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Palma Campania, viaggio nella storia. Il fascino del Palazzo Aragonese: racconti di Raffaele Santella

Palma Campania, 22 Maggio –   Passeggiando nei paraggi di piazza De Martino, si può ammirare uno spettacolo di straordinaria bellezza: il Palazzo Compagna, costruito per  Alfonso I d’Aragona, le cui prime notizie risalgono al XV secolo. Tenuta di caccia degli Angioini, si conservavano addirittura alcuni medaglioni di Luca della Robbia. Una preziosa miniera di affascinanti ricordi e conoscenze, è Raffaele Santella, uno dei proprietari del palazzo, noto per la sua attività di commerciante d’esportazione. ”Ho portato avanti – puntualizza Raffaele aggrottando la fronte – l’attività di mio padre Vincenzo”.

In particolare, di cosa si occupava?

“Avevamo una fabbrica di conserve alimentari, a Scafati, chiusa 15 anni fa, ma si occupava anche di floricoltura. Faceva da amministratore a molti contadini di Palma. Espletava la funzione di perito agrario, allora si richiedeva per tale compito un esperto contadino. A quei tempi si usava la famosa “mezzatria” dove i contadini lavoravano e i padroni mangiavano.

Praticamente i proprietari cedevano il terreno e i contadini lavoravano, e alla fine si divideva il raccolto. Il contadino sperava di avere più raccolto per ricavarne qualcosa in più, il proprietario del terreno, assumeva un perito, per stabilire con precisione la divisione. Poi le leggi iniziarono a cambiare, la mezzatria fu dunque vietata. I proprietari dei terreni, a causa delle difficoltà economiche, furono costretti a vendere. All’epoca, i contadini avevano bisogno di un pò di tempo per pagare l’affitto. Potevano farlo in 60 giorni, se poi necessitavano di più tempo, c’era la cambiale agraria, questa, in ogni caso, non era protestabile. Un privilegio che poi risultò comunque inutile, perché alcuni contadini di Palma Campania, di cui preferisco non fare nomi, la giravano tra le mani fino a che mio padre, diceva: ‘torna a casa, non fa nulla…’. La dignità di una volta, per non cadere in errore, portava ad un compromesso amichevole. Avevamo 150 operai, iniziavano il lavoro al tramonto e si finiva quando il padrone decideva di terminare la giornata. Nessun lamento, mai. Si era felici di lavorare e soddisfatti di portare a casa soldi per poter comprare cibo.

Allora non esistevano i sindacati e i diritti dei contadini erano precari. Pensi, ad esempio, all’orario di lavoro: I padroni ne approfittavano a piene mani, costringendo a lavorare anche 15 ore. Posso confermare, però, che ognuno aveva il conto in posta, c’era il senso della misura. Prima di fare un passo, si ponderava ogni cosa, cioè si rifletteva in attesa poi di prendere decisioni importanti. Gli italiani erano delle formiche, i più grandi risparmiatori d’Europa. Mio padre non pagava tanto, ma assicurava loro un piatto caldo che preparava mia madre, quasi tutti i giorni. Quasi sempre sette chili di pasta, che conservava anche di sera, perché alcuni operai, spesse volte, passavano da casa sperando che fosse superato qualcosa…. Alle 8,00 si faceva colazione, alle 12,00 il primo piatto. Normalmente si preparava pasta e fagioli, pasta e patate, accompagnati da ‘na bella bottiglia di vino’, per ricaricarsi.

Si trasportavano sacchi da 100 kg, non come adesso che quello più pesante è di appena cinque. Esportavamo sacchi di patate da 50 kg, li si caricava sulle spalle per poi salire 5 scalini. Oggi vanno di moda pantaloni con stoffe cuciti alle ginocchia, ai miei tempi si possedeva un solo pantalone e quando si strappava si ricuciva, ovviamente per non buttarlo, non come l’enorme spreco che si fa ai nostri giorni. Mi viene in mente un signore, dal nome emblematico: “Peppe cento pezze”, abitava salita Bel Vedere, lavorava con noi. Ricordo che addirittura si strappava il pantalone in diversi posti. Luigi Carrella, detto “Tote”, proprietario del seminario dietro le scuole, in via S. Felice, che ha costruito la chiesa Materdei. Possedeva otto masserie, una anche a Saviano, attualmente ospizio per i poveri e una banca privata, sempre a Palma. Una persona così importante che, addirittura c’era la fermata della vesuviana all’interno della masseria. Ad una certa età decise di istituire un seminario per i ragazzi poveri, affinchè potessero studiare, ma anche un seminario per monache. A lui si deve il merito della costruzione del primo asilo nido”.

Ricorda l’anno della costruzione?

“Certo, –  afferma gonfiando il petto Raffaele Santella, – era il 1908. La sua cappella, oggi modificata, era disposta a cassettoni, in genere riservati ai preti, si trova alla destra dell’entrata del cimitero. La pietra utilizzata, la fece arrivare dalla Sicilia, ed è la stessa pietra utilizzata per la costruzione della “Valle dei Templi” di Agrigento. Costruì un istituto, “I servi di Maria”, che donò ai preti, situata proprio nella masseria di mio nonno. Ma l’aspetto più impressionate, è il fatto di aver venduto tutto ai preti, compresa la masseria di mio nonno. Non c’è più niente, al posto del palazzo che fa angolo con via Mauro, dovrebbe nascere un albergo. Io e i miei fratelli siamo nati in questa casa, nella camera da letto di mio nonno. Una casa che mio nonno donò a mio padre e mio padre successivamente a me. Un legame affettivo molto forte, così viscerale che ho voluto restaurarla. Il lavoro di restauro è durato 5 anni, ho investito tanti soldi in una casa così grande e vuota. Per un periodo di tempo ci abitava anche mia figlia”.

Ci vuole raccontare qualche episodio della sua infanzia?

“I miei ricordi d’infanzia sono concentrati quasi tutti davanti al camino. Ricordo con nostalgia il fatto che a quei tempi non si usciva spesso. A casa venivano i fratelli di mio padre, parlavano ore intere di ricordi passati. Si fermana molto spesso anche il professore Stefano Nappi che insegnava al Genovese a Napoli, e visto che non era sposato, abitualmente, di sera passava per casa e qualche volta si fermava anche a cenare. Ricordo ancora il dottor Romano, anche lui non trovò moglie, e insieme a mio padre Vincenzo, furono i promotori della scuola agraria a San Gennaro Vesuviano. L’Istituto doveva essere costruita a Palma Campania, caso volle però che mio padre non trovò un pezzo di terra abbastanza grande per tale scopo. Mi accanivo ad ascoltare i discorsi che facevano i tre fratelli Ciccio, Pasquale e Ferdinando, proprietari del vecchio mulino posizionato in via Ferrari, angolo con via Mauro. Il primo fratello, di nome Ciccio, non era sposato e anche lui si univa alla vivace compagnia serale. Morì giovane, meno di 60anni. Gli altri due fratelli, non seppero continuare il lavoro al mulino e furono costretti a chiudere. Mio nonno, dopo il 1915/18, adempiendo al suo dovere, controllava la frutta secca che partiva per innumerevoli destinazioni. Negli anni 50 gli aerei si lubrificavano con olio di ricino, e per trasformare l’olio di ricino ci voleva addirittura un’autorizzazione dallo Stato. Mio padre fece un contratto con una fabbrica di Milano, e poi successivamente si accordò con i contadini di Palma Campania, San Giuseppe Vesuviano, Striano e altri paesi, per la coltivazione. Faceva 30 quintali di semi di ricino all’anno. Ricordo un altro interessante particolare: nel momento in cui il Comune di Palma faceva il censimento, venivano da papà per avere la certezza dei vari proprietari terrieri.

Ricorda chi sono i proprietari precedenti?

La Baronessa Vincenza De Fazio, detta “Baronessa Compagna”, scomparsa nel ’43, parente del Governatore De Fazio proprietario della Banca d’Italia, originari di Cardito in provincia di Frosinone, un piccolo paese di 3000 abitanti. Sposata con il Senatore Pietro Compagna, scomparso nel 1904, molto più grande della baronessa. Con il tempo, i figli iniziarono a vendere parte del palazzo, mentre la baronessa, si raccolse in due semplici stanze dove svolgeva la sua vita. Mio padre comprò inizialmente tre quote attraverso i figli della baronessa Campagna, poi successivamente anche altre. In seguito riuscì ad avere un contratto scritto da un figlio del principe di Saluzzo, il quale aveva preso in moglie una ragazza di Casola.

Questo feudo aveva circa 150 contadini che non pagarono il fitto della terra. Conservo ancora un manoscritto, con tutti i nomi dei contadini inadempienti, cinque anni di affitto arretrato. Era un Feudo che arrivava fino a Terzigno. A quel tempo era il più grande in Campania. Nel 1936 mio padre venne ad abitare nel palazzo Aragonese, costruì un bagno, con le fogne assorbenti, e un forno a legna, per fare il pane. Ricordo che non c’era l’acqua in paese. Era necessario, per tutti, prendere l’acqua in piazza, mentre noi, avevamo la preziosa comodità di un rubinetto da girare… Il nostro giardino confinava con quello di De Martino, legati da un ottimo rapporto con mio nonno, Aniello Santella, e On Placido De Martino, professione medico, il quale però non svolgeva la professione perchè appunto era un facoltoso proprietario di molte masserie. A quei tempi, svolgere una professione era mortificante. Pensi che erano proprietari di un pozzo e davano l’acqua a tutto il paese, non essendoci l’acquedotto.  Ricordo che si formava una fila incredibile per poter portare l’acqua a casa. Tempi davvero difficili –  sottolinea l’anziano imprenditore Santella –  le generazioni d’oggi non conoscono i sacrifici che si affrontavano a quei tempi. Solo a fine anni 60 si costruì l’acquedotto che deriva dalla foce. Anche a Castello l’acqua veniva dispensata attraverso un camion-cisterna.

Ricorda chi furono i proprietari prima della baronessa?

Certamente – sottolinea Santella –  il proprietario era il principe Di Saluzzo, duca di Corigliano Calabro, possedeva un Castello ereditato dalla moglie, e un altro anche in via San Domenico Maggiore, uno dei palazzi più belli di Napoli, dove oggi vi é l’università con un affresco mozzafiato. Mio padre mi raccontava che sono stati gli unici in grado di ristrutturare il palazzo. Ricordo ancora che mi diceva quanta bellezza, quanta intelligenza possedeva la baronessa De Fazio. Una donna riservata, amante dei fiori. Erano 150 le varietà di rose che aveva nel suo giardino, le faceva arrivare direttamente dalla Francia. C’era anche la Magnolia, a quei tempi una pianta pregiatissima. Avevo i miei 12 anni, insieme ai miei compagni di scuola, portavano questo fiore all’unica trattoria del posto. La proprietaria si chiamava “Onna Rosa chiano chiano”, lei adornava i tavoli con i fiori della maglia. Con quei soldi, ricordo che guadagnavo le mie prime 100lire, andavamo al cinema. L’aspetto interessante era l’arte della conservazione, non si buttava niente.

Quando si rompeva un piatto, passava l’ambulante e faceva i laboriosi aggiusti, recuperando così il piatto. In pratica si foravano e si aggiungevano ciappe di ferro. La vita adesso è frenetica, ai miei tempi, invece, il mezzo di trasporto abituale era il cavallo, e per andare a Napoli, impiegavamo ben quattro ore. Dopo gli anni 60, ci fu la ricostruzione, gli americani aiutarono l’Italia, grazie ad Alcide De Gasperi, di cui, non se ne parla, direi quasi dimenticato. Fu senza dubbio uno dei migliori politici del mondo. De Gasperi fu Presidente del Consiglio, prima di lui ci fu Enrico De Nicola. Papà raccontava che De Gasperi, dovendo recarsi  in America, si fece rivoltare il cappotto vecchio, rendendolo presentabile….Questo episodio attirò su di sé non poca ilarità…Giunto al parlamento americano, fece un discorso così intenso e conciso, che ebbe 18 minuti di applausi! Aveva conquistato tutti, tornando in Italia con il piano “Marshall” “.

In cosa consisteva?

“Il piano Marshall era un accordo di 15 anni, l’America stanziò a favore dell’Italia una grande somma di denaro per avviare la ricostruzione post-bellica, da quel momento, infatti, ci fu il boom economico. Oggi sono qui, in questa casa enorme, immerso nei miei sterminati ricordi…”.

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