Cultura

Annotazioni ambientali di Letino e del suo toponimo territoriale “Canale di Pace”

Napoli, 24 Maggio – Nell’alta valle del mitico fiume Lete, tra Campania e Molise, c’è un paesetto che deriva il nome dal fiume e viceversa, Letino. Il territorio di Letino però si estende anche nell’altissima valle del Sava, che alimenta l’attuale lago di Gallo Matese. Lungo un canale che affluiva nella Sava (nel vernacolo è rimasto al femminile il fiume Sava come altrove, ad esempio a Padova si dice ancora la Brenta, fuori delle aule universitarie dei saperi geografici) c’era la masseria di mio nonno paterno omonimo. Don Antonio Gallinaro, parroco a Letino dal 1936 al 1944, ha lasciato una sua poesia, che è un magnifico dono che riporto per ricordarla ai “miei pastori”: “LETINO “Bellissimo è Letin paese / il più alto del Matese fabbricato è sulla roccia / dove la nebbia non approccia. Chi lo vede di prospetto / dice: “ma chi fu l’architetto?” Con impegno e gran sudore / l’architetto fu un pastore. Il monte è quasi conico / ma fu l’architettonico. Con ingegno e gran fatica / l’adatto’ a casa antica. Ai suoi piedi c’è il bel Lete / pien di trote chete chete Che prender si fanno / senza tempo e senza affanno. I suoi boschi son tutti faggio / e son pieni di selvaggio Lepri, storni e pernici / fanno i cacciatori felici. D’inverno è quasi freddo, / ma d’estate è tutto verde e la sua bella vista / piace molto al turista. E’ qui che fa posa / per almeno due tre mesi, poi a casa sua ritorna / ed al suo lavoro si aggiorna. Armentizia e agricoltura / sono buoni per natura, tutto vogliono comprare / perché piace lor mangiare. Una donna di nome Letizia, / adesso sto a darvi la notizia Qui un giorno si fermò / e Letino il paese chiamò”. Il mitico fiume Lete è stato oggetto-soggetto di studi e di attenzione da parte di poeti e letterati non soltanto greci e latini, ma anche di altre culture; si può citare, ad esempio, il filosofo Martin Heidegger, che agli inizi del Novecento esaminò a fondo il concetto di alétheia in quanto “verità” (la parola alétheia deriva dalla stessa radice greca da cui deriva il nome Lete). E’ un fatto, comunque, che la descrizione virgiliana prima e dantesca poi coincidono con il paesaggio plasmato dal fiume Lete. Sul mito del Lete a Letino, dunque, c’è da soffermarsi, contemplando il suggestivo paesaggio con l’alone misterioso che lambisce ovunque il fiume, soprattutto nei punti in cui crescono piante e soffiano brezze di monte e di valle. In assenza di origini certe dei letinesi la più verosimile è: il paesetto sarebbe stato fondato da pastori che portavano le greggi al pascolo estivo sul Matese e che vi sarebbero rimasti anche nei periodi invernali. In un primo tempo si stabilirono alle Secine, attorno alla chiesa di Santa Maria dell’Arco, poi a San Pietro, da dove si trasferirono verso l’attuale Letino sotto al castello longobardo-normanno e angioino. Formarono il borgo del vassallo? Oppure erano possidenti di cittadine come Alife che si rifugiavano a Letino sui monti per stare più sicuri anche dalle incursioni saracene?

Il muro sud della chiesa madre letinese del VII secolo d.C. lo testimonierebbe? Anche l’ipotesi dell’origine dalla Grecia trova riscontro nel costume e nella parlata locale, oltre che nell’indole vivace ed allegra dei letinesi. Un gruppo di nobili guidati dalla principessa Letizia, per sfuggire all’espansionismo degli Ottomani, potrebbe essere capitata nell’alta valle del fiume Lete e ne abbia apprezzato le qualità delle acque fresche e benefiche del fiume, della dimenticanza e dunque dell’oblio. Dante Alighieri cita il Lete come il fiume che espia i peccati prima di essere degni del Paradiso e dalle sue acque ne esce Beatrice, come un carezzevole venticello.

 

Dal lago d’Averno all’alta valle del Lete è più facile arrivare lungo i tratturelli transumanti che si intravvedono vicino al reperto fluviale del paleocorso del Lete, a forma di V, sulle Rave di Prata Sannita, dov’è ancora il reperto della transumanza verticale, che portava ai prati sottostanti (Prata) e ai più piccoli prati di Pratella. Virgilio nel libro VI dell’Eneide descrive Enea che, dopo aver incontrato la Sibilla Cumana e sepolto il compagno Miseno, sul promontorio che ancora porta il suo nome, va nella valle del Lete per incontrare il padre Anchise nei Campi Elisi. Anni fa ho visitato l’antro della Sibilla Cumana, il sovrastante Tempio d’Apollo con Ischia nel panorama di prossimità, il Lago d’Averno con la trattoria Caronte, e rimasi estasiato dell’immenso concentrato culturale, utile per lo studio ambientale non solo locale ma mondiale, almeno della cultura occidentale dei saperi umanistici, che con quelli scientifici possono trovare un’armonia pacifica e non sempre discordanze. Mi faceva da guida occasionale, Salvatore Brunetti, puteolano e autore della lirica poetica Dicearchia (cantata da altri) ma anche saggista di Glottologia napoletana e puteolana nonchè di romanzi che trattano di altri ambienti con cenni alla vita oltre la morte. La sua presentazione del mio saggio “Piedimonte Matese e Letino tra Campania e Sannio”, testimonia competenza e non provincialismo. Prima della regola dei confini dell’acquapende, Letino, che dal 1927 apparteneva al Molise e alla Provincia di Campobasso, dal 1945 passò alla Campania e alla Provincia di Caserta, come anche Gallo Matese, Capriati al Volturno, Fontegreca, Ciorlano, Prata S. e Pratella. Il mito e il costume tradizionale suggerirebbero un’origine greca di Letino, il cui territorio è esteso 31,59 kmq a oltre 900 metri di quota e che registra oggi circa 700 abitanti (nel 1951 ne registrò 1.346). Il territorio letinese ha due piccole aree pianeggianti, una a Sud del paesetto dalla parte del Lago alle Fossate e un’altra alle Secine dalla “Cuttora” alla “Taglia”, toponimi noti non solo ai letinesi. L’ipotesi dell’origine di Letino dalla principessa Letizia con la sua piccola corte di nobili affonda le radici nella tradizione orale indigena e si spiega con la fuga dal dominante espansionismo ottomano. Poi il mito fa la sua parte e alimenta l’ipotesi, come in altri miti, dell’origine semidivina del soggetto, meglio se cittadino e non suddito.  Letizia, bagnandosi nelle acque del piccolo fiume, a cui aveva dato il nome di Lete, e trovandovi giovamento con la distensione fisica e mentale operata dalla dimenticanza (oblio virgiliano, dantesco, ecc.), decide di restare lassù, isolata tra gli alti monti del Matese, tra  due pieghe di corrugamento appenninico, di cui quella adriatica è più elevata con il monte Miletto di 2.050 metri. Di Letino è suggestivo e sacrale il tradizionale  costume femminile, mentre quello maschile si è perduto già da circa un secolo. Il costume della tradizione letinese è esposto al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari  a Roma, insieme a quello di Macchiagodena (IS). I due magnifici costumi furono donati al Museo Nazionale nei primi anni del 1900 dal collezionista svizzero, Ing. Guglielmo Berner, direttore del cotonificio di Piedimonte d’Alife. Del castello di Letino, ma anche del paesetto che porta il nome del fiume Lete. Con il senno del poi, la storia recente ci suggerirà, in modo più evidente di oggi ancora troppo vicini passionalmente a certi avvenimenti, che dietro il clamore della fine degli anni Sessanta del secolo scorso c’era una ben determinata causa derivante dall’espansionismo di un grande Stato che ha combattuto per oltre 1 secolo il capitalismo per poi applicarlo a pillole in una piramide di burocrazia. In Europa c’è un prima e un dopo ’68 o 1968. Prima la società si evolveva senza clamori generazionali e grossi traumi sociali, dopo, invece, la contestazione di alcuni filosofi del popolo misero il dubbio tutte le autorità. Tra padri e figli ci fu una discontinuità e a causarla furono i movimenti parigini, statunitensi e, degenerando, italiani. Ricordo bruciare il portone dell’Università Federico II e altre “prodezze” di facinorosi, figli della borghesia che parlavano in nome del popolo. Questi movimenti a Padova li trovai quasi una decade dopo con l’arresto di un gruppo, tra cui spiccava il prof. universitario,Toni Negri, poi rifugiato in Francia, da parte del Magistrato Calogero.

Il mio saggio ambientale ”Canale di Pace” non ancora stampato per mancanza, in Italia, di editori con il rischio imprenditoriali, tratta dell’evoluzione del suddito a cittadino. Quando si parla di moderno suddito lo si intravvede nel popolo e non nella comunità di cittadini. In Italia, più di atre parti, a me pare, c’è un’ancora tradizionale visione del popolo. Bisogna, invece, avere la visione del cittadino o dell’individuo che è più moderna ed attuale. Il popolo è amorfo, informe e senza testa, mentre il cittadino no poichè ha una testa, un nome e cognome nonchè parla per conto proprio e non in nome del popolo informe ed acefalo. La nostra Costituzione quando fu pensata ed approvata produsse anche un acceso dibattito. Nel decidere se mettere “in nome del popolo sovrano” oppure del cittadino, vinsero, a maggioranza, i “populisti” come sempre succede fin da Roma caput mundi con consoli Optimates e Populares. Lo stesso Giulio Cesare, che era un console di gens nobile di antica origine, decise di essere eletto tra i Populares come oggi alcuni politici del Pd che parlano continuamente di dare ai poveri. Nel Mezzogiorno poi al popolo si associano spesso i cafoni, che lo scrittore abruzzese Ignazio Silone in Fontamara così scriveva in merito ai cafoni:” “Io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese, è ora termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero in questo libro nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore”. Silone fa questo profilo storico-ambientale: ”Fontamaresi, quindi, si preoccupano non poco quando il nuovo podestà del capoluogo decide che il torrente la cui acqua viene usata da secoli per irrigare le loro terre deve essere deviato per andare a bagnare le sue (e manda dei cantonieri, a spese del comune, per effettuare i lavori). Per i contadini ciò significa la morte certa per fame, e non hanno altra scelta: devono protestare. A Fontamara è giunta voce che il Governo a Roma è cambiato, ma chi siano questi fascisti non lo sa nessuno. Che adesso il sindaco non si chiami più sindaco, bensì podestà, a loro non interessa: solo i cittadini si agitano tanto per una parola che cambia. Ai Fontamaresi non importa chi siano o come si chiamino i potenti di turno: quello che sanno è che da essi verranno derubati, sfruttati, ingannati e dileggiati. Da secoli e secoli, i cafoni sono rassegnati a sopportare, impotenti, le prepotenze e i soprusi di chi è più potente, più ricco, più istruito di loro”. Silone, come altri, respirava oltre l’aria abruzzese anche la cultura del suo secolo, pervasa dal mito dell’egalitarismo e dell’imposizione del rispetto del suddito che il feudatario non avrebbe mai avuto. In merito agli aspetti ambientali umani, due moniti mi sembrano pertinenti, quella utilizzata anche dallo Scriptorum Loci matesino, Avv. Luigi Cimino nativo nonché già Sindaco di Valle Agricola, ex Valle di Prata, e quella del più noto Enzo Ferrari.

Dal capitolo del mio saggio ”Canale di Pace”, ancora da pubblicare per mancanza di editori col rischio editoriale, riporto alcune riflessioni, sempre con l’insegna  di: “scripta manent verba volant”. Il fosso o Canale di Pace, di Letino, è un toponimo dell’altissima valle del Sava a Est della vicina fontana di San Pietro. Il Canale di Pace è un immissario di destra del torrente-fiume Sava, che va ad immettersi nel vicino lago di Gallo Matese. L’Ambiente di Letino, del Canale di Pace e del mito del fiume Lete  sono parte “inscindibile” di me, per la nascita e formazione fino al 1963 quando andai a studiare a Piedimonte d’Alife, dapprima a pensione poi, insieme ai miei familiari trasferitisi. Allora, 1963, abitava nella stessa via anche un mio compagno di classe piedimontese, che conobbi dal terzo anno di corso poiché prima egli aveva frequentato il ginnasio. Il barbiere piedimontese “Giannino”, allora mi appellava “lo studente letinese dei proverbi”, perché ne ricordavo ancora non pochi. Ho vissuto le mie prime 14 primavere, estati, autunni e inverni nell’ambiente di un paesetto  di montagna appenninica, Letino, nella regione storica del Sannio. L’antichissimo comune di Letino è ubicato a più di 1000 metri di quota sulla prima parte dell’Appennino Meridionale al confine tra Molise e Campania. Ricordo in particolare due bambini- me e mio fratello Antonio- impegnati a scoprire, soprattutto d’estate, il mondo esterno in compagnia dell’anziana nonna paterna, Maria Giuseppa Orsi. Nei mesi estivi vivevamo alla non piccola masseria del fosso o “Canale di Pace”, toponimo di un piccolo affluente del fiume Sava, da non confondere con l’omonimo fiume sloveno. Il Sava, che accoglie le acque del Canale di Pace, ha regime torrentizio perché d’estate le sue acque scorrono nel sottosuolo carsico come pure gran parte degli affluenti. Fa eccezione il vicino canale di San Pietro, che scorre più ad ovest del Canale di Pace. Non lontano dalla fontana di San Pietro, sorgeva, prima del XIII sec., il secondo insediamento di Letino. In tale, anche storico, ambiente c’è il toponimo dei miei avi, situato nell’alta valle del Sava, che, in gran parte, è nel territorio del comune di Galo Matese (CE) della Diocesi d’Isernia, mentre il “Canale di Pace” è nel territorio di Letino (CE) della Diocesi d’Alife.  Il piccolo Canale di Pace era ed ancora lo è un piccolo affluente del fiume Sava, che è immissario del lago di Gallo Matese, realizzato nel 1970, con esproprio forzato dei terreni pianeggianti dei gallesi. Questi poi emigrarono in massa fino a ridursi a circa 500 abitanti attuali, mentre erano 3.417 nel 1921, i letinesi, invece, che hanno registrato un massimo di 1300, oggi superano di poco i gallesi con migliore clima e fertilità del suolo posto a 875 m di quota. Il fiume Sava dopo il paesetto di Gallo M., si inabissava e riappariva nella cipresseta di Fontegreca e attraversare i territori di Prata Sannita, Ciorlano e Capriati al Volturno, prima di affluire da sinistra nel fiume Volturno. Il fiume Sava nasce a Capo Sava, dolina carsica quasi ai confini con il territorio di Roccamandolfi e vicino alla Fontana Palombi. Molti abitanti dei paesi pedemontani del Matese credono che l’alta valle del Sava sia esclusivo territorio di Gallo Matese; invece, lo è solo in gran parte e a partire dalla masseria “Finezze”, prima delle Starze gallesi, ex tenuta dei monaci benedettini che bonificavano terreni paludosi in tutta Europa, tanto che molti comuni o località hanno Starze come toponimo. I territori di Gallo Matese e di Letino sono particolarmente ricchi di acque nelle quali, soprattutto in quelle dei due laghi, vivono: la trota fario, l’anguilla, la carpa comune, il persico reale, il barbo, la tinca, il vairone e, ultimamente, il luccio. Tutto l’anno, ma specie nei periodi estivi, sono presenti vari e numerosi uccelli acquatici, come le folaghe, i germani reali e le marzaiole. Nel Lete più che nel Sava ho pescato le trote fario con le mani. Nelle fredde acque autunnali del Sava mio padre poneva, per tre settimane, in zone impervie e ben nascoste, due sacchetti di lupini, che poi li mangiavamo alla masseria del Canale di Pace oppure nella nostra casa in via San Giovanni di Letino distante pochi km. Le sorgenti d’acqua letinesi sono affluenti in numero maggiore del fiume Lete che non del Sava. In linea d’aria il Canale di Pace a Letino, nell’alta valle del Sava, dista 2-3 km da Gallo Matese, 40 dall’autostrada del Sole a Caianello, 80 da Caserta, 110 da Napoli e 60 da Campobasso, mentre dal Mar Tirreno 65 km e dall’Adriatico più di 100. Il territorio vasto, dov’è anche il Canale di Pace, ha origine dai carsici rilievi sottostanti “le Valli” di Letino. Il canale idrico nasce tra fertile terreno misto e pietrame del conoide di deiezione là esistente, in un quasi nascosto noceto con piante anche secolari. Nell’ambiente letinese, il mito più che la storia pure molto incerta, non è affatto secondario nell’analisi ambientale con la luce del cosiddetto, a torto, riduzionismo scientifico. Il bambino già svezzato col nome del nonno paterno Giuseppe, aveva ancora piccole le spalle ma le domande che poneva erano grandi, è disposto a scrivere per raccontare parte di un ambiente naturale e di un mondo umano arcaico. Un ambiente di un piccolo mondo antico, dove i campi non sono più arati come allora e dove le piccole valli prative fanno da sfondo alla genitoriale masseria abbandonata della famiglia paterna dei Pace-Orsi e dei Fortini, cognome materno.  Dalla camera da letto della masseria del Canale di Pace, si vedevano le cime dei monti delle Mainarde-Meta, la pianura e il paese di Gallo Matese- poi vi hanno realizzato il lago- e in alto il medievale castello di Letino, con dentro il cimitero dal 1888 seppellendo una giovane donna. Dalla cameretta della masseria del Canale di Pace, posta sopra la cucina con forno a legna, ora non arriva più nessun rumore. Niente. Silenzio. Si vede il pavimento ben piastrellato, ma coperto di molta polvere e una branda arrugginita e ripiegata. Eppure era in quella magica cameretta, che ci iniziava alla religiosità popolare nostra nonna Orsi (spartana, brontolona e vedova). Mio nonno era morto a 56 anni mentre era con gli armenti sulle Valli del Sava poste a nord della fontana di San Pietro, oggi accessibili dalla nuova strada brecciata che porta a Capo la Sava. Restò la moglie (59 anni) ad accudire i sei figli prima e i diciotto nipoti poi, due in particolare che abitavano con lei: me e mio fratello Antonio. Il terzogenito Enzo, nato a Letino nel 1956 e morto a Piedimonte Matese nel 2013, non frequentò la masseria, restava a casa a Letino con nostra madre, mentre nonna, che mori nel 1958, era con noi d’estate al Canale di Pace. Ecco perchè nostra nonna, nel farci dire la preghiera prima di dormire, chiedeva, anche ai defunti dei suoi affini e parenti di primo grado (marito e figlia Concetta), di proteggere, i familiari viventi, dall’alto del cimitero di Letino.

“Angelo di Dio, che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me, che ti fui affidato dalla Pietà celeste. Amen”, ci faceva recitare nonna con mani congiunte guardando verso il camposanto nel castello sommitale al monte ben visibile dalla finestra della cameretta della masseria del Canale di Pace. Se di sera era già scuro, perché spesso si andava a letto con le galline, avevamo il cero acceso e guardavamo uno sbiadito faro che illuminava l’esterno del cimitero, oggi vi sono più fari elettrici come riporto in fotografia. Allora ripetevamo quelle sacrali e citate parole che la nonna, in pigiama come noi due,  scandiva con voce ferma e sicura: di fare cosa buona e giusta. Quel collaudato microcosmo non era sconvolto dall’arrivo della più discussa civiltà dei consumi, globalizzata e digitalizzata. Cosa succedeva in quel microcosmo da piccolo mondo antico, raccontato, in minima parte, dopo una vita trascorsa lontano? E’ il bambino più grande, che scrive dei due ragazzini-adolescenti al confine tra quello che era e quello che è come in un sogno ravvivato dove si scorgono i ricordi dell’età verde, annidati nelle cellule neuroniche del cervello e in fondo al cuore di tutti noi. Resta suggestivo il paesaggio letinese con il castello e con dietro il Canale di Pace e il lago attuale di Gallo Matese. Il Canale di Pace è dunque nel paesaggio del piccolo comune di Letino- territorio della provincia di Campobasso fino al 1945 poi di Caserta.  L’ambiente letinese è ricco di paesaggi con sensibilità generazionali. Ne consegue che non si ritiene fuori tema la frase inglese: “Abovianum You are not in the mountains. The mountains are in you”. Non sei in montagna. È la montagna a essere in te (John Muir). Oppure l’altra frase che richiama anche lo spirito che animava i primi alpinisti europei e mondiali del 1700 e 1800: ”Everyone wants to live on top of the mountain, but all the happiness and growth occurs while you’re climbing it. Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, ma la felicità e la crescita si trovano nel cammino per scalarla. (Confucio)”. Ritengo opportuno citare anche quest’altra pillola di saggezza: “Chi progetta sa di aver raggiunto la perfezione non quando non ha più nulla da aggiungere, ma quando non gli resta più niente da togliere” (Antoine de Saint-Exupéry). Ho vissuto la magica infanzia in ambiente montano ed ammirato i paesaggi appenninici del Sannio a Letino, che dista solo nove ore a piedi dall’antica capitale “Bovianum Vetus”, descritta dal patavino Tito Livio. I Pentri erano i montanari più numerosi della federazione dei Sanniti che migrarono dalla Sabinia, in  settemila per volta con il rito delle Primavere Sacre, fino a Bovianum Vetus nell’VIII sec. a. C.. Per amore di storia e coincidenze amicali ho svolto il ruolo di sacerdote Sannita a Bojano (CB) in due rievocazioni del mito delle Primavere Sacre o del Ver Sacrum di fondazione di Bovianun Vetus.  Dal 1948 al 1963, ho trascorso a Letino gran parte dell’infanzia e prima adolescenza. Durante i mesi estivi trascorsi al Canale di Pace, ero già una sorta di esperta guida naturalistica. Conducevo spesso i cacciatori, provenienti dal pedemontano matesino, alla ricerca soprattutto delle rinomate pernici. Altri animali selvatici diffusi nell’alta valle del Sava erano le volpi, le donnole, i merli, i passeri, i gufi, i cuculi, le civette, le cornacchie, le rane, le bisce e le vipere e d’inverno non mancavano i mallardi sull’acqua ghiacciata e i lupi anche in branchi, che pure vivevano nei boschi e pianori tra Letino e Roccamandolfi. Lassù, lungo la pista di pecore che conduceva al tratturo Pesasseroli-Candela, negli anni 1930-40, una donna gravida e a piedi era stata preda di lupi più affamati del solito per l’abbondante nevicata. Il fattaccio, riferitomi da un roccolano, Benedetto D’Angelo, era successo, perché d’inverno tre persone, andate a Letino per barattare merce, al ritorno furono investite da una bufera di neve. Il marito e il figlio della sfortunata, gravida di sette mesi, erano andati a chiedere soccorso al loro paese. Al ritorno da Roccamandolfi trovarono la donna dissanguata dal branco di lupi affamati. Episodi simili si verificavano su tutti i rilievi dell’Appennino, tranne che sulle Alpi, dove la Grande Guerra aveva estinto il lupo, ora ritornato. Al Canale di Pace abbondavano le lepri e i piccoli li vedevo spesso quando aiutavo a spandere l’erba che mio padre sfalciava dietro la masseria. Qualche volta, invitato dai cacciatori, mangiavo la selvaggina da loro cacciata, che a Letino era copiosa, come recita la poesia di don Antonio Gallinaro, prete della parrocchia letinese di San Giovanni Battista dal 1936 al 1944: ”I suoi boschi son tutti faggio / e son pieni di selvaggio. Lepri, storni e pernici / fanno i cacciatori felici”. A Letino le aree agricole, sistemate a terrazzamento, erano, in gran parte, utilizzate per la produzione di patate, mentre quelle pianeggianti per il frumento e per gli orti come davanti al paesetto, a 890 m di quota. Le sezioni di boschi di faggio a Letino sono le più numerose di tutti i 17 comuni della Comunità Montana “Matese” con oltre 40mila amministrati. In molti di questi comuni vi è un calo demografico sia per i minori servizi sociali che per il più basso reddito rispetto ai centri del pedemontano matesino. Tra le tante sezioni boschive letinesi spiccano i faggi secolari di “Pezza la Stella”, “Campo le Fosse”, “Valle dei Lupi”, “Coppari”, “Colle del Sole”, “Cese”, Grotta dei Briganti”, monte “Nicola Pilla” o “Ianara”, “Rave la Sava”, “Campo Ruzzo”, “Vallochie scure”, “Valle degi Astori” e “Capo la Sava” e dintorni.

In altissima montagna, ai confini con Roccamandolfi, vi sono doline carsiche e piccoli pianori pascolivi, soprattutto per bovini ed equini d’estate: e le due piccole valli con zootoponimi, “Valiastora” (Valle degli Astori) e “Valle dei Lupi”. La cima di Miletto, più di un secolo fa, segnava il confine tra Letino e Roccamandolfi, poi i roccolani spostarono più in basso la linea di confine che si vede in pieno bosco di faggio sopra Campo Ruzzo letinese. Anche Letino ha il suo “Campitello”, in alto dopo il monte e a nord della masseria dei Vaccaro e Stocchetti. I campitelli erano spazi pianeggianti boscati, che i locali disboscavano per renderli produttivi di frumento, patate e foraggi, come i più noti Campitelli di Roccamandolfi e di San Massimo, dov’è la stazione di sport invernali con molti alberghi e case. Al “Canale di Pace” di sensazioni naturalistiche, ne avevo sperimentato eccome! Esse erano rimaste memorizzate come una sorta d’imprinting. Mi erano familiari, come nella nota descrizione manzoniana dei Promessi Sposi dell’addio ai monti di Lucia, anche le principali vette dei territori di Letino e di Gallo Matese. Del secondo paesetto, visibile bene dal Canale di Pace, ricordo Punta Falasca di 1348 m., Favaracchi di 1219 m., Pietrauta di 1149 m., Monte Macchia Ferrara di 1258 m., Monte Croce di 1095 m., Monte Zeppone di 1317 m., Monticello di 1108 m. (tra Pietrauta e Monte la Croce), Monte Cinnamiello di 1064.  La stratigrafia, invece dell’alta valle del Lete, si può leggere da miei articoli negli Annuari dell’ASMV, citati in bibliografia. Conservo la lettera di Pietro Parenzan del 2/5/1986, prot. n. 1045 “Grotte del Lete”, che mi chiedeva di tenerlo informato sulle decisioni prese sulle- non solo mie ma anche sue e di chiunque- grotte del Lete. Egli aveva esplorato ed illustrato le belle e suggestive grotte del fiume Lete a Letino, prima di divenire Direttore Del Museo del Sottosuolo di Taranto. L’ambiente naturale del Canale di Pace, si ribadisce, è ubicato sui monti del Matese. L’orogenesi del colosso montuoso matesino va dal Triassico superiore (200 milioni di anni fa) fino al Cretaceo superiore (65 milioni di anni fa). Il suo ambiente era sommerso dal mare, simile a quello caraibico, e lo testimoniano non pochi fossili presenti nel parco geo-paleontologico di Pietraroja (BN). In tale parco, nel 1980, fu rinvenuto un piccolo dinosauro fossile, appartenente alla specie “Scipionyx samniticus”, in omaggio sia Scipione Breislak, che nel 1798 descrisse per primo il giacimento fossile di Pietraroja. Il cucciolo di Celurosauro fu chiamato “Ciro”, nome diffuso a Napoli e che nell’antico greco significa “Potenza”. Sul versante isernino del Matese, in località Pineta di Isernia, spicca il sito dove nel 1978 furono rinvenuti fossili del paleolitico, tra cui zanne di elefanti e di dente umano, che testimonierebbe la presenza dell’uomo vissuto non meno di 736.000 anni fa. La presenza dell’uomo di Isernia, a sua volta, si integra ai fossili campani di Tora e Piccilli, dove sono state ritrovate le “Ciampate del Diavolo”, riconducibile “all’Homo Heidelbergensis”, vissuto 385.000 anni fa, apparso nel “National Geographic” e nel “Guardian”. Più di 20 sono le cime del Matese alte oltre 1000 metri e che formano forre, canyon e valloni carsici più o meno ampi e notevole è anche la costituente idrografica, composta da laghi carsici, tra cui il Lago Matese. Posto a circa 1.011 metri di quota sul Matese vi è il lago appenninico più alto d’Italia, con un bacino lacustre di circa 10 metri di profondità e una superficie  di 60 ettari. Non pochi sono i torrenti, i  fiumi e le sorgenti che hanno origine dal carsismo del Matese. Di quest’ambiente naturale si conosce in particolare un po’ anche l’ambiente storico d’epoca longobarda. Allora era ancora attivo l’antico convento di Santa Maria in Cingla, dalle cui terre contese, alla fine del X secolo, fu scritto il più antico idioma volgare italiano, contemplato nei famosi Placiti di Montecassino e di Capua.  Ad affluire nel medio corso dello storico fiume Volturno vi sono tanti piccoli fiumi tra cui il mitico Lete e il meno noto Sava. Quest’ultimo attraversa la pregiata  cipresseta di Fontegreca, costituita da cipressi autoctoni, citati nel XVII secolo da Giovan Vincenzo Ciarlanti. Il Canale di Pace è situato a nordest del lago di Gallo Matese, nella parte quasi più alta della valle del fiume Sava, mentre il paesetto dei gallesi si trova in una vallata, con a centro una collinetta argillosa su cui sorge il centro storico  a  870 m. di quota. Il luogo è abbastanza boscato e in a quote più alte vi sono faggi e a quote meno alte querce, acero e frassino, ma anche biancospino, nocciolo e prugnolo, oltre a funghi, origano e camomilla. Da piccolo ricordo che mio padre andava a comprare le ghiande dai gallesi per poi darle in pasto ai due maiali prima di Natale. Per la fauna, al Canale di Pace abbondavano: quaglie, storni, tordi, pernici, beccacce, piche o gazze ladre, volpi, lepri oltre a falchetti e poiane più in alto sui monti, nibbi in località Starze : germani reali, folaghe e marzaiole in località Pescheta.  Attorno alla nostra masseria d’estate c’erano molte lucciole e sotto il tetto, esternamente, alcune decine di nidi di rondini. Ricordo le molte galline al Canale di Pace che entravano in stalla per il foro o cauto che di sera si chiudeva bene per impedire alle volpi di entrare. Nel nido delle galline ponevamo un sassolino simile all’uovo per stimolare le galline a gratificarci con le uova, che bevevamo crude oppure mangiavamo in frittata con menta dell’orto curato da nostra nonna. In passato il lupo nel territorio letinese e gallese era una presenza forte e numerosa, oggi e di ritorno anche se abbondano i cinghiali. Il Fosso- Canale di Pace è ubicato tra l’analogo emissario d’acqua della fontana di San Pietro e quello delle “Fontanelle” con stradina e rivolo d’acqua, che effluiva (adesso è tutto abbandonato e poco accessibile per le spine) dalla piccola fontana posta di fronte alla masseria di mio zio e primogenito, Giambattista Pace, nato a Letino nel 1902 e ivi morto, over 90. Nel 1946, due anni prima che nascessi, Filomena Orsi, cognata di mia nonna paterna, le gridò dalle Pietre Carrate: “Peppa mia è tornato dalla guerra tuo figlio Luigi”, così mi raccontava qualche anno fa, il nipote Antonio presente con lei e di soli 4 anni. Mio padre tornò dalla guerra, fascista di aggressione alla Grecia, un anno dopo il 1945 per la Questione di Trieste. Si era salvato, dopo l’8 settembre 1943, scappando in una masseria di contadini slavi per sfuggire alla prigionia tedesca. Quando mi raccontava le battaglie ed altri fatti di guerra, alla richiesta “io dov’ero?” mi sussurrava che mi portava nel suo tascapane, e, a 3-4 anni, gli credevo appieno. A 8-9 anni lo aiutai a spalare neve che aveva ricoperto due alveari vicino alla masseria del Canale di Pace. Un’apertura dell’alveare la raggiunsi per primo e infilai il dito nel foro del barile di legno, fui punzecchiato dalle api soldato dappertutto. Per un paio di giorni restai gonfio, poi tutto si ristabilì e tornai a scuola dal maestro Colamattei, che ai più chiassosi praticava la punizione del cavallo: sculacciava con una bacchetta l’alunno con la testa tra le ginocchia, alle alunne con bacchettate sulle mani. Mio padre, invece, era uno dei pochi letinesi che non mi puniva mai fisicamente, ma mi rimproverava sempre a voce ed in modo persuasivo. Forse l’esperienza in guerra e già over33, quando nacqui, lo rendevano più maturo e modernista. Infatti volle che mia madre si svestisse degli abiti tradizionali appena maritata, nel 1947.

Il canale più ad Est della nostra masseria pastorale, detto delle Fontanelle, oggi, è rinselvatichito, compresa la stradina laterale al rivolo d’acqua emessa dalla fontana “Le Fontanelle” ad est della masseria di mio zio paterno Giambattista Pace. Anche le Rave del Sava, poste sotto la dolina carsica di Capo Sava, si sono rinselvatichite e sono ormai inaccessibili a piedi, mentre fino a qualche decennio fa c’era una strada praticata da persone ed armenti. Al Canale di Pace, mia nonna utilizzava una pedagogia montanara, forse ispirata dalla tradizione montanara con non poca parsimonia, laboriosità e onestà.  I suoi figli sono stati grandi lavoratori e così pure i 19 nipoti, forse faccio eccezione perchè perdo tempo a scrivere! Per molti contadini, soprattutto prima del boom economico italiano, leggere e scrivere veniva considerato come una perdita di tempo, che alcuni lo riproponevano quando minacciavano lo scolaro e studente ”se non studi ti mando a zappare”. La “punizione” o maledizione del servo della gleba medievale non è ancora scomparsa dal comune sentire popolare di qualche decennio fa, nell’ambiente italiano, mentre permane negli ambienti del Sud del mondo del 2021 d. C.. Negli anni Cinquanta mia nonna, nell’accudirmi con mio fratello Antonio, soprattutto alla masseria del Canale di Pace, appellava il primo “polentone”,  perché più calmo e ghiotto di polenta “acconcia” (cioè fatta a strati intervallati da sugo e qualche volta anche da salsicce di maiali che curava bene, dopo che averli comprati alla fiera di Prata Sannita) e il secondo “lavoratore”, perché trasportava più secchi d’acqua alla masseria dalla vicina sorgente, oggi scomparsa. Alla fiera di Prata Sannita, a fine estate, andai a piedi con mio padre, per comprare due maiali lungo il tratturo antico transumante delle pecore. A Natale  i due maialetti erano cresciuti bene per essere scannati e produrre sanguinacci, salsicce e lardo o sugna per l’inverno e fino al Natale successivo. Un anno si infettarono di peste suina e il veterinario, interpellato, consigliò di ucciderli  per evitare la diffusione del contagio. Invece ne ricavammo abbondante ed utile sapone che, con mio fratello Antonio, tagliammo con uno spago, a pezzettini. Ricavammo due grossi pezzi di grasso dei maiali morti, posti sul fuoco in due capienti recipienti con l’aggiunta di soda caustica. Il sapone bastò per oltre un anno nell’economia di montagna, povera e ingegnosa, come nei visitati paesetti alpini, carpatici e andini. Letino, come quasi tutti i paesi montani, ha strade e piazzette curate e ordinate senza immondizia, a differenza dell’area pianeggiante napoletana, afflitta da troppo tempo dai rifiuti. Mio padre, mentre mia madre andava a cavare patate a Capo Sava, si fermava lungo la strada, tra Costa del Cerro e San Pietro, spesso fino ad ora tarda, per raccogliere sacchi di ottime noci. Esse servivano per il lungo e freddo inverno letinese con provvidenziale colazione o cena di pane e noci oppure pere roccolane e noci. Fino al 1960, mia madre, in ottobre-novembre, si recava con l’asino a Roccamandolfi a barattare patate letinesi  con “carnose e succulenti” pere roccolane. Il fosso-canale scorreva, per il tratto più a monte, tra le valli agricole delle sei mie zie materne (Pasqua, Antonella, Marianna, Vittoria, Stella e Filomena Fortini) e uno zio Raffaele Fortini. Questi erano figli della sorella del nonno omonimo paterno, Pace Maria Palma, morta in Argentina a casa del figlio Raffaele. I miei genitori erano cugini, perchè mamma Filomena (quarta figlia di Antonio Fortini e Maria Palma Pace) si maritò con mio padre Luigi (quarto figlio di Giuseppe Pace e Maria Giuseppa Orsi). Anche la famiglia Orsi possedeva un rudere vicino al fosso del Canale, che mio fratello Antonio mi precisa che era dei cognati di mio nonno omonimo, poi migrati a Pietravairano (CE). Mi è più comodo e facile ricordare l’ambiente del Canale di Pace, grazie alla foto, che segue inviatami da Luigi Orsi fu Gianbattista, mio cugino paterno di VI grado e nipote materno della “Pernice” prima accennata con la masseria lungo la strada per Serramonte. Ricordo che alla masseria del Canale di Pace, noi piccoli raccoglievamo le ghiande per i maiali che nonna “Peppa”, integrava con ortica cotta-  raccolta spesso a mani nude e con molte rughe di una quasi 80enne. Nel suo orticello, posto davanti e a sud dell’aia della masseria al Canale di Pace, produceva: aglio, cipolla, menta, susine e cappuccia. Le rose ed altri fiori li coltivava in un altro posto più lontano dalla cucina, lungo la stradina che conduceva alla fontana Pace, che oggi non zampilla più, perché si è seccata o si è spostata più a valle o più a monte. Il Canale di Pace, lambiva a destra i terreni del gallese Giuseppe Finezze, con più moderna masseria, ora abbandonata e col tetto caduto, anche per l’emigrazione in Canada del figlio Antonio. Vicino alla masseria Finezze, vi era una piccola sorgente lambita dalla comoda stradina che conduceva sia a Gallo Matese, via Sava-Starze, che a Letino.

Quest’ultima era un tratturello ripido e pericoloso per la notevole pendenza e si collegava con la strada che dall’altissima valle del Sava conduceva a Letino. Lungo la strada vi erano fiori di maggiociondoli in aprile e maggio. Il trutturo Finezze incrociava, a circa 50 m. prima, la masseria di Giacomo Ianuccilli, che aveva 4 figli di cui uno sarto, Filiberto, poi emigrato, e di quella di Carmine Orsi in zona sopra il Perrone, porta nordest del paesetto, oggi spopolato dall’emigrazione senza ritorno. La masseria di Giuseppe Delli Carpini detto ”Finezze”, a circa 860 m. di quota, era frequentata dalla famiglia dei nonni sia paterni che materni dello scrivente, poiché le proprietà confinavano. Antonio Fortini, fu Venanzio e Tartaglia Pasqua, aveva una vasta superficie agricola a terrazzamento a nord del cimitero-castello letinese, oggi bosco di abeti, e si estendeva fino alla pianura sottostante gallese, oggi lacuale. Di tale proprietà c’è anche un nostro pezzo come eredi materni insieme ad altri 6 zii e 16 cugini. La masseria del Canale di Pace, invece, sta più in alto di quella dei Delli Carpini e dei Mozzone ed è affiancata da quella, gemmata e postuma, di Raffaele Pace fu Giuseppe, mentre più in alto è la più recente masseria, pure abbandonata, di Giambattista Pace fu Giuseppe. Altre masserie abitate allora nell’alta valle del Sava di Letino erano: quelle di Pasquale Iamundi detto ”Il Vescovo” alle Pietrecarrate; di Liberato Tomasone detto “Caronte” e di suo fratello ai Valloni; di Michele Vaccaro alle Lote; di Antonio Fortini detto “Placido” alla Sava con vicino la masseria di Annamaria Di Stavolo in Cristinzo detta “Straulera” che lambiva il piccolo fiume Sava; di Orsi Luigi alla “Costa del Cerro”, sopra Fontanelle con la masseria di mio zio Giambattista Pace; la piccola masseria di Filomena “Pannuncella”  a Capo-Canale vicino al bosco di noci; la masseria della sorella del citato Giuseppe Delli Carpini, posta vicino a San Pietro quasi accanto alla masseria di Ignazio Fortini e, sulla destra della fontana di San Pietro, la masseria di Elvira Tomasone con uno dei figli Vincenzo. Quest’ultimo fu battezzato dai miei genitori, e mia madre lo ha autorizzato, anni fa poi non più, a fare pascolare le sue pecore nel suo tomolo di terra . Tale ultima masseria, con valli di terreno ben esposte a Sud e fertili, pare che fosse del fratello di Elvira, Luigi Tomasone, emigrato negli USA da cui l’appellativo “Znoff”. Questi l’aveva data in locazione ad Elvira e marito Luigi Bertolla, con tanti figli e gregge di ovini. La masseria dei Pace del Canale la frequentai molto prima di migrare nel 1963 a Piedimonte d’Alife, per motivi di studio. Dapprima, 1962/63, sono stato a pensione a Piedimonte d’Alife, con il cugino di VI grado Luigi Orsi, compagno di scuola letinese (che mi ha inviato la fotografia con la masseria del Canale di Pace, che ho potuto mettere nel mio saggio in corso di stampa). Nel periodo della scuola elementare letinese, alla masseria paterna restavo nel periodo estivo e molti dei pomeriggi negli altri periodi. Ricordo un fatto “tra il pauroso e il drammatico” successomi in periodo invernale nel tardo pomeriggio mentre rientravo dalla masseria a Letino.

All’incrocio della stradina dal Canale-San Pietro con quella che scendeva dalle Fontanelle, prima del ponticello sul fiume Sava- riportato in copertina- un piccolo lupo, che scendeva dall’altissimo Matese lungo la stradina delle Fontanelle, mi seguiva. Appena lo intravvidi di lato e poi di spalle, a poche decine di m. di distanza, camminai lentamente i primi metri, poi oltrepassato il ponticello sul fiume Sava affrettai il passo fino ai ”Giardini” o “Iardini”.

 

Dopo corsi come un fulmine per la masseria alle “Prete Carrate” cercando di vedere con la coda dell’occhio implorante Pasquale “il Vescovo” e giunse in pochi minuti a Letino, ancora impaurito per non dire terrorizzato. Del lupo, che incuteva paura a tutti i letinesi, persi la visuale né pare che mi abbia inseguito vedendomi calmo inizialmente. Forse preferì rinunciare all’inseguimento, quando, da circa 100 metri distante, mi ha visto fuggire così fulmineo?  A Letino d’inverno il pastore Giovanni Pace, una volta uccise, con l’ascia, un lupo adulto infilzatolo ad un palo e passò, casa per casa, a chiedere un kg di formaggio quale compenso per aver eliminato il lupo che era un pericolo per le pecore dei molti pastori. Prima di partire per la guerra dell’Italia alla Grecia, mio padre, possedeva una dozzina di mucche, che vendette ad Antonio Fortini detto Placido. Mia nonna si oppose alla vendita totale e  volle due mucche da latte fu accontentata. Ad aiutarmi a mungere le poche mucche, a fine anni Cinquanta, veniva Ignazio Fortini, che possedeva la masseria, in buono stato ancora oggi, vicino alla fontana San Pietro, qua riportata con acqua che riempie i due abbeveratoi o lontri per dissetare gli ovini, i caprini, gli equini, i canini, ecc.. I cugini con cui giocavamo spesso erano i 5 figli di zio Raffaele e i 4 di zio Filippo, poi emigrati a Toronto. La portata d’acqua del fosso o Canale Pace e del fiume Sava era massima in primavera, con lo sciogliersi delle nevi a monte, e minima d’estate, quando il fosso e il fiume diventavano secchi, ma pronti ad inondare dopo temporali con piogge abbondanti le terre limitrofe e le Starze : toponimo derivante da antico convento e masserie in pianura dove i monaci Benedettini bonificarono i terreni di Gallo Matese come altrove poiché quell’ordine monastico così faceva. Per gli aspetti economico-sociali, oltre a quelli già accennati delle proprietà dei miei nonni, che erano fratello e sorella (Giuseppe e Maria Palma Pace) attraversate dal Fosso-Canale, c’è da dire che i terreni erano abbastanza fertili, l’acqua non mancava e la rotazione agraria per i raccolti agricoli veniva praticata bene. Vi erano terreni pascolivi e adatti per coltivare patate, cereali come la segale, foraggere come la lupinella ed erba medica e pure gli ortaggi. Sui monti del Matese come su altri monti boscati per coltivare più terra si sono ricavati dei piccoli campi o campitelli.

Per Roccamandolfi i moltissimi boschi di faggio in passato hanno subito contrazioni delle superfici boscate ogni volta che si poteva fare spazio a destinazioni d’uso del territorio ritenute più redditizie. Anche Letino ha un Campitello oltre al più rinomato Campitello nel territorio del comune di San Massimo (CB).  Il lasciare il terreno utile ai piccoli campi o campitelli è accaduto per favorire l’agricoltura, che è stata esercitata soprattutto dopo la scoperta dell’America e l’importazione di patate andine. Si è strappato terreno coperto da boschi in zone non adatte alla coltivazione agraria, a parte la segale, da cui i roccolani, come i letinesi, traevano grano e facevano il pane di casa. “Punti di attrazione turistica del Matese” è la relazione che lo scrivente svolse alla CCIAA di Campobasso nel 1994 e citò anche Roccamandolfi, oltre a tanti altri paesi matesini molisani e campani. Lungo la strada che da Bojano conduce all’eremo di Sant’Egidio c’è origano spontaneo a iosa, come anche nelle vallette d’alta quota a ridosso della cima di monte Crocella. A Letino le piante da frutto eduli erano poche ad eccezione di ciliegi, susini e di uno “storico” pergolato di uva fragola. Quest’ultimo è ancora esistente, davanti alla masseria del Canale di Pace. Si situa all’altezza della porta della cucina e di quella laterale con scala interna per accedere alle due camere da letto del piano rialzato. Il pergolato non si estende su tutta l’aia con le laterali 3 stalle ad Est del piano terra e con sopra i fienili. Lo stazzo degli ovini, murato di forma ellittica e senza tetto, accedeva sia all’aia, con un cancelletto, che all’interno della scala con porta laterale. Su quello stazzo del Canale di Pace, una donna letinese (cugina di VI grado, maritata e vivente a Piedimonte Matese) mi riferì di aver sentito dire da alcuni letinesi che vi era apparsa la Madonna! A darle credito non mi è stato molto difficile perché di storie familiari ne erano state intessute tante e per tempi lunghi in quella masseria. Dove ci sono molte persone c’è anche qualcosa di scacrale innato che si manifesta, di tanto in tanto o in sonno, e in quella realtà attuale: spopolata ed abbandonata. I miei genitori piantavano, con due piantatoi, le patate letinesi. Le patate da ripiantare venivano scelte tra le gemmate nel mucchio dov’erano state depositate in autunno. Molte patate venivano prodotte in località “Capo la Sava”, che era una dolina carsica pèiù lunga ovest-est che larga Nord-Sud. Là, mia mamma  possedeva due tomoli di terreno, uno ereditario materno e un altro avuto da una parente emigrata in Argentina. Le moltissime patate prodotte, venivano trasportate a dorso di asino. Venivano portate alla masseria del Canale di Pace e alla casa di Letino.

L’abitazione letinese era in via San Giovanni sotto al palazzetto di Pietro Orsi- detto Pac Pac-, fratello di mia nonna paterna. Ricordo bene Zio Pietro Orsi, riparare il tetto della nostra masseria al Canale di Pace coadiuvato da mio padre. Il trasporto delle patate da “Capo la Sava” però non avveniva a settembre subito dopo averle scavate con la zappa, ma nei mesi invernali, quando i lavori dei campi erano sospesi. Il prezioso tubero di solanacee in grande quantità, veniva conservato in grosse buche incustodite e scavate nel terreno come una sorta di “cantinole naturali”. Le patate depositate a mucchio, venivano ben coperte per evitare che gli animali selvatici mangiassero le utilissime patate familiari, che a Letino si barattavano con olio e cachi, commerciati da mio padre, che usava i muli con il carretto e poi, se era il caso, affittava un camion. Nel barattare tali merci mi faceva aiutare da giovanissimi coetanei come il citato Luigi Orsi, Antonio Tamburro, Giovanni Ferritto, Michele Vaccaro e suo cugino, ecc. Alcuni anni d’abbondanza di produzione del prezioso tubero di solanacee, i 6 figli di mio nonno materno Antonio Fortini (morto a 68 anni il 2/10/1955, ero presente alle esequie nella chiesetta del cimitero letinese), che avevano più tomoli di terreno a Capo Sava depositavano le patate in una buca vicina al pagliaio dell’anziano Giuseppe Di Stavolo. Questi possedeva l’abitazione a Letino, confinante a Sud con quella della famiglia di mio nonno materno: ultima casa in alto che conduceva al cimitero, posto nel castello medievale; oggi c’è una nuova strada che conduce al cimitero in automobile, parte da piazzetta San Giovanni, passa per il Perrone e poi aggira l’abitato sul crinale, lambendo il terreno di Antonio Fortini fu Venanzio, fino al camposanto. Prima degli anni Settanta i morti letinesi si trasportavano a piedi, portati a spalla da 4 familiari, e passavano davanti alle due case suddette e ultime a destra, salendo verso il cimitero. Nel 1961 il perito agrario Vincenzo, fratello del prete don Alfonso De Balsi e docente presso l’Avviamento Agrario di Letino, ci insegnò la pratica agronomica della messa a dimora di un’asparagiaia, realizzata vicino alla casa canonica letinese, il debbio (consisteva nello sbriciolare le zolle d’argilla poste a cono, dopo il maggese, e nell’accendervi il fuoco al di sotto) e la concimazione dei terreni con concimi sintetici. Un sacco di concime fu utilizzato su mezzo tomolo di terreno al Canale di Pace, per il grano duro della varietà Cappelli, dallo scrivente, che notò la maggiore quantità prodotta rispetto al mezzo tomolo accanto concimato con il letame tradizionale, che egli a febbraio spandeva sui campi e nell’orto della nonna paterna. Il frumento Cappelli, nonostante fosse alto (circa 150 cm), tardivo e suscettibile alle ruggini e all’allettamento, ebbe grande successo in Italia e a Letino sul Matese più alto, grazie alla sua larga adattabilità, alla sua rusticità e all’eccellente qualità della sua semola. L’introduzione di questa cultivar determinò l’aumento delle rese medie da 0,9 t/ha del 1920, ottenute con le vecchie varietà locali,  a 1,2 t/ha (a Letino la resa era decisamente più bassa per il clima meno favorevole) alla fine degli anni Trenta. Dagli anni Venti agli anni Cinquanta del 1900 fino al 60% della superficie nazionale a grano duro era coltivata a Cappelli, che si diffuse in seguito anche in altre aree del Mezzogiorno nostrano e in altri Paesi mediterranei. Oggi a Letino, nessuno più fa il pane di casa e le ragazze non sono più obbligate a saperlo fare e cuocere bene, altrimenti non trovavano facilmente marito fino agli anni Cinquanta. Il 13 giugno, io e mio fratello Antonio insieme alla nonna paterna, andavamo a Gallo Matese, a piedi per la via delle Starze, a festeggiare Sant’Antonio. Là, nella festosa piazza centrale, la nonna barattava spesso una piccola pezza di formaggio di pecora con 2 kg di ciliegie di Fontegreca. Le ciliegi le magiavamo  poi alla masseria del Canale di Pace, in cucina, che aveva il forno a legna. Il grano letinese era quello che il Senatore Cappelli, una  varietà di cultivar  di frumento duro, ottenuta dal genetista Nazareno Strampelli (partendo dai grani nordafricani, selezionò una varietà rustica molto resistente e adatta ai terreni del Meridione) agli inizi del 1900 presso il Centro di Ricerca per la Cerealicoltura di Foggia. A Candela il gregge di Giuseppe Pace di Letino e di  “Pastabianca” di Roccamandolfi svernava con la transumanza e portarono, da pionieri, le sementi del Cappelli a Letino e Roccamandolfi, paesetti che avevano ed hanno ancora un pianoro che deriva dal fitotoponimo “Secine” (là dove si coltivava la segale sin dai tempi dei Sanniti-Pentri). Il grano Cappelli viene ancora considerato il padre del grano duro, definito nel 1930 “razza eletta”; è un grano duro rustico, che predilige terreni poveri e argillosi e ha eccellenti qualità nutrizionali e un alto valore proteico; in Puglia tali caratteristiche gli hanno valso l’appellativo di “carne dei poveri”. Quanto al grano coltivato al Canale di Pace, ricordo di essermi tagliato il mignolo della mano sinistra mentre falciavo il grano nel confinante terreno di Orsi Silverio, cugino di mio padre ora sepolto quasi vicino al cimitero di Piedimonte Matese. Mi è rimasto il segno di quel taglio mediano della falangetta del dito mignolo della mano sinistra.  La vasta superficie agricola e pascoliva del Canale di Pace di Letino, nell’attrezzata masseria con stazzo recintato naturale degli ovini e stalle annesse, permetteva di possedere un gregge consistente di ovini con più cani della razza ”Pastore Maremmano-Abruzzese”, di cui uno chiamato “Barone”. Mio padre mi raccontava che da adolescente quando non ubbidiva al padre sul da farsi durante il dì, mia nonno omonimo, di sera, lo mandava a dormire digiuno e dava il pane e companatico al cane Barone, dicendo: “Tieni e mangia, barone mio, perché lo hai meritato, non come mio figlio Luigi”. Una volta, per non essere rimproverato, mio padre, scappò di casa per le alte cime del Matese fino a San Polo (CB), dove fu ospitato dal prete per alcuni giorni.  Mio nonno paterno Pace Giuseppe fu Giambattista e Mosca Dorotea, appariva burbero agli altri letinesi come mi riferì Antonio Tomasone ammogliato con mia zia materna Vittoria ed entrambi emigrati in Argentina. I Pace, del Canale omonimo, avevano a servizio come guardiani di gregge due giovani letinesi, appartenenti a famiglie bisognose che si liberavano di due bocche da sfamare affidandoli a paesani più abbienti che li mandavano a pascolare le pecore, le capre e le mucche in zone vicine così li potevano vedere e proteggere. Uno di loro era Giovanni Cristinzo, emigrato in Argentina prima del 1953, che me lo ha ricordato i visita a Padova 23 anni fa in compagnia di zio Antonio Tomasone e di un giovane letinese, mio coetaneo, pure emigrato a Buenos Aires. Quest’ultimo voleva comprare una pressa per produrre tubi di plastica da vendere agli elettricisti argentini. La pressa la trovammo a Brescia. Ricordavo il coetaneo perché  nel suo giardino a Letino possedeva una grossa pianta di gelsi neri. Egli aveva venduto il terreno ereditato in località “Villa” e dal ricavato aveva comprato la pressa per investire in Argentina. Fu molto incoraggiato all’innovazione da Giovanni Cristinzo, più che dall’altro letinese che conservava più caratteri tradizionali. Mi piace ricordare il monito espresso da mia madre: “chi inciampa e ma non cade fa più strada”, in vernacolo”chi ndroppca e nu care avanza caminu”! Tutto ricordava del Canale di Pace, il “guardiano o garzone” di mio nonno, emigrato poi in Argentina. Mi parlò delle località “Fontanelle”, della stradina che costeggiava quella fontana, lungo la quale conduceva le pecore di mio nonno verso Costa del Cerro e Capo la Sava.  Al museo del territorio di Letino in agosto 2009 presentai, invitato dal Comune, il mio saggio:”Letino tra mito, storia e ricordi”, che mi risulta essere il primo ed anche l’ultimo, a parte un altro che tratta solo di organetti e costume tradizionale letinesi, ma scritto da un non indigeno. Quel giorno erano presenti in particolare turisti ed emigrati letinesi in Canada come il mio omonimo con la moglie mia nipote e 2 figli, foto riportata dopo. Li ringrazio, ora per allora, per l’interesse manifestato di conoscere il mio punto di vista sul comune paesetto dal quale siamo entrambi emigrati. Altri non emigrati, hanno altri punti di vista dissimili. Spesso qualcuno, che fa politica locale, lo dice, ad alta voce, al popolo letinese e non ai singoli cittadini autonomi di pensare. Sale sul podio paesano come una sorta di “capobranco”, mentre  scripta manent verba volant e gli emigrati leggono più dei “miei pastori”, non più transumanti. Lo scrissi già nel saggio suddetto e lo ribadisco. Si spera che in futuro i nipoti degli anziani letinesi, più e meglio scolarizzati, siano non popolo ma cittadini, artefici del proprio ambiente e destino.

 

 

 

Giuseppe Pace (autore del saggio “Letino tra mito storia e ricordi”, Energie Culturali Contemporanee Editrice, Padova 2009)

Scisciano Notizie è orgoglioso di offrire gratuitamente a tutti i cittadini centinaia di nuovi contenuti: notizie, approfondimenti esclusivi, interviste agli esperti, inchieste, video e tanto altro. Tutto questo lavoro però ha un grande costo economico. Per questo chiediamo a chi legge queste righe di sostenerci. Di darci un contributo minimo, fondamentale per il nostro lavoro. Sostienici con una donazione. Grazie.
 
SciscianoNotizie.it crede nella trasparenza e nell'onestà. Pertanto, correggerà prontamente gli errori. La pienezza e la freschezza delle informazioni rappresentano due valori inevitabili nel mondo del giornalismo online; garantiamo l'opportunità di apportare correzioni ed eliminare foto quando necessario. Scrivete a [email protected] . Questo articolo è stato verificato dall'autore attraverso fatti circostanziati, testate giornalistiche e lanci di Agenzie di Stampa.