. Sulla famiglia dei nobili Napoletani, Ferrillo, tutto era noto, per aver ottenuto Matteo Ferillo dal Re di Napoli, Ferdinando D’Aragona, il titolo di Signore di Acerenza, A Matteo Ferrillo era succeduto il figlio Giacomo Alfonso, che convolò a nozze con Maria Balsa una principessa che proveniva dai Balcani. Il Codice Dracula dunque è come una matriosca di mito, storia, folclore e fantasticherie. Se si sceglie solo il percorso storico non tutto è documentabile ad iniziare dalle date e luoghi della nascita e della morte del Principe romeno, Vlad III, del XV secolo, che è più noto per la sua crudeltà in combattimenti interni ed esterni al suo principato di Valacchia. Egli, invece, era un uomo anche colto perché, ad esempio,scrisse il suo nome in documenti latini come Wladislaus Dragwlya, voivoda partium Transalpinarum (1475). Il suo patronimico romeno Dragwlya (o Dragkwlya) Dragulea, Dragolea, Drăculea, deriva dall’epiteto Dracul portato da suo padre Vlad II, che nel 1431 divenne, come altri nobili europei fedeli al Re, membro dell’Ordine cavalleresco del Drago, fondato da Sigismondo di Lussemburgo nel 1418. La vita di Dracula fa imbattere gli studiosi necessariamente in nodi interpretativi dovuti a varie fonti anche ben documentate. Sicuramente il Principe Dracula fu un Voivoda romeno, ma non della Transilvania. Egli fu tre volte voivoda di Valacchia, rispettivamente nel 1448, dal 1456 al 1462, e infine nel 1476. Fino alla prima metà del 1800 la Romania era distinta in tre principati: Transilvania, Valacchia e Moldavia, gli ultimi due si fusero nel primo stato unitario di Romania.

Uno degli artefici ed abile diplomatico romeno fu Costantino Cantacuzino, ex studente dell’Università di Padova, la cui statua marmorea è posta di fronte alla cattedra lignea di Galileo Galilei, come ho scritto e pubblicato sulla bella rivista trimestrale “Vox Libri”, rivista (animata dalla colta Denis Toma) della biblioteca Judetiana di Hunedoara “Ovid Densusianu” con sede a Deva. Solo dopo si unificò anche la Transilvania, che alla fine della Grande Guerra, con il “Trattato di Trianon” che premiava i vincitori a scapito dell’impero austroungarico, la Romania, ebbe quasi raddoppiata l’estensione territoriale e la popolazione. Pare che la Transilvania fosse la terra della madre di Dracula (causa dell’accreditata, ma non certa nascita a Sighisoara di Vlad nel 1431) e che il figlio vi abbia spesso dimorato come nel castello di Hunedoara, dove dapprima fu compagno adolescenziale di Mattia Corvino poi fu anche imprigionato per lotte tra le diverse famiglie nobiliari e soprattutto tra Magiari, Ortodossi e Protestanti nonché altre minoranze religiose. Ma chi era il nobile ungherese e cattolicissimo Mattia Corvino? Mátyás Hunyádi o Mattìa Corvino, figlio di János Hunyadi, nato a Kolozsvár verso il 1440 e morto a Vienna nel 1490, ottiene il trono ungherese nel 1457, mentre è ancora a Praga, prigioniero del re di Boemia Giorgio di Podebrady. Finalmente tornato in una Ungheria indebolita da contrasti oligarchici e sostenuto dallo zio materno Michele Szilàgyi nella lotta alla Nobiltà, aizzata da Federico III e dagli hussiti penetrati nei territori del Nord, Corvino visse i suoi primi anni di regno nella contesa dinastica col re boemo. Incaricò dell’azione antiturca Vlad III di Valacchia, rimosse le turbolenze interne e, consolidata la sicurezza e l’ordine attraverso adeguate riforme sociali ed economiche, si dette alla espulsione dei nemici dalle province meridionali. Dopo averli sconfitti, nel dicembre del 1463 occupò la fortezza bosniaca di Jaice e, nell’anno successivo, appoggiato da Pio II intraprese la campagna santa contro Maometto II. Nel 1468, previa promessa successoria da parte di Federico III e di Papa Paolo II, riprese l’attività di contrasto anti-hussita e guerreggiò ancora con G. di Podebrady finché, il 3 maggio del 1469, penetrato in Moravia, fu eletto re di Boemia dai cattolici e mosse guerra anche ai polacchi, dopo che il rivale aveva designato al trono Ladislao, figlio di Casimiro IV di Polonia. Nel 1461 l’Ambasciatore, Monsignor G. Navarro, informa il leader albanese G. Kastrioti Skanderbeg dell’intento del Papa a porlo a capo di una nuova crociata contro i turchi ottomani, crociata che non si realizzerà mai. Nella storia delle crociate dunque l’Europa balcanica è stata protagonista.

La Romania ha una naturalità diffusa senza grandi città fatta eccezione per Bucarest e poche altre, ma tre volte più piccole come Cluj,Timisoara, Craiova, Iasi. Sui monti romeni sia d’inverno che d’estate è facile imbattersi in orsi, cinghiali ovini e pastori nonchè in turisti vestiti da pastori come il mio ex studente a Deva, Mihai Carciumaru, che indossa un cappotto estivo di pecora. L’ambiente naturale romeno è poco antropizzato e i paesetti come le case isolate meglio si circondano di quell’alone magico dove si pensano e si sviluppano i miti leggendari con stregoni. Il Codice Dracula ha bisogno di fissare un denominatore comune, come in matematica, degli aspetti storici importanti e certi per non finire travolto dai misteri della tradizione letteraria accumulatasi sul mito draculiano. Egli fu il figlio del Principe o Voivoda di Valacchia Vlad II Dracul, membro dell’Ordine del Drago, fondato per proteggere il cristianesimo nell’Europa orientale. I media sulla tomba di Dracula a Napoli non sono stati molto loquaci a parte qualche articolo di pochi, io ne ho scritti diversi sui media campani. Nel 2014, come raccontò in esclusiva «Il Mattino», un gruppo di ricercatori individuò nel sepolcro del nobile Mattia Ferrillo, all’interno del chiostro di Santa Maria la Nova, il possibile luogo di sepoltura segreto di Vlad Tepes III l’impalatore, Voivoda o Principe di Valacchia passato alla storia come Dracula. Il motivo potrebbe essere legato alla presenza della presunta figlia di Vlad nella corte aragonese e all’alleanza dell’ordine del Drago che vide coinvolto il reame napoletano, quello magiaro e per l’appunto quello di Valacchia in difesa contro i turchi ottomani. A supporto di questa tesi, all’interno della cappella Turbolo di Santa Maria la Nova fu trovata una misteriosa iscrizione dai caratteri incomprensibili: una sorta di messaggio in codice da decifrare, sul quale, come a più riprese ha scritto il nostro giornale, sono stati compiuti alcuni studi. In particolare su questa iscrizione negli ultimi mesi è stata effettuata un’indagine a cura dell’ingegnere nucleare Claudio Falcucci, uno dei massimi esperti europei di diagnostica d’arte. Nel corso dei secoli indicata da pareri autorevoli come una semplice traduzione dal greco, il testo dell’epigrafe, da quanto si è scoperto, è scritto, in realtà, in un linguaggio ancora sconosciuto. L’unico elemento decifrato è appunto il nome «Vlad», che ricorre più volte. L’esame è stato effettuato al termine di un delicato restauro. La ricerca dell’ing. Falcucci è giunta ad una conclusione precisa: la scritta non risale alla fine dell’800, come ipotizzato finora, ma probabilmente a trecento anni prima. Proprio il processo di restauro ha consentito di verificare come alcune lettere dell’iscrizione siano state ridipinte più volte nel corso dei secoli e sempre senza che venissero in alcun modo alterate. «L’idea iniziale era che questi interventi fossero stati realizzati a cavallo tra il XIX e XX secolo» ha spiegato Falcucci «Lo svolgimento di analisi basate sulla fluorescenza indotta da radiazioni ultraviolette, su riprese all’infrarosso e su prelievi di pigmenti ha invece rivelato che questi interventi sarebbero iniziati molto prima e che la datazione dell’iscrizione potrebbe risalire anche al XVI sec.». Gli esiti dell’indagine, dunque, confermano che l’iscrizione presente a S. Maria la Nova risale ad un periodo congruente con quello dell’ipotetico soggiorno napoletano del conte Vlad-Dracula, all’epoca in stretto contatto con la corte aragonese, e, soprattutto, con quello della sua morte. «Questa iscrizione criptata della Cappella Turbolo e la nota tomba della famiglia Ferrillo nell’attiguo Chiostro di San Giacomo della Marca, effigiata con un enorme dragone come per gli appartenenti all’Ordine del Dragone, un tempo potrebbero essere state collocate l’una accanto all’altra, poiché tutte le tombe del Chiostro precedentemente erano collocate in Chiesa» ha chiarito Giuseppe Reale, presidente dell’associazione Oltre il Chiostro onlus. «Le ricerche condotte le hanno messe al centro di una suggestiva ipotesi, che sta contribuendo a fare dell’intero Complesso Monumentale di Santa Maria la Nova, ancora di più, uno dei principali attrattori turistici e culturali del centro storico di Napoli». I risultati della ricerca diagnostica e, più in generale, l’affascinante ed ipotetica tesi della sepoltura di Vlad III a Santa Maria la Nova sono stati presentati nel corso del convegno «Ortodossia/Eterodossia: lo spazio slavo di fronte alle divisioni della cristianità dal Medioevo ad oggi» il 22 e 23 novembre 2018 presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”; in tale occasione ne ha parlato il professor Giuseppe Reale – ricercatore e docente della Unipegaso, nonché presidente dell’associazione Oltre il Chiostro onlus che gestisce il Complesso Monumentale di S. Maria la Nova – nel corso di una visita guidata per gli studiosi partecipanti alle giornate di studio. La tomba con l’orrido Drago desta ancora perplessità.

La strana iscrizione posta nella cappella, incisa in una lingua incomprensibile, è stata tradotta consultando una serie di codici e  ha fornito la chiave di lettura per presumere che nella chiesa è celata la tomba di un uomo sinistramente famoso. A seguito della lunga ricerca sulla traduzione del testo, lepigrafe ha rivelato essere non la sepoltura di un uomo comune o di un re come inizialmente poteva suggerire, ma quella sensazionale e leggendaria del conte Vlad III Dracul noto come Vlad Tepes l’Impalatore, il personaggio storico del XV secolo, passato alle cronache come il valoroso guerriero e sanguinario della Romania che tanto ispirò la fantasia letteraria di Bram Stoker nel suo celebre romanzo «Il conte Dracula» del 1897, il leggendario Vampiro Transilvania, anche se Vlad III era Voivoda di Valacchia.Tra il XV e il XVI secolo l’Impero ottomano vivrà un lungo periodo di conquiste ed espansione, e prospererà sotto una lunga dinastia di sultani. Vlad III o Dracula dunque fa derivare il suo appellativo Dracul dal simbolo di una confraternita che si fregiava del simbolo di un dragone prostrato, con la coda avvolta attorno al collo. Sulla schiena del mostro si trovava una croce, che alludeva al trionfo del Signore sul maligno. Dato che nel medioevo il drago era simbolo del demonio, ecco spiegata l’origine dell’appellativo Dracul. Ma le vicissitudini di Vlad III e del padre sono da inquadrare nella storia e nella politica del XV secolo nonché prima e dopo per capire la fuga nel Mezzogiorno d’Italia della figlia Maria, confusa come familiare protetta da una zia imparentata con nobili balcanici protetti dagli Aragonesi di Napoli. L’economia dello Stato fiorì anche grazie al controllo delle vie commerciali di terra tra l’Europa e l’Asia. Nel 1462 il 18 agosto ad Orsara di Puglia, Castriota Skënderbeu conclude la sua spedizione contro gli antagonisti di Ferdinando di Napoli ed è raggiunto dalla notizia che due armate turche, comandate da da Hussein-Bey e Sinan-Bey, si dirigono sull’Albania: tornato in patria, le sconfigge a Skopjë, imponendo a Mehmed II il trattato di pace della primavera del 1463. Il progetto di crociata, invece, è avversato dalla morte di Pio II. La circostanza è favorevole a Mehmed II che, vista sfumata la progettata crociata, in settembre scatena una dura offensiva ma anche questa impresa si risolve nella umiliante sconfitta ottomana al lago di Ocrida, reiterata da un nuovo tentativo di assedio di Krujë della primavera del 1466. Furioso, allora, Mehmed II punta su Sfetigrad ma è circondato ed annientato. Tuttavia, l’Albania è in ginocchio, mentre Castriota Skënderbeu, a Roma, viene accolto come un eroe da Paolo II, che gli concede i richiesti aiuti. Nel 1468 muore Castriota Skandrbeu ed i suoi partigiani riparano in Italia mentre gli ottomani conquistano gran parete dell’Albania. Fatto sta che non pochi aristocratici del Sud Europa compresi quelli italiani dunque mirano ad allearsi agli Ottomani per sottomettere i propri rivali al potere. Perso il potere l’albanese Skanterberg gli Ottomani sottomisero l’Albania fino al 1912, ma molti albanesi fuggirono in Italia. Il legame tra il Voivoda Vlad III e i nobili albanesi comincia a delinearsi dal XV sec. e permetterà poi a Maria (figlia “napoletana” di Dracula) di appoggiarsi a loro per fuggire sotto la protezione del Re di Napoli Ferrante d’Aragona, amicissimo dei nobili Skënderbeu. Ad una di questi nobili forse zia materna, Maria, figlia di Vlad III, si mise a servizio per nascondersi durante la fuga a Napoli, dove si maritò poi al conte Ferrillo. Nel 1476, l’otto novembre, Vlad III, occupa la capitale della Valacchia, Tàrgoviste, dove incontra Stephen V. Bàthory. Tre giorni dopo Bathory riferisce a funzionari di Sibiu che la maggior parte della Valacchia è nelle mani di Dracula e aggiunge che “tutti i boiardi a parte due sono con noi”. A novembre Bucarest è espugnata dall’esercito di S. Bathory e il 26 Dracula è ristabilito come Voivoda di Valacchia per la III volta. La morte di Dracula è ancora più avvolta di mistero della nascita e lo è ancora di più il postmortem e la sepoltura. Sulla nascita e sulla morte del Principe romeno si discute nelle accademie, nei salotti letterari e storici, ma una cosa è certa: è la sterminata letteratura del mito draculiano, che ha bisogno anche delle imprecisioni storiografiche per alimentarsi. Una novità certa è stata svelata da circa un lustro con il reperto dello stemma araldico del Dragone sulla tomba dei nobili Ferrillo dapprima ad Acerenza e poi a Napoli. Se Acerenza-Napoli è l’ambiente della morte di Dracula il suo mito deve essere maggiormente lievitato nella splendida città del Sole, delle sirene con il mito di Partenope. Molti già visitano la chiesa di Santa Maria la Nova, ma altri la visiteranno anche dopo i miei tanti articoli di Ecologia Umana sulla Romania, l’Italia e perché no anche facendo leva sul leggendario alone trasdisciplinare draculiano.

Napoli, capitale del Mezzogiorno d’Italia, è più che ricca di mitologia e di storia, ma dal presente poco edificante anche a causa dei politici campani invadenti la società civile, napoletana soprattutto. Napoli e l’intero Mezzogiorno d’Italia, più povero del settentrione, ma più ricco di miti e di storia della Magna Grecia avevano bisogno anche della leggenda del noto Vampiro tra i suoi morti ed ospiti illustri( Virgilio, Plauto, Leopardi, e così via). Prima di Napoli il Principe romeno, Vlad III, fu dalla figlia Maria nel feudo di Acerenza in Basilicata, comune che andrebbe meglio valorizzato anche per la tomba di questa ricerca. Il vampirismo non è solo romeno, ma è diffuso ovunque e prima ancora del XV sec. quando visse il Principe Vlad III in Romania. Egli nacque nel 1431 a Sighisoara, in Transilvania, e morì di a Napoli alla corte degli Aragonesi con sua figlia Maria, dopo una permanenza nel feudo dei nobili Ferrillo di Acerenza e poi seguì questi a Napoli nella città più popolata e colta dell’intera Europa, dopo Parigi. Dracula sarebbe morto a Napoli e il suo corpo riposerebbe in uno degli ambienti più suggestivi del Complesso Monumentale di Santa Maria la Nova, la cittadella francescana fatta innalzare, alla fine del XIII secolo, dai frati minori, su un appezzamento di terra donato loro da re Carlo I d’Angiò e definita “la Nova” per distinguerla da Santa Maria ad Palatium, il monastero che un tempo sorgeva nel luogo in cui fu poi innalzato il Maschio Angioino. “Il conte Dracula“, si troverebbe nel chiostro piccolo dell’antico convento che troneggia, imponente, a pochi passi da piazza Bovio e da piazza del Gesú, proprio ai bordi del Centro storico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Il Complesso è un monumento alla fede straordinario, reso ancora più prezioso dalla presenza, al suo interno, di alcuni capolavori firmati dai più celebri pittori della Napoli di fine XVI e inizio XVII secolo. Non a caso è a Santa Maria La Nova, sotto la guida degli esperti di “Oltre il Chiostro Onlus”, l’associazione presieduta dal professor G. Reale, che è possibile rivisitare la storia dell’ex Capitale del Regno delle Due Sicilie in un percorso dove la cultura diventa un piacevole incontro che va al di là degli steccati ideologici e religiosi, nel pieno rispetto delle reciproche differenze ed in un comune cammino di ricerca della verità. La chiesa, con la sua facciata austera di stampo rinascimentale, si presenta a croce latina ed è dotata di una sola navata pavimentata in riggiole” ed una serie di sfavillanti cappelle che si spalancano lungo entrambi i lati. Vi si accede attraverso una ripida scalinata in piperno protetta da una balaustra in marmo. Tra le innumerevoli “perle” di cui è dotato il sacro edificio, non può che lasciare a bocca aperta il soffitto a cassettoni in legno dorato, al cui interno fanno bella mostra di sé 46 tavole dipinte: si tratta di una vera e propria antologia dell’arte pittorica ispirata all’ultimo manierismo napoletano prima dell’irruzione di Caravaggio sulle scene artistiche europee. Nel posto magico della Napoli centrale bisogna tener conto dell’esistenza del Cristo Velato per capire anche le relazioni possibili con l’esoterismo successivo all’epoca del Principe Dracula. Al centro della navata della Cappella Sansevero, il “Cristo velato” è una delle opere più suggestive al mondo. Nelle intenzioni del committente, la statua doveva essere eseguita da Antonio Corradini, che per il principe aveva già scolpito la Pudicizia. Tuttavia, Corradini morì nel 1752 e fece in tempo a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo, oggi conservato al Museo di San Martino. Fu così che Raimondo di Sangro incaricò un giovane artista napoletano, Giuseppe Sanmartino, di realizzare “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”.

Sanmartino tenne poco conto del precedente bozzetto dello scultore veneto. Come nella Pudicizia, anche nel Cristo velato l’originale messaggio stilistico è nel velo, ma i palpiti e i sentimenti tardo-barocchi di Sanmartino imprimono al sudario un movimento e una significazione molto distanti dai canoni corradiniani. La moderna sensibilità dell’artista scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato. La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo. L’arte di Sanmartino si risolve qui in un’evocazione drammatica, che fa della sofferenza del Cristo il simbolo del destino e del riscatto dell’intera umanità. Il mito di Dracula è stato disseminato dappertutto nell’ambiente sociale planetario e soprattutto dalla cinematografia statunitense, più che da quella europea, ma, è bene saperlo, in Romania Dracula è solo un eroe nazionale cattolico che si oppose, valorosamente, all’espansionismo degli Ottomani. All’aeroporto internazionale di Timisoara vi sono, in vendita, diverse varietà di vini e liquori dedicati a Dracula a prezzi decisamente alti e per i ricchi turisti nordamericani ed europei dell’ovest. Segno che il mito di Dracula, non solo in America del nord e Romania, ma anche a Napoli fa già mercato nel villaggio economico globale e digitale. In Romania le imprese italiane restano le più presenti, perché se Albarosa vende qui 30 Ferrari ogni anno e molti camion dell’Iveco, significa che gli operai italiani avranno meno cassa integrazione da scontare. In Romania ci sono tutti: Enel si legge sulle bollette di Bucarest, Timisoara, Costanza. Molti distributori sono dell’Agip, l’Alitalia lavora accanto alle compagnie romene (la Romania è collegata all’Italia da 335 voli settimanali per 23 aeroporti). E poi Astaldi, Colussi, Ducati, Pizzarotti, Scotti, Snam, Stefanel, Zoppas, Pirelli. E le banche, da Unicredit a San Paolo. Fino alle imprese artigiane, come quella del produttore di gioielli Alessandro Amato, che in un Paese dove vige lo show-off, l’apparire con grandi macchine e beni di lusso, si trova piuttosto bene. Tutti congelati dal Grande Freddo. Era un contadino anche Nicolae Ceausescu, l’uomo cui la Romania fu affidata dopo la Seconda Guerra mondiale. Un ex agente della Securitate, i servizi segreti del regime, che oggi lavora nel turismo: «Non avrei mai creduto, allora, che avrei vissuto grazie a Dracula e alle sue presunte dimore». Anche se non si conosce il luogo dove vennero inumati, per la prima volta, i resti di Vlad Țepeș, Napoli li conserva gelosamente anche se pochi lo sanno (e lo dicono, quasi a vergognarsene). Ma si sa che i napoletani non amano le ricchezze terrene, Napoli ama il buon cuore, l’agire da signori e dà più valore spesso alla forma apparente, piuttosto che alla sostanza materiale. La consolidata tradizione mitologica, quasi bicentenaria, vuole che quando la testa di Vlad fu portata a Istanbul, il suo corpo venne sepolto senza cerimonie dal suo rivale Basarab Laiota, nel monastero di Comanane. Solamente a partire dal 1900 si è sparsa la voce che Vlad sia stato sepolto nel monastero di Snagov su un’isola, nel bel mezzo di un lago situato a 35 chilometri a nord di Bucarest. Studi archeologici sul sito, avvenuti nel 1933, hanno portato alla scoperta che la presunta tomba di Vlad è completamente vuota. In un’altra tomba scoperta nel monastero venne rinvenuto un corpo con indosso abiti sontuosi ed un anello con il simbolo del Dragone. Tale corpo, data la presenza della testa, non è certamente quello di Vlad III. Secondo alcuni studiosi è probabile che il corpo di Vlad, detto Țepeș perché impalava i nemici come appreso mentre era ostaggio del sultano ad Istanbul, sia stato bruciato, mentre secondo altri sarebbe stato smembrato dai turchi sul campo di battaglia oppure ad Istanbul. Nel 2014 sono state avviate delle ricerche che sostengono che il sacello di Vlad sia custodito nella chiesa di Santa Maria la Nova di Napoli, più precisamente nel chiostro piccolo del complesso conventuale risalente al secolo XVI. In essa è presente un monumento funebre adornato da un rilievo raffigurante il simbolo araldico di un Drago affiancato da dei baldacchini, che sembrano essere considerati elementi tipici della cultura medievale slava, che nel Banato si riflette anche in musica di uno stile frenetico tipico degli slavi.

Arrivato in Romania, 16.02.2004, come inviato dal Ministero A. Esteri, per insegnare “Scienze Naturali, Chimica e Geografia” nonché “Cultura e Civiltà Italiana” (in un Liceo straniero denominato “Transilvania”, visitato dal nostro Console Generale di Timisoara nel 2006) mi soffermai spesso ad osservare di notte il decadente castello della bella cittadina di Deva, capoluogo di Judet Hunedoara. A 19 km ad est di essa c’è il più grande castello gotico della Romania, in un paesaggio un pò oscuro di giorno per le colline adiacenti ricche di minerali ferrosi, il ruscello scuro sotto all’imponente ponte levatoio del castello, e, di sera, il fantastico delle guglie, illuminate che svettano nel cielo, stimola non poco la fantasia e fa intravvedere Dracula. Il Castello Corvino ha una massiccia struttura difensiva, un ponte levatoio e una corte interna, il tutto ingentilito da una notevole plasticità delle superfici (finestre, balconate, doccioni etc.). È stato costruito sopra una precedente fortificazione, che aveva sfruttato l’altopiano roccioso in aggetto sul fiume Zlaşti. La ristrutturazione volute da Giovanni Hunyadi fece del maniero una dimora sontuosa. Vennero aggiunte torri, saloni e camere per gli ospiti. La galleria e il mastio (chiamato “Ne boisa” Non avere paura), invariati dai tempi di Giovanni, e la Torre di Capestrano (dedicata al frate francescano amico del Voivoda Giovanni) sono oggi gli elementi di spicco del complesso. Notevoli anche la Sala dei Cavalieri, la Torre Clava, il Bastione Bianco (l’antica dispensa fortificata), e la Sala della Dieta dalle pareti adorne di ritratti (vi si incontrano i potentati Corvino, Basarabi di Valacchia, Vasile Lupu di Moldavia, ecc.). Nell’ala del castello, nota come “Mantello”, si trova il dipinto del corvo che celebra il soprannome Corvino che accompagnò i discendenti di Giovanni Hunyadi. Nella corte, accanto alla cappella costruita durante il principato di Vlad III di Valacchia, si trova un pozzo profondo 30 metri. La leggenda narra che venne scavato da dodici prigionieri turchi cui venne promessa la libertà se avessero trovato l’acqua nella pietra. Dopo quindici anni di scavi, gli sfortunati trovarono una fonte, ma non vennero ricompensati dai loro carcerieri, che invece posero accanto al pozzo una lapide con inciso Voi avete l’acqua ma non avete un’anima. Scritte similari le ho lette anche nella città fortezza vicino Brasov. Dapprima il castello di Hunedoara venne eretto nel XIV sec. Vlaicu, che vi costruirono la loro residenza fortificata. Presentava delle mura poligonali che seguivano il dorso collinare. Il castello, passato alla famiglia Hunyadi come dono dall’imperatore Sigismondo, venne massicciamente ristrutturato e ampliato. Giovanni Hunyadi intraprese la ricostruzione in due fasi, tra il 1446 e il 1453. La struttura è chiaramente gotica, ma presenta anche molti elementi architettonici rinascimentali dovute al successore, suo figlio Mattia Corvino, che volle trasformarlo in una residenza principesca rinascimentale. Altre modifiche furono apportate in epoca barocca da Gabriele Bethlen. Quest’ultimo fu anche Re d’Ungheria e di Transilvania con capitale, Deva, per beve periodo e fece costruire il bel palazzo della Magna Curia, che porta anche il suo nome. Da piccolo Mattia Corvino fu compagno di giochi del figlio del Principe Vlad e fatto prigioniero dei suoi ex amici a Hunedoara, dove il Vampiro, ancora oggi si manifesta da Corvo nero- simbolo araldico dei Corvino- e scende a mezzanotte dal camino della celletta di Giovanni da Capestrano. Oltre ad essere un abile soldato, un grande sovrano (era chiamato Mattia il Giusto), era considerato un grande mecenate, e con la seconda moglie, l’italiana Beatrice d’Aragona,figlia di Ferdinando I di Napoli, fondarono la Biblioteca Corviniana, all’epoca seconda solo a quella Vaticana.

Molte sono le leggende che si narrano intorno a questo luogo, prima tra tutte quella dello stemma dei Corvino, rappresentato da un corvo con un anello sul becco. Si dice che Iancu de Hunedoara fosse figlio illegittimo del re d’Ungheria, Sigismundo di Lussemburgo, e di una bella donna, il cui nome era Elisabetta. Per salvarle l’onore, il re le fece sposare uno dei suoi capitani d’esercito. Le diede un anello in regalo per il figlio che sarebbe nato, affinchè, da grande, fosse riconosciuto e accolto alla sua corte. Durante un viaggio, il figlioletto illegittimo di Iancu de Hunedoara dimenticò l’anello sul prato. Un corvo, attirato dal brillare dell’anello, lo prese nel becco e cercò di portarselo via. Allora il bambino prese un arco e una freccia e lo colpì, recuperando il gioiello. Quando crebbe e si presentò alla corte di Iancu de Hunedoara, raccontò la vicenda al re, il quale, impressionato, decise che il corvo con l’anello d’oro nel becco sarebbe diventato il simbolo della famiglia principesca. Tale leggenda mi fu raccontata nel 2004 dalla dirigente scolastico della scuola di servizio nonché collega di chimica. Un’altra leggenda, piuttosto triste, racconta che tre turchi, che erano incarcerati nella prigione del castello, scavarono per quasi 15 anni un pozzo di 30 metri nel cortile. Lo fecero in cambio della promessa del principe Iancu di liberarli. Una volta finito il lavoro, chiesero che la promessa fosse mantenuta, ma per loro sfortuna, nel frattempo il principe era morto, e sua moglie invece di liberarli li fece uccidere. E poi la storia di Ana Torok, moglie del nobile Joan, sempre in guerra, pare che al rientro al castello, accecato dalla gelosia la uccise conficcandole un chiodo nella testa. Questi aneddoti assumono qualche fattezza di verità se si scende nei seminterrati a visitare le prigioni e le stanze di tortura, arricchite dagli strumenti.

 

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