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Covid-19, Studio Associato Vizzino:”Le responsabilità legate alla diffusione del contagio ed al numero catastrofico dei deceduti”

Napoli, 8 Aprile – L’epidemia da coronavirus, non può distogliere l’attenzione dalle responsabilità legate alla diffusione del contagio ed al numero catastrofico dei deceduti. Una situazione di fatto che inevitabilmente svela i contorni “di un vero e proprio disastro epidemiologico, che ci impone di rintracciare e sottolineare profili di responsabilità civile, penale, amministrativa, erariale  a carico degli organi di governo, nazionale e regionale, rei di aver posto in essere gravissime condotte omissive”.

E’ quanto propone il documento dello Studio Associato Vizzino ”per dare giustizia alle vittime di questa strage di massa, sin da ora evidenziare e denunciare  le già evidenti falle e disfunzioni del sistema e stigmatizzare conclamate ipotesi di violazioni normative e di principi anche di rango costituzionale prevedendo, al contempo, quale forma riparatoria un adeguato risarcimento del danno subito alle vittime, che si rintracciano sia nel personale medico e sanitario che  nei pazienti”. 

 

Studio Legale – Associato Vizzino

IL TRIBUNALE DEL DOLORE 

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Violazioni, omissioni  e profili di responsabilità risarcitorie nell’emergenza sanitaria Covid 19

L’epidemia da coronavirus e lo stato di emergenza che ne è scaturito, scandito dall’emanazione di norme  e decreti (forse non sempre esempio di coerenza e tempesitvità e talvolta contraddittori tra Stato e Regioni) non possono distogliere l’attenzione da problematiche connesse ad eventuali profili di responsabilità legate alla diffusione del contagio ed al numero catastrofico dei deceduti, la qual cosa potrebbe essersi determinata anche mediante azioni omissive.

Le ipotizzate responsabilità potrebbero rintracciarsi a livello delle isituzioni politiche e sanitarie, certamente tenendo distinto, sotto tale ultimo profilo, l’operato del personale medico e paramedico, unanimemente riconosciuto oggi come eroico, impegnato in prima linea nella lotta all’emergenza Covid 19, il più delle volte senza il necessario supporto informativo e protettivo e per ciò stesso per primo vittima di  contagio da cui, in casi non infrequenti, non vi è stata guarigione.

Ed allora, sebbene ogni più opportuna valutazione ed imputazione delle colpe potrà essere più correttamente compiuta allorché si avranno dati precisi in ordine al diffondersi dell’epidemia ed alla efficacia delle misure di contenimento, si rende doveroso, anche per dare giustizia alle vittime di questa strage di massa, sin da ora evidenziare e denunciare  le già evidenti falle e disfunzioni del sistema e stigmatizzare conclamate ipotesi di violazioni normative e di principi anche di rango costituzionale prevedendo, al contempo, quale forma riparatoria un adeguato risarcimento del danno subito alle vittime, che si rintracciano sia nel personale medico e sanitario che  nei pazienti. 

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Tutela del personale medico e paramedico vittima del contagio da COVID 19. Responsabilità e risarcimento.

Sin da subito la FNOMCEO, all’evidenza dei gravi rischi corsi dal personale sanitario ed alle difficoltà di gestore una situazione emergenziale senza che fossero loro garantite le opportune tutele,  aveva ravvisato la necessità del riconoscimento della malattia professionale per gli operatori sanitari infettati dal virus (potendo il termine di malattia/infortunio indicare tutti quei casi in cui al concetto di causa violenta si sostituisce quello di causa virulenta)  sulla base di un criterio atto a riguardare non solo i dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, ma anche i cosiddetti medici convenzionati, quali Medici di Medicina Generale, Pediatri di Libera Scelta, Specialisti Ambulatoriali, Medici di Continuità Assistenziale, al lavoro nonostante le “criticità” non solo organizzative ma soprattutto legate alla carenza di sistemi di prevenzione e protezione, quali DPI e Dispositivi Medici. 

Importanti iniziative assistenziali sono state adottate anche dall’EMPAM a tutela dei propri iscritti.

L’INAIL, di poi, è intervenuto, con sua nota del 17 marzo 2020, sul tema dell’inquadramento e conseguente trattazione dei casi di malattia da Covid 19 nel personale sanitario, ovvero in tutto il personale medico e paramedico sia del SSN sia dipendente di strutture sanitarie pubbliche o private, chiarendo che che le predette affezioni morbose sono riconducibili all’infortunio sul lavoro e non alla malattia professionale e come tali devono essere istruite e trattate in sede amministrativa. 

Tale decisione si colloca sulla scia dell’orientamento giurisprudenziale consolidato in materia di affezioni morbose che derivino da un agente patogeno estrinseco di natura virulenta (nel caso di specie il Covid-19) e con le Linee Giuda per la trattazione dei casi di malattia infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail n. 74 del 23 novembre 1995.

Per queste ragioni la menzionata nota dell’Inail ha chiarito che la tutela assicurativa pubblica per il personale sanitario, che risulti aver contratto il virus, riguarda sia l’evento conseguente alla malattia da coronavirus sia il periodo di quarantena causato dalla malattia (non il periodo di quarantena per scopo sanitario che invece è escluso).

 Ne consegue che gli operatori sanitari (che abbiano contratto per lavoro la malattia da Covid-19) possono ricevere dall’Inail l’indennizzo del periodo di temporanea conseguente alla malattia (indennizzabile con l’indennità di inabiità temporanea) e dei postumi permanenti di danno biologico (indennizzati in capitale o con rendita in caso di postumi superiori al 16%). 

Infine, nel caso in cui la malattia abbia causato il decesso dell’infortunato, i suoi superstiti hanno diritto all’assegno funerario ed alla rendita ai superstiti (art. 85 TU).

La trattazione dei casi come infortunio, prescindendo così dall’esatta individuazione del momento in cui il virus è stato contratto e consentendo di adeguare la tutela al rischio professionale insisto nello svolgimento dell’attività sanitaria, permette una tutela celere e certa del diritto leso in quanto non grava il lavoratore di un oneroso onere probatorio in ordine alla contrazione della malattia in occasione lavorativa.

I contagi da nuovo coronavirus di medici, infermieri e altri operatori dipendenti del Servizio sanitario nazionale e di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata assicurata con l’Inail, avvenuti nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, quindi, sono tutelati a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro. L’Istituto ha precisato che la tutela assicurativa si estende anche ai casi in cui l’identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Se l’episodio che lo ha determinato non può essere provato dal lavoratore, infatti, si presume che il contagio sia una conseguenza delle mansioni svolte. 

Sono ammessi alla tutela dell’Istituto gli operatori che ovviamente risultino positivi al test specifico di conferma del contagio.

La Circolare Inail citata ha altresì chiarito che la trattazione del caso come infortunio sul lavoro non esclude anche la tutela concorrente della malattia professionale, allorché siano provati in causa gli elementi costitutivi della stessa.

La giurisprudenza prevalente ammette infatti tale doppio binario di tutela e quindi l’ammissibilità di domande alternative di riconoscimento

All’infortunato beneficiario della assicurazione l’Ente corrisponde l’indennizzo al posto del datore di lavoro.

E tuttavia, facendo applicazione dei principi generali nei casi affini, dobbiamo anche considerare che se l’indennizzo dell’Inail non copre l’intero risarcimento civilmente dovuto all’infortunato, il datore di lavoro risultato penalmente responsabile deve risarcire al proprio dipendente quella parte di danno non coperta dalla assicurazione (danno differenziale).

A tal riguardo, e per meglio contestualizzare le questioni problematiche qui analizzate, dobbiamo rammentare che la SC a più riprese (tra le ultime pronunce si veda Cass. Pen  n. 50000 del 6.11.2018) ha ritenuto che il datore di lavoro fosse inadempiente rispetto agli obblighi di predisposizione delle misure di sicurezza e di vigilanza sul funzionamento delle stesse affermandone la penale responsabilità.

Tale obbligo, come noto, trova la sua principale fonte nell’art. 2087 c.c. che “impone al datore di lavoro un obbligo generico di disposizione di tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi, anche se non esplicitamente richiamate da norme particolari che prevedono reati autonomi”.

La disposizione di cui all’art. 2087 c.c. pacificamente rappresenta una norma di chiusura che pone in capo al datore di lavoro un obbligo generico di disposizione di tutte le misure necessarie per prevenire eventuali rischi, anche se non esplicitamente richiamate da norme particolari che prevedano reati autonomi (ex plurimis Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015; Sez. 3, n. 6360 del 26/01/2005); ciò non significa che il datore di lavoro debba creare un ambiente lavorativo a “rischio zero”, disponendo misure atte a prevenire anche gli eventi rischiosi impensabili (circostanza che implicherebbe, incostituzionalmente, la condanna a titolo di responsabilità oggettiva), ma che debba predisporre tutte quelle misure che nel caso concreto e rispetto a quella specifica lavorazione risultino idonee a prevenire i rischi tecnici dell’attività posta in essere. 

Il datore di lavoro è dunque titolare di una posizione di garanzia e, pertanto, ha l’obbligo, non solo di disporre le misure antiinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, perché garante dell’incolumità fisica di questi ultimi (ex plurimis Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014; Sez. 4, n. 20595 del 12/04/2005), obbligo che non viene meno neppure con la nomina del responsabile di servizio di prevenzione e protezione, che ha una funzione diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro (ex plurimis Sez. 4, n. 50605 del 05/04/2013; Sez. 4 n. 27420 del 20/05/2008). In questa ottica, il comportamento del lavoratore può rilevare quale limite alla responsabilità del datore di lavoro solo quando risulti abnorme, eccezionale o comunque esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, sicché tra gli obblighi del datore di lavoro è ricompreso il dovere di prevenire l’eventuale comportamento negligente o imprudente del lavoratore. 

La S.C ha anche chiarito la  violazione della disposizione ex art. 2087 c.c., può ritenersi sussistente a fronte di specifici comportamenti datoriali idonei a determinare un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato alla natura dell’attività che il lavoratore è chiamato a svolgere

La responsabilità del datore di lavoro, come delineata, nasce dalla necessità di attuare i  seguenti principi riconosciuti dalla nostra Costituzione vedi: art. 32 (tutela della salute nei luoghi di lavoro), art. 35 (tutela del lavoro), art.38 ( tutela del lavoratore in caso di infortunio, malattia), art. 41 (l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da arrecare danno alla sicurezza alla libertà, alla dignità umana), nonché ribaditi dalle norme dell’ordinamento dello Stato Italiano.

In sede penale dobbiamo, inoltre, tenere presenti altre disposizioni che prevedono, parimenti, la responsabilità del datore di lavoro per particolari fattispecie criminose (si veda ad esempio l’art, 437 c.p.)  per non parlare di tutti i reati contravvenzionali per omissione di misure di sicurezza previsti dal D.Lgs. 626/94 e successivamente dal  D.lgs n. 81/2008.

Ciò senza dimenticare che  il datore risponderà della propria condotta omissiva, secondo il meccanismo di cui all’art. 40, comma 2, c.p., ai sensi del quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo“.

 Più precisamente, in siffatte ipotesi,  attraverso un giudizio di prognosi postuma, il giudice dovrà accertare che il datore di lavoro fosse in condizione di rappresentarsi l’evento dannoso e, ciò nonostante, vi abbia dato causa. per colpa specifica (violando leggi, regolamenti o discipline), per colpa generica (avendo agito con imprudenza, imperizia o negligenza), ovvero, per dolo (agendo con coscienza e volontà).

Altrettanti riconoscimenti del diritto alla salute e sicurezza del lavoratore con conseguenti obblighi per chi ne è datore di lavoro, sono chiaramente previsti dal diritto comunitario

Si aggiunga che la Costituzione Europea medesima ha ribadito il diritto a condizioni di lavoro sane e sicure (art. II -91) ed il diritto ad un livello elevato di protezione della salute umana (art. II-95).

Ebbene, sulla tali premesse normative appare non è difficile delienare un nesso di causalità  tra violazioni o negligenze attuate dalle aziende e strutture sanitarie ed amministrative e la diffusione del contagio da coronavirus tra il personale sanitario, specialmente in una prima fase dell’emergenza, che darebbe alle vittime titolo per conseguire il risarcimento del danno: infatti se per i malati il discorso appare meno agevole, per il caso di personale medico e paramedico è evidente che il contagio sia avvenuto nelle strutture ospedaliere o comunque in occasione dell’espletamento delle loro mansioni lavorative.

E’ noto all’opinione pubblica che il personale medico e gli operatori socio sanitari, in molte strutture, abbiano dovuto fronteggiare l’emergenza nella carenza di mascherine e in generale carenza di sistemi di prevenzione e protezione, quali DPI e Dispositivi Medici , la qual cosa sarebbe da imputarsi alle strutture sanitarie ed ai soggetti istituzionali deputati alla gestione della crisi santaria derivante da coronavirus.

Ciò che ora sta emergendo e che merita la massima attenzione in quanto oggetto di puntuali segnalazioni,  è, altresì, che in molte strutture i profili di responsabilità contestabili andrebbero oltre l’insufficenza dei dispositivi di protezione, cosa di per sé estremamente grave, ma riguarderebbero  la omessa informazione e la violazione di basilari tutele dei lavoratori anche in casi di infettati all’interno della struttura, ma non debitamente riferiti.

A tal riguardo, ciò che, a parere di chi scrive, merita rilievo è che, negli ospedali non preposti speficamente alla cura delle malattie infettive,  non è stata fatta una corretta informazione e formazione circa le modalità di trasmissione del virus e circa gli accorgimenti da adottare nell’accettazione e cura del paziente, nei casi sospetti come in quelli conclamati, anche relativamente all’utlizzo dei sistemi protettivi e, ad esempio,  alle modalità con le quali attuare la svestizione dopo il contatto con il degente.

Si segnalano, inoltre, casi in cui in cui le strutture hanno nascosto la presenza di una fonte di contagio e costretto i dipendenti a non indossare mascherine protettive per non allarmare altri ospiti degenti.

In altre circostanze, la insufficienza della mascherine fornite in dotazione al personale, non ha consentito il ricambio delle stesse cessato l’effetto protettivo. 

In ipotesi ancora più allarmanti, specie per quanto riguarda gli OSS, non sono state proprio fornite mascherine.

Ancora, sono stati documentati altri casi in cui pur all’evidenza di un contatto con soggetto infetto, ai dipendenti è stato negato l’accesso al tampone ed è stato imposto l’obbligo di continuare ad espletare la propria attività lavorativa, a pena di licenziamento, fino all’effettivo manifestarsi dei sintomi del virus.

In tutti questi casi oltre alla violazione delle norme prime contestate, di rilevanza penale,  come è evidente si palesa ancor più una lesione di quanto diposto dlgs 81/2008 Testo unico in materia di sicurezza sul lavoro che al titolo X (artt. 266-286) disciplina la esposizione ad agenti biologici. 

Valutazione del rischio da contagio 

Si rammenti a tal riguardo che, per quel che qui più interessa, il citato dlgs 81/2008 dispone: 

Art 17-  Obblighi del datore di lavoro non delegabili 1. Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 2823; b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi; 

Arti. 28 – Oggetto della valutazione dei rischi

 La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1, lettera a) … deve riguardare tutti …i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari …

art. 271 – Valutazione del rischio [biologico]

  1. Il datore di lavoro, nella valutazione del rischiodi cui all’articolo 17, comma 1, tiene conto di tutte le informazioni disponibili relative alle caratteristiche dell’agente biologico e delle modalità lavorative, ed in particolare:
    a) della classificazione degli agenti biologici che presentano o possono presentare un pericolo per la salute umana quale risultante dall’ALLEGATO XLVI o, in assenza, di quella effettuata dal datore di lavoro stesso sulla base delle conoscenze disponibili e seguendo i criteri di cui all’articolo 268, commi 1 e 2;

    b) dell’informazione sulle malattie che possono essere contratte;
    c) dei potenziali effetti allergici e tossici;
    d) della conoscenza di una patologia della quale è affetto un lavoratore, che è da porre in correlazione diretta all’attività lavorativa svolta;
    e) delle eventuali ulteriori situazioni rese note dall’autorità sanitaria competente che possono influire sul rischio;
    f) del sinergismo dei diversi gruppi di agenti biologici utilizzati.
  2. Il datore di lavoro … adotta, in relazione ai rischi accertati, le misure protettive e preventive di cui al presente Titolo, adattandole alle particolarità delle situazioni lavorative…
  3. Nelle attività, quali quelle riportate a titolo esemplificativo nell’ALLEGATO XLIVche, pur non comportando la deliberata intenzione di operare con agenti biologici, possono implicare il rischio di esposizioni dei lavoratori agli stessi, il datore di lavoropuò prescindere dall’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 273, 274, commi 1 e 2, 275, comma 3, e 279, qualora i risultati della valutazione dimostrano che l’attuazione di tali misure non è necessaria
  4. Il documento di cui all’articolo 17 è integrato dai seguenti dati:
  5. a) le fasi del procedimento lavorativo che comportano il rischio di esposizione ad agenti biologici;
  6. b) il numero dei lavoratori addetti alle fasi di cui alla lettera a);
  7. c) le generalità del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi;
  8. d) i metodi e le procedure lavorative adottate, nonché le misure preventive e protettive applicate;
  9. e) il programma di emergenza per la protezione dei lavoratori contro i rischi di esposizione ad un agente biologico del gruppo 3 o del gruppo 4, nel caso di un difetto nel contenimento fisico.
  10. Il rappresentante per la sicurezza è consultato prima dell’effettuazione della valutazione di cui al comma 1 ed ha accesso anche ai dati di cui al comma 5.

Articolo 272 – Misure tecniche, organizzative, procedurali

  1. In tutte le attività per le quali la valutazione di cui all’articolo 271 evidenzia rischi per la salute dei lavoratori il datore di lavoro attua misure tecniche, organizzative e procedurali, per evitare ogni esposizione degli stessi ad agenti biologici.
  2. In particolare, il datore di lavoro: …
    b) limita al minimo i lavoratori esposti, o potenzialmente esposti, al rischio di agenti biologici;
    c) progetta adeguatamente i processi lavorativi, anche attraverso l’uso di dispositivi di sicurezza atti a proteggere dall’esposizione accidentale ad agenti biologici;
    d) adotta misure collettive di protezione ovvero misure di protezione individuali qualora non sia possibile evitare altrimenti l’esposizione; …
    h) definisce procedure di emergenza per affrontare incidenti ..
    .

Non esiste solo il rischio biologico deliberato, ma anche quello occasionale e potenziale.

 Ai sensi dell’art. 266

  1. Le norme del presente Titolo si applicano a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici.

Il rischio biologico va inquadrato ai sensi dell’articolo 271: il datore di lavoro è tenuto a valutare i rischi per la salute derivanti dall’esposizione agli agenti biologici presenti nell’ambiente di lavoro.

Il rischio biologico può essere sia deliberato (ovvero gli agenti biologici sono introdotti o presenti in maniera deliberata nell’ambito del ciclo produttivo) sia potenziale od occasionale. Sulla base degli esiti della valutazione è poi tenuto a porre in atto le misure necessarie a ridurre o eliminare, se possibile, l’esposizione agli agenti potenzialmente patogeni.

Per la valutazione del rischio l’articolo 28 comma 2) lettera a) D.Lgs. n. 81/2008 dispone che “la scelta dei criteri di redazione del documento è rimessa al datore di lavoro, che vi provvede con criteri di semplicità, brevità e comprensibilità, in modo da garantirne la completezza e l’idoneità quale strumento operativo di pianificazione degli interventi aziendali e di prevenzione”.

In caso di epidemia dichiarata dalle autorità sanitarie internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità OMS) e del paese (Ministero della Salute, Regione competente) il datore di lavoro è obbligato ad aggiornare il documento di valutazione dei rischi, individuare misure di prevenzione e protezione, istruire, informare e formare il lavoratore, il tutto in stretta collaborazione con il medico competente.

 Il lavoro che implica contatto continuativo col pubblico, o con colleghi, tra i quali è probabile la presenza di soggetti contagiosi, espone il lavoratore nell’ambiente lavorativo ad un rischio biologico che attiene la posizione di garanzia del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. e D. Lgs. n. 81/2008, articoli 271 e 272 in particolare.

 Il rischio da Coronavirus (Covid-19), o da epidemia influenzale, è rischio professionale: concettualmente il contagio se ragionevolmente prevedibile, deve essere oggetto di valutazione dei rischi,  nonchè di conseguente individuazione di istruzioni finalizzate alla prevenzione e protezione, e di DPI necessari ed adeguati.

Il Titolo X del D.Lgs 81/2008, più nello specifico, relativo all’esposizione ad agenti biologici sul luogo di lavoro, sancisce una serie di obblighi inderogabili quali la valutazione del rischio, la messa in atto di misure tecniche, organizzative, procedurali e igieniche, l’informazione, la formazione e l’addestramento dei lavoratori nonché la sorveglianza sanitaria; per gli agenti biologici classificati nei gruppi 3 e 4 anche l’istituzione del registro degli esposti e degli eventi accidentali e quello dei casi di malattia e decesso.

È possibile distinguere quattro livelli di rischio per gli operatori:

  1. Occupazioni a rischio di esposizione molto alto [operatori sanitari (OS) che eseguono manovre che generano aerosol su pazienti noti o sospetti per aver contratto il virus, OS o laboratoristi che raccolgono o manipolano campioni provenienti da soggetti noti o sospetti per aver contratto il virus].
  2. Occupazioni a rischio di esposizione alto [OS adibiti a mansioni assistenziali nei confronti di pazienti noti o sospetti per aver contratto il virus; OS adibiti al trasporto di pazienti noti o sospetti per aver contratto il virus pandemico all’interno di ambulanze, OS che eseguono autopsie di pazienti noti o sospetti per aver contratto il virus pandemico; addetti alle camere mortuarie].
  3. Occupazioni a rischio di esposizione medio [lavoratori del pubblico impiego addetti agli sportelli, lavoratori nel settore del trasporto aereo e navale, personale scolastico, lavoratori del settore alberghiero, forze dell’ordine, lavoratori del commercio, in particolare addetti alle casse ecc.].
  4. Occupazioni a rischio di esposizione basso [impiegati di uffici senza accesso al pubblico].

 Le norme universali di protezione e prevenzione del rischio biologico hanno un valore generale e devono essere applicate ogni qualvolta si manifesti un rischio biologico potenziale, ipotetico/ occasionale:

  • rischio potenziale in ambito professionale: condizione nella quale le attività lavorative svolte possono comportare una possibile esposizione ad una condizione di potenziale pericolo;
  • rischio ipotetico/occasionale in ambito professionale: condizione nella quale le attività lavorative svolte in presenza occasionale di microrganismi pericolosi o potenzialmente tali, possono ipoteticamente dar luogo ad un’esposizione capace di causare l’insorgenza di un danno alla salute del soggetto esposto.

 Parte della valutazione deve essere sviluppata applicando gli articoli 271 e 272 e seguenti del D. Lgs. n. 81/2008, un’altra parte può essere svolta secondo gli esperti come una “composizione di valutazione dei rischi suddivisa per SCENARI STANDARD, di agile lettura e di rapida applicazione al mutare degli eventi.

Indipendentemente dallo scenario di prima applicazione, alla data di redazione del presente DVR, è compito del datore di lavoro, definire lo scenario di appartenenza dell’azienda al variare delle condizioni”.

Con riferimento alle “Raccomandazioni generali ad interim per la riduzione del rischio espositivo in corso di pandemia influenzale nei luoghi di lavoro” del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, il sito indica che in ambito sanitario – laddove il documento di valutazione dei rischi (DVR) evidenzia la presenza di un rischio da agenti biologici – il datore di lavoro:

  • verifica che le misure di prevenzione contenute nel DVR, compreso l’uso dei DPI, siano conformi a quanto previsto dalle indicazioni scientifiche e circolari ministeriali specifiche relative al virus [oggetto di prevenzione e protezione];
  • adegua all’attuale evento pandemico le azioni di prevenzione da mettere in atto, soprattutto per quanto riguarda l’informazione, la formazione, le procedure e l’organizzazione del lavoro, l’utilizzo dei DPI”.

Gli interventi a seguito della valutazione del rischio saranno finalizzati a due obiettivi:

  1. ridurre la trasmissione del virus;
  2. ridurre il rischio che un lavoratore suscettibile si infetti.

 L’ISPESL ha individuato tre tipi di misure da adottare:

    1. Strutturali: riguardano l’ambiente nel quale viene svolta l’attività lavorativa (es. barriere fisiche di protezione, presidi per il lavaggio delle mani);
    2. Organizzative: riguardano le procedure da adottare sul luogo di lavoro per informare e proteggere il lavoratore (es. istruzioni per il lavaggio delle mani, per la corretta igiene respiratoria);
    3. Comportamentali: riguardano gli atteggiamenti da intraprendere da parte del singolo lavoratore (es. utilizzo dei dispositivi di protezione individuale)

E’ importante precisare che la giurisprudenza  ha, in numerose occasioni, chiarito come non è solo l’assenza ma la incompletezza del DVR a concretizzare l’ipotesi di reato, giacché, ritenendo diversamente, tale redazione assumerebbe un significato solo formale. 

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Assistenza  diagnosi e gestione  dei pazienti infettati da Coronavirus. Ipotesi di responsabilità da contagio nosocomiale 

Possibili profili di responsabilità risarcitoria delle strutture ospedaliere–  e non già del personale medico impegnato in prima linea nella lotta al virus, sovente con scarsità di risorse, ma con sforzo encomiabile ed eroico-  vanno valutati nella gestione dell’emergenza sanitaria per i danni cagionati dal contagio al paziente rammentandosi che per eventuali danni procurati da omissioni dei sanitari, dovrà ascriversi alla struttura nosocomiale l’ omissione dell’attività di isolamento.

 Infatti, in questo caso, ciò che assume rilievo  è, in primis, la mancata attivazione da parti delle strutture delle dovute procedure preventive di isolamento del paziente.
Atteso il titolo contrattuale della responsabilità da contagio della struttura sanitaria
, questa sarà liberata dall’obbligo risarcitorio solo qualora dimostri l’inevitabilità della diffusione del contagio, invocando il rispetto da parte del proprio personale delle linee guida, nonché delle buone prassi in fatti di ricoveri di pazienti mostranti sintomi di malattie contagiose.

In casi simili, la giurisprudenza si è sempre riferita, ai fini della prova del nesso causale, a presunzioni che si pongono al confine di una responsabilità oggettiva e senza colpa, anche se, dopo l’emanazione della legge Gelli, si è registrato un certo abbandono di tale modello “oggettivo”, consentendo ai fini liberatori, la dimostrazione di aver adottato tutte le misure organizzative utili e necessarie per prevenire e contenere il fenomeno infettivo attraverso i protocolli diretti all’applicazione e al monitoraggio delle pratiche a ciò finalizzate.

In particolare, a più riprese, la giurisprudenza ha rilevato  che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni subiti dal paziente ha natura contrattuale, in quanto l’accettazione in ospedale ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale comporta la conclusione di un contratto, soggetto alle regole ordinarie sull’inadempimento sancite dall’art. 1218 c.c..

 In virtù di tale contratto la struttura è tenuta a fornire al paziente una prestazione complessa definita genericamente di assistenza sanitaria, che include, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi di protezione ed accessori.

Conseguentemente, nei giudizi di risarcimento del danno causato da attività medica, l’attore ha l’onere di allegare e di provare l’esistenza del rapporto di cura, il danno ed il nesso causale, mentre ha l’onere di allegare (ma non di provare) la colpa del medico; è a carico della struttura sanitaria, invece, dimostrare  che l’eventuale insuccesso dell’intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a sé non imputabile.

Nel caso che oggi ci occupa la struttura ospedaliera dovrebbe dimostrare l‘osservanza dei protocolli universalmente riconosciuti come efficaci per la prevenzione delle infezioni in ambiente ospedaliero,  dalla quale soltanto può discendere la non riconducibilità della complicanza infettiva a condotte positivamente riferibili alla struttura sanitaria.

In particolare, la Struttura Sanitaria avrebbe l’onere di documentare di aver posto in essere e rispettato le più idonee ed efficaci misure, attinenti specificamente (a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo):

  • all’attuazione (e non alla mera adozione) di protocolli relativi a disinfezione, disinfestazione, sterilizzazione di ambienti e materiali;
  • alle modalità di lavaggio delle mani da parte del personale;
  • all’uso dei dispositivi di protezione individuale;
  • alle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
  • al sistema di smaltimento dei rifiuti solidi;
  • alla qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;
  • alla modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
  • all’organizzazione del servizio mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
  • allo smaltimento dei liquami e alla pulizia di padelle e simili;
  • all’istituzione di un sistema di sorveglianza e notifica;
  • all’istituzione del Comitato Infezioni Ospedaliere ed alla relativa attività;
  • ai criteri costruttivi strutturali atti a evitare le infezioni;
  • al controllo e alla limitazione dell’accesso dei visitatori;
  • al controllo dello stato di salute dei dipendenti e degli operatori (basti pensare che costituisce fattore favorente le infezioni anche il fatto che infermieri e medici possano operare in precarie condizioni di salute, eventualmente al fine di evitare decurtazioni stipendiali);
  • all’adeguatezza del rapporto tra degenti e personale sanitario;
  • alla pianificazione ed attuazione di continui controlli sulle attività di cui sopra.

Nello specifico riferimento alle ipotesi di una patologia infettiva in ambiente ospedaliero, in ragione del criterio di riparto dell’onere probatorio così come sopra tracciato, una volta accertato il nesso causale tra il lamentato pregiudizio e l’infezione de qua, si impone l’onere di dimostrare di avere diligentemente adempiuto la “prestazione” offerta al paziente, anche sotto il profilo dell’adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e delle leges artis onde scongiurare l’insorgenza di patologie infettive a carattere batterico; nonché della prestazione, ad opera del proprio personale medico, del necessario e doveroso trattamento terapeutico successivo all’eventuale contrazione dell’infezione da parte del paziente. 

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Contagio del personale medico e del paziente di matrice extranosocomiale. Inefficacia delle misure di contenimento e di monitoraggio. Profili di responsabilità delle istituzione deputate alla gestione dell’emergenza epidemiologica. 

Ciò detto, nell’esame della fattispecie nella sua complessità e complessività, non bisogna dimenticare che, nel caso del Covid 19, l’infezione è anche o forse prevalentemente di matrice non ospedaliera.

 Vengono, allora all’evidenza, tutte quelle drammatiche vicende che hanno visto  da una parte i malati – sintomatici e asintomatici- vedersi negato l’accesso ad un adeguato monitoraggio ed una adeguata assistenza, nonché il diritto ad eseguire un tampone (per i limiti di risorse o per via degli attuali rigidi criteri applicati da alcune regioni);  dall’altra i medici di medicina generale, cioè i medici di famiglia, in molti casi abbandonati a loro stessi  nel delicato compito di gestire i propri pazienti nel mezzo di una devastante epidemia, privi degli strumenti necessari per affrontarla sia dal punto di vista delle linee guida e dei protocolli da seguire, sia per quanto riguarda i dispositivi di protezione individuale.

La cronaca e le numerose vittime proprio tra i medici di medicina generale e tra i pazienti presso le loro case denunciano e testimoniano le difficoltà e le conseguenze definitive ed irreversibili di dover visitare a domicilio pazienti risultati positivi al coronavirus senza le adeguate protezioni ed informazioni, continuando i medici nei giorni seguenti a svolgere le attività di ambulatorio non rinviabili.

In tale senso, uno dei primi problemi segnalati dai medici di famiglia è stata proprio l’insufficienza dei materiali di protezione ricevuti. Alla maggior parte di loro,  sono state fornite soltanto una decina di mascherine chirurgiche (quindi senza i filtri FFP2 e FFP3 raccomandati dall’OMS), un sovracamice, qualche guanto e qualche cuffia. Materiale che in teoria, applicando letteralmente i protocolli, durerebbe un giorno o due, ma che i medici di famiglia sono costretti ad usare per più giorni integrandolo con quanto, autonomamente e con grandi difficoltà, reperito farmacie o nelle ferramenta, a prezzi fuori mercato.

Secondo il Ministero della Salute la carenza nazionale di mascherine e altri materiali sanitari di protezione avrebbe imposto di dare la priorità ai sanitari che lavorano in ospedale, sull’assunto che, anche per via delle restrizioni agli spostamenti che impongono il posticipo delle visite non urgenti, il medico di famiglia rischia meno.

Ma tale valutazione del rischio è evidentemente errata e pregiudizievole soprattutto perché gli stessi medici continuano a visitare i pazienti che hanno altri problemi urgenti, oltre a convivere con i propri familiari, nei casi in cui non si siano messi in autoisolamento, senza poter avere accesso al tampone se non si manifestino i  sintomi della malattia fino a che devono continuare a lavorare.

Non deve sfuggire, poi, la grave e pregiudizievole incoerenza per cui i medici che svolgono il servizio pubblico per il servizio sanitario nazionale  in regime di convenzione non vengono tutelati dallo Stato se posti in quarantena e cioè perdono la retribuzione. La questione è stata affrontata dall’ENPAM che ha chiesto al governo di mantenere la retribuzione anche ai medici ed agli odontoiatri posti un quarantena, come già previsto, invece, per i dipendenti pubblici.

 Ulteriore complicanza all’espletamento dell’attività lavorativa ed alla prevenzone dal contagio è data poi dalla definizione di “casi sospetti”, che quindi necessitano di essere testati per l’eventuale positività al coronavirus. Attualmente, la circolare ministeriale include in questa categoria i casi sintomatici che hanno avuto contatti certi con persone risultate positive; i casi con sintomi gravi che richiedono ricovero ospedaliero; e infine «una persona con infezione respiratoria acuta», definita come «insorgenza improvvisa di almeno uno tra i seguenti segni e sintomi: febbre, tosse e difficoltà respiratoria.

In realtà, le interpretazioni di questa categoria di “caso sospetto” possono essere comunque molte, ma dato che in molte regioni  i posti letto in molti ospedali scarseggiano, a essere ricoverati – e quindi a essere sottoposti a tampone – sono soltanto i casi con gravi insufficienze respiratorie.

Secondo il  Ministero della Salute, in ogni caso, la valutazione sui pazienti che richiedono il tampone spetta ai Dipartimenti di Igiene Pubblica e a quelli di Cure Primarie delle Aziende Sanitarie Locali  che esaminano i singoli casi tenendo conto di vari fattori, tra cui i contatti con persone risultate positive e le eventuali patologie pregresse che li rendono particolarmente a rischio.

Ebbene tale scenario, non meno preoccupante di quello descritto con riferimento alle strutture nosocomiali, consente di rintracciare responsabilità istituzionali, governative e regionali,  connesse alla inadeguatezza misure di contenimento e di monitoraggio dei positivi ed alla ricerca (tardiva) degli asintomatici. Ciò con un sistema di sorveglianza medica attiva fortemente limitato e pregiudicato, con scarsa attenzione e tutela per i medici di base come denunciato anche dall’ENPAM.

Oltre all’assenza di misure preventive è suscettibile di responsabilità anche risarcitoria il mancato ascolto, esame e riscontro delle legittime richieste pervenute dal personale medico, infermieristico, dagli operatori socio sanitari,  dai rappresentanti di categoria e dalle associazioni, tese a mettere in campo fondamentali accorgimenti ed in particolare:

  • dare chiarezza e fattiva esecuzione alle linee guida ed ai protocolli;
  • fornire kit completi ed in numero adeguato di dispositivi di protezione di qualità idonea a contenere sia il rischio di contrarre il virus che di esporre la popolazione ad involontario contagio; 
  • provvedere, nello stesso tempo, a sottoporre tutti i medici, infermieri e personale di studio e, nel caso di positività, famigliari e conviventi ad adeguato test di valutazione dell’avvenuto contagio

Considerazioni conclusive  

Gli scenari sopra descritti e l’innumerevole numero delle vittime tra i pazienti ed il  personale sanitario delineano i contorni di un vero e proprio disastro epidemiologico, che ci impone di rintracciare e sottolineare profili di responsabilità civile, penale, amministrativa, erariale  a carico degli organi di governo, nazionale e regionale, rei di aver posto in essere gravssime condotte omissive.

Non potevano permetterselo, ma le nostre Istituzioni invece di tutelarci hanno sottovalutato l’emergenza, poi dichiarata e pubblicata in gazzetta uffiiciale il 31 gennaio 2020 e così hanno omesso di agire tempestivamente con le misure di contenimento e prevenzione consentendo la enorme diffusione del virus e l’elevato numero di contagiati e di deceduti. 

Il ritardo con il quale è giunta la risposta prima in ambito politico e poi sanitario ha determinato una rincorsa affannosa al virus senza che si assumessero, da subito, in sede politica e amministrativa, iniziative drastiche che invece si sono disordinatamente e confusamente sovrapposte dopo che la pandemia si era già propagata ed i focolai del contagio non potevano più delimitarsi.

 Gli errori dei vertici hanno subito inciso sulle  strutture medico ospedaliere, su cui si sono riversati,  facendo sì che i sanitari ed il personale paramedico, senza che esistessero linee guida aggiornate da seguire e senza che fossero disposti a favore degli stessi quanto meno i principali dispositivi di protezione, si trovassero costretti  a gestire decine di pazienti in situazione di assoluta (forse evitabile) emergenza, con turni massacranti e con carenza di posti ed attrezzature, partendo per primi e sulle loro persone gli effetti del virus.

Se a livello a livello di psicologia sociale  potrebbe dirsi che l’intempestività della reazione e gli  errori commessi dalla classe dirigente siano da attribuirsi ad un bias cognitivo e cioè ad una errata percezione della realtà, nonostante i dati non incoraggianti potessero già essere evidenti, che ha portato a seguire scorciatoie mentali  e forme di semplificazione per ridurre l’impatto di un evento, invece molto serio, a livello politico e giuridico deve censurarsi una condotta specificamente responsabile in danno della pubblica incolumità. 

Per tale via, potrebbe essere contestabile, senza tacere le violazioni innanzi riferite, anche il reato di epidemia  quanto meno colposa, come denunciato già da molti esponenti del mondo giuridico.

Per scongiurare ciò, tuttavia, sembrerebbero essere stati già ipotizzati emendamenti al cosiddetto decreto Cura Italia per ridefinire, per il periodo di emergenza da Covid 19, il perimetro della responsabilità per medici e operatori del settore, con richieste che spaziano dall’esonero totale – per ottenere la cancellazione di responsabilità penale, civile, amministrativa ed erariale – alla proposta di perseguire penalmente le sole “colpe gravi”. Oltre alla richiesta di limitazione della punibilità per “le strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private e gli esercenti le professioni sanitarie – professionali – tecniche amministrative del Servizio sanitario” alle sole violazioni “macroscopiche” di “colpa grave”, si domanderebbe che tali limitazioni non riguardino solo le “condotte professionali”, ma anche “le condotte gestionali o amministrative” purché non “sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che le ha poste in essere o che vi ha dato esecuzione”.

Se la tutela della professione medica vittima per prima dell’emergenza raccoglie consensi unanimi, ciò che invece non è accettabile e desta preoccupazione è l’estensione dell’esenzione da responsabilità a organi diversi, alle strutture sanitarie, a dirigenti pubblici fiduciariamente nominati dalla politica.

In tal modo, infatti si assisterebbe ad una inaudita compressione di principi costituzionalmente garantiti paralizzandosi, con attività contraria ad uno stato democratico, la possibilità valutare l’operato dei rappresentanti anche al fine di farne valere le responsabilità delle sedi deputate.

Ogni diritto e legittima aspettativa di vederlo riconosciuto verrebbero paralizzati, benché, sembra superfluo ribadirlo, siano palesi le violazioni commesse in danno della collettività. Anche la categoria professionale dei medici e del personale sanitario, già provato, potrebbe venir pregiudicata dall’impossibilità di far valere responsabilità anche datoriali. 

Avv. Emma Vizzino                                                                                

Avv. Riccardo Vizzino

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