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FONDATA SUL LAVORO? Considerazioni sul fenomeno del Great Resignment

Napoli, 2 Giugno – Siamo tutti più che pronti a cingerci l’un l’altro in un forte abbraccio per eseguire, all’unisono, il “Canto degli Italiani” allorquando si disputano gli incontri della Nazionale di calcio, od in occasione di un anniversario come quello che con immenso gaudio celebriamo quest’oggi; ma…essere Italiani va ben al di là di tutti questi formalismi, sovente inutili: i problemi che, purtroppo, tormentano la nostra popolazione sono ancora pressoché lontani da una concreta soluzione, nonostante la vigenza di princìpi costituzionali e norme di legge a tutela di chi, nonostante gli sforzi immani compiuti, ne deve tuttora pagare lo scotto.

Ieri mattina, una volta destatomi, ho dato, com’è mio costume, un rapido sguardo alle prime pagine dei quotidiani nazionali e locali, fra cui – ovviamente – “La Repubblica”: quanto ho ivi letto in ordine al boom di dimissioni rassegnate da diversi Concittadini ha suscitato in me un malcontento a dir poco intenso, considerate le ragioni che hanno spinto costoro ad agire in tal senso.

Alla luce di ciò, ritengo quindi doveroso esprimere pubblicamente il mio disappunto e svolgere, altresì, qualche breve considerazione sull’argomento, ponendo in evidenza i parassiti che occorre debellare per porre fine – od almeno un argine – a questa triste situazione.

L’articolo 1 della Carta Costituzionale identifica nel lavoro il fondamento della nostra grande Repubblica; tuttavia, oggigiorno trovare un’occupazione che soddisfi le proprie esigenze e, soprattutto, sia retribuita in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (v. l’art. 36 Cost.): poco dopo Natale, ho trovato la città di Pozzuoli tappezzata di manifesti affissi da lavoratori nel settore della ristorazione, molti dei quali si dolevano di esser stati assunti senza contratto (comunemente si dice “a nero”) e sottoposti ad orari di lavoro che vanno ben oltre il massimo stabilito dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Le Autorità e gli esercenti ne han preso atto? Neanche per sogno, anche perché si sa com’è la prassi, in particolare nelle province meridionali.

Eppure, dire un sonoro “basta!” a questo caporalato che si cela dietro l’effigie di un azione generosa è più facile di quanto si possa credere: innanzitutto, occorre, a livello istituzionale, intensificare le politiche attive del lavoro, favorendo un costante contatto fra scuole, aziende, amministrazioni e cittadini e, contestualmente, cessare di ricorrere a forme di assistenzialismo tanto inutili quanto incompatibili con i princìpi contemplati dalla Costituzione (si pensi al Reddito di Cittadinanza – rivelatosi un autentico fiasco -, contrario all’art. 4, comma II, Cost., ove il lavoro è considerato come dovere).

Come ci esorta Goffredo Mameli nel testo dell’Inno Nazionale, bisogna unirsi ed amarsi: in altri termini, cari Lettori, una civitas può vivere pacificamente soltanto laddove regnino il rispetto reciproco e lo spirito di unità, il che si traduce nel metter da parte i propri comodi e pensare anche alle necessità dell’altro, senza far cadere quest’ultimo nello sconforto e nella frustrazione.

Se ci battessimo per il pieno rispetto della normativa in materia di lavoro così come alcuni gruppi di imbecilli si sono ribellati alle disposizioni tese a contenere la diffusione del Covid, l’Italia tornerebbe ad essere un’autentica res publica. Pensiamoci su: ne va della nostra dignità!

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