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Sant’Agata dei Goti, “Attraverso i conflitti: un’esperienza di giustizia riparativa”. Incontro con Agnese Moro e Adriana Faranda

Sant’Agata dei Goti, 17 Ottobre – Martedì 16 ottobre 2018, in occasione della 1° Giornata Regionale Commissione Giustizia e Pace, presso la Concattedrale di Sant’Agata de’ Goti, si è tenuto l’incontro “Attraverso i conflitti: un’esperienza di giustizia riparativa”, che ha avuto come trama principale il confronto tra la figlia del compianto leader democristiano Aldo Moro ed un’ex-brigatista Adriana Faranda.

Una prima introduzione è stata fatta dal sindaco di Sant’Agata de’ Goti Carmine Valentino che ha rivolto saluti di ringraziamento a quanti sono accorsi per assistere al confronto fortemente voluto dal vescovo Monsignor Domenico Battaglia e da tutta la Diocesi di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti. Una guida illustrativa all’evento è stata fatta poi da Monsignor Giovanni D’Alise vescovo di Caserta, delegato Settore P.S.L. al quale è seguito un intervento del moderatore Padre Guido Bertagna: ” Vi proponiamo quest’oggi, con questo incontro un centro collettivo per riaprire una narrazione ampia e polifonica, di dolore, in modo tale da aprire uno spazio per raccogliere le memorie degli altri. Non è mai facile per una persona che porta per anni in solitudine un immenso dolore, un confronto con qualcuno che le ha strappato un affetto molto caro. Ed ecco perché la polifonia”. A seguire l’intervento della figlia di Aldo Moro, Agnese Moro, scrittrice: “Si nota sempre più una grande disumanità relativa alla modalità di come vengono dette oggi le cose. La morte, l’uccisione, non chiude la vicenda, ma al contrario apre solo altri scenari. Io sono molto allergica alla parola “perdono”. Ha in sé un sacco di fraintendimenti. Voglio solo dire “basta”. Questa parola, per quanto mi riguarda, fa aprire una porticina che fa intravedere tante persone pronte ad aiutarti. C’è solo una domanda che fa male più di tutte, una domanda senza risposta: Come hai potuto? Come hai potuto svegliarti una mattina e andare ad ammazzare una persona?”.

Poi l’intervento più atteso, quello dell’ex-brigatista componente del commando che rapì l’Onorevole Moro, Adriana Faranda: “Bisogna non tirarsi indietro, continuare ad ascoltare. Io non ho mai rimosso nulla della mia vita. Dentro di me mi sono sempre considerata una persona che ha sempre vissuto tutto. Non ho mai avuto improvvise rivelazioni, ma sono andata sempre per passi graduali. La cosa che secondo si considera poco, è la ricostruzione della relazione con la comunità che ci circondava, una comunità con cui all’epoca sentivo di aver rotto il legame. Tu ti senti responsabile di cose che hai fatto, c’è una sorta di predominio del passato. Le persone che hai distrutto con la violenza delle armi portando via loro le persone più care grazie a noi che abbiamo fatto delle scelte “traumatiche”, rimarranno per sempre traumatizzate. Ritornare indietro dopo scelte di questo tipo non è mai semplice. Ci sono delle cose che sono state compiute, eventi accaduti che non possono essere rimessi a posto. Questa è una cosa terribile che genera una sensazione terrificante, perché comunque hai contribuito ad azione che, con gli occhi di oggi, giudicherei abominevoli. L’uccisione di un prigioniero, di una persona che hai tra le tue mani, è un’azione che sotto qualunque punto di vista non è accettabile. A questo punto posso dire di aver guardato in faccia la violenza in sé. Avrei potuto fare di più. Non lo so. Non riesco a valutarlo. Guardare Agnese negli occhi, empaticamente ti fa render conto di tutti gli errori che hai commesso.”.

Concludendo poi ha sottolineato di come sia importante il dialogo al fine di instaurare discorsi di pace. Le conclusioni sono state fatte dal vescovo della diocesi Monsignor Domenico Battaglia, il quale ha espresso: “Ho voluto questo incontro stasera insieme a Don Giovanni D’Alise ma insieme anche a tutta la conferenza episcopale campana, per riflettere sulle piaghe che affliggono il territorio della nostra diocesi, le quali stentiamo a denunciare, a riconoscere, a chiamare per nome. Noi come Chiesa, come ho ripetuto più volte, non possiamo tacere dinnanzi ai tanti corpi sfigurati dal dolore e dalla sofferenza, di fronte al male e all’ingiustizia da qualunque parte provengono, noi non possiamo essere neutrali. Pur coscienti però dei nostri limiti e delle nostre fragilità siamo chiamati ad alzare la voce e a prendere posizione.

La violenza è sempre menzogna, che mortifica l’esperienza umana contro la verità della nostra fede, contro la verità della nostra umanità. Ogni volta che il sangue innocente viene versato, siamo chiamati come credenti, cristiani, a testimoniare la profezia della nonviolenza, attraverso segni contrari alle logiche del nemico e dell’indifferenza. Se vogliamo chiamarli per nome segni alternativi al sistema Caino, al sistema Erode, al sistema Pilato. Come non pensare all’esempio delle vittime di soprusi, usura, estorsione ad opera della criminalità organizzata, vittime sociali e di sistemi. Come non pensare alle ingiustizie del mondo del lavoro, alle persone sfruttate. Lo sappiamo bene che non c’è giustizia senza lavoro e non c’è lavoro senza giustizia. La parola legalità cammina di pari passo con un’altra parola: responsabilità. Sto dicendo queste cose perché come cristiani non possiamo voltarci dall’altra parte e far finta di niente e non sapere che i portatori di pace sono i figli di Dio. La nostra terra ha bisogno di testimoni di speranza.

La ricerca di giustizia è esercizio continuo di coscienza. Se non si riscopre il fondamento etico della giustizia, anche parlare di diritti, sarà per salvare i propri diritti, a prescindere dalla vita dell’altro. Ci sono state leggi nella storia che sono state scellerate, non hanno difeso i deboli come nell’antichità il delitto d’onore ed oggi il reato di clandestinità. Non è giustizia emarginare il diverso, lo straniero in nome della salvezza. Abbiamo bisogno di leggi che sappiano restituire dignità alle persone. In tutti i tribunali vi è scritto che la legge è uguale per tutti. Nel mio cuore questo non è scritto. Il quinto comandamento recita: “Non rubare”. Ma che differenza c’è quando a rubare sono i poveri per mangiare o i ricchi per abusare? Dobbiamo chiederci se legalità e moralità camminino in modo congiunto o si stanno progressivamente divaricando.

Dico questo perché c’è una spiritualità della pace che dovremmo recuperare e che ha come radici proprio la ricerca della giustizia e del bene comune. Dobbiamo ripartire qui ed ora dalla comprensione dei valori in gioco perché sono convinto che, la convinzione che siamo tutti a condividerli, è una mera illusione. Impedire alla giustizia di diventare vendetta, è la prima sfida a cui siamo chiamati. Io sono uno dei tanti testimoni delle fatiche, della ricerca di senso, del rimettersi in gioco di chi ha sbagliato, sta scontando e ha scontato la propria pena. Il male va sempre segnalato e sanzionato. Non bisogna mai voltarsi dall’altra parte, ma bisogna pensare che la giustizia riguarda tutti e ci riguarda nel senso che ognuno di noi deve ricostruire dentro di sé continuamente quelle basi morali e del rapporto con gli altri”.

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