Cultura

Omaggio a Letino e annotazioni sul Castello con il camposanto interno

Napoli, 17 Dicembre – La memoria ci fa intravvedere il filo che tiene unite le pagine della vita di ognuno di noi e del nostro tempo. Tutti noi pur avendo un’agenda fitta di impegni, più di qualcuno cerca di equilibrare l’amore per le persone care e la vita personale con quella che esige l’attenzione amorevole per la res publica. Se prevale solo il primo amore non si hanno mai le condizioni di raccogliere documentazione, scrivere il vero: ci vogliono concentrazione, tempo, pazienza, come sperimentano bene tutti coloro che vogliono scrivere anche un libro e non un più leggero articolo sia pure non breve. Ciò premesso mi pare di poter dire che forse in Europa nessun castello medievale ospita i defunti come avviene da 131 anni nel comune, dal territorio montano, di Letino. L’impressionante-analogamente all’impressionismo di E. Munch- castello medievale di Letino, è collocato a 1200 metri di quota sulla cima di un rilievo da cui sovrasta le valli alte del Sava e del Lete per controllare strategicamente i passaggi verso l’altopiano matesino. Esso è un esempio di notevole interesse per la straordinaria ubicazione paesaggistica, con il borgo posto un po’ più in basso del castello. L’interesse, fuori dell’ordinario, è anche per l’ esistenza dentro la cerchia muraria (Alife ha il castello dentro le mura romane), conservatasi per quanto riguarda il suo perimetro, sia pure ristrutturate nel tempo. Dentro al castello c’è il camposanto o cimitero ben determinato sebbene esiguo e funzionante per i morti a Letino da 131 anni. Nell’approssimarsi delle feste natalizie la memoria mi rimanda ai tanti focherelli che da Natale all’Epifania noi giovanissimi, accendevano nelle varie piazzette di Letino. Anni fa vidi che anche a Prata Sannita, nella piazzetta posta sotto al castello medievale, vi era acceso un grande fuoco di Natale che durava fino a Capodanno. Il castello di Prata S. non lontano da quello di Letino mi induce a tentare un approccio di studio, non architettonico né ingegneristico, ma di Ecologia umana. Come scrissi nel saggio ”Letino tra mito, storia e ricordi” Energie Culturali Contemporanee, Padova 2009, il piccolo comune di Letino, tra Molise e Campania, somiglia più a tanti paesetti molisani che campani. Ciò per vari aspetti economico-sociali i cui dettagli non sono difficili da verificare. C’è anche da dire però che dall’epoca della diffusione del cristianesimo (dopo Costantino che estende all’impero di Roma la nuova religione monoteista che sostituirà quella politesita precedente), Letino è appartenuto sempre alla Diocesi d’Alife e non d’Isernia come il vicinissimo paesetto di Gallo Matese. Ne consegue che l’influsso campano tra i letinesi è presente non poco sia per alcuni vassalli nobili di Prata Sannita, Alife, ecc. che per l’apporto della dottrina cristiana dei sacerdoti formatisi anche e soprattutto al seminario d’Alife-Piedimonte Matese che altrove in Campania. Il carattere dei letinesi è più spigliato di quello dei comuni contermini e forse l’origine greca ne potrebbe spiegare alcuni tratti. I vicini gallesi venivano appellati “Toschi” sia perché emigravano anche negli USA-i letinesi emigravano altrove- che per apparire più mansueti del letinesi. Sull’isola greca di Tinos, delle Cicladi, forse si potrebbe vedere qualche similitudine con il costume tradizionale di Letino, anche se con panni diversi per il clima letinese è più di alta montagna e non mite come a Tinos. La Magna Grecia in Campania è iniziata ad Ischia per poi fondare Neapolis (Napoli) e chissà che successivamente la piccola corte reale della principessa Letizia, fuggita dalla Grecia per l’espansione dell’impero Ottomano, non sia poi capitata nell’alta valle del Lete e trovando giovamente e benefici dalla prodigiosa acqua del Lete, decise, forse per sempre, di restare lassù, dando il nome al fiume e al paesetto di Letino. Si fermarono dapprima a Santa Maria dell’Arco, in località Secine, poi i discendenti migrarono a San Pietro ed infine nell’attuale abitato letinese integrantosi con i pastori della transumanza verticale e con un originario gruppo sannitico che faceva capo alla capitale Pentra di Bovianum Vetus e poi alla romana Bovianum Undecumanorum. Con la conquista longobarda delle pianure del pedemontano matesino con distruzione e sostituzione di ciò che era romano nel VI sec d. C., a Letino ripararono alcuni possidenti e nobili romani? Perché no, lassù i longobardi giunsero dopo, nel VII-VIII sec. e costruirono il castello sul cucuzzolo della montagnola a 1200 metri di quota per vedere bene non solo le due valli sottostanti (Sava a Nord e Lete a Sud) ma anche per intravvedere, magari con segnali loro tradizionali, le montagne e colline con castelli di cui costituiva un anello federato. La gendarmeria e il vassallo erano d’origine Longobarda prima e Normanna poi. I sudditi dei vassalli erano indigeni come anche le maestranze del castello sovrastante l’attuale paesetto di Letino, dove risiedono sempre meno letinesi, che nel 1871 e nella prima metà del secolo scorso raggiunsero il massimo di oltre 1300 residenti, mentre i gallesi erano il doppio circa. Poi i primi residenti pastori-agricoltori, si dimezzarono e i secondi si ridussero ancora di più. Emigrarono per lavoro dapprima lontano (Americhe, Australia) e poi vicino: Europa centrale, Italia settentrionale e cittadine del pedemontano matesino con più scuola ed altri servizi sociali. Le strade letinesi più note per uscire ed entrare nell’isolato castello erano quelle che si diramavano dalla porta, più accessibile ad est, che immetteva sul tratturello transumante per San Pietro, Roccamandolfi, Cantalupo del Sannio-Bojano-Altilia. Esso si collegava, da subito, con quello per le Rave di Prata Sannita, di cui esiste testimonianza fossile affianco al reperto geologico a forma di V da cui sversava nella bassa valle il Lete di circa 2 milioni di anni fa, poi si è scavato un ramo interno alla montagna. Dal tratturello di Prata S. si imboccavano bracci per Valle di Prata (attuale Valle Agricola), Ailano, Pitravairano, Alife e Marcianise (dove mio padre portava da piccolo le pecore di mio nonno, omonimo, nel 1926, confermatomi, in parte, nel 2009 da un turista di Marcianise con seconda casa a Letino. Sotto l’attuale paesetto di Letino vi era la Chiesetta di Santa Maria delle Grazie (distrutta dalla nuova strada a sud del paese e che continua per Miralago) con scheletri e resti archeologici perduti del tutto. Un altro braccio tratturale collegava i pastori letinesi con l’antica Alife sul Cila passando per San Gregorio Matese. Delle mura megalitiche e sannitiche del Cila si sta interessando da decenni l’Associazione “Cuore Sannita” con l’Avv. A. Palmieri, G. D’Abbraccio, veri cultori di Archeologia, che riconoscono bene l’antica Alife sul Cila oltre ad avere la percezione della Bovianum Vetus e dei suoi confini a Sud. Sul Cila l’antica Alife sannitica aveva rapporti anche con i Greci come testimoniato dal reperto del V sec. a. C. “Corridore del Cila” posto in museo civico, “Raffaele Marrocco” e davanti al municipio di Piedimonte Matese.

Lungo il Lete vi è ancora la terra di Mammone, cugino di mio padre, nato nel 1915 a Letino e migrato a Piedimonte d’Alife nel 1965. Anche altre comunità civili matesine, come Castellone di Bojano, Prata Sannita, ecc., avevano il “mammone” una sorta di mago o specie di ”santone” della medicina popolare. Sono andate perse anche le case letinesi con torri che ospitavano le famiglie più ricche, dunque importanti, e costituivano un buon rifugio in caso di attacchi improvvisi, prima di correre nel castello sovrastante più inespugnabile. Una di tali case con lo stemma araldico sul portone è rimasta in via San Giovanni, dove abitava il nobile Carbonelli, palazzo passato poi ai Caruso (migrato a Campobasso) fino agli attuali proprietari letinesi. Una torre con colombaia è visibile ancora lungo la strada per l’antico mulino, ma nel paesetto qualche casa si differenzia per il portone e la struttura: case dei Cristinzo, Orsi, Mancini, e, vicino al “Cirriglio” (piccolo cerro), c’è quella dei Pace, mentre quelli che abitavano al Canale (mio nonno omonimo e mia nonna paterna Orsi, con 6 figli tra cui mio padre), vicino alla località storica di San Pietro possedevano un’estesa proprietà che andava dal fiume Sava alla fontana di San Pietro. Erano nobili o possidenti soltanto? Fatto sta che nella raccolta Volpicelli conservata nella Biblioteca nazionale di Napoli, del 1650, vi è lo stemma araldico dei Pace, inviatomi da Vito A. Maturo, scriptorum loci di Cusano Mutri. Nessuno dei nobili, conclamati storicamente, e pare sia vissuto a Letino, né vi sia nato e morto, segno che lassù, nel castello o nella casa baronale di via San Giovanni, i nobili erano di passaggio ed anche trovavano più sicuro rifugio quando i Saraceni o altri conuistatori occasionali scorazzavano  e depredavano Alife, Prata, Venafro, ecc.. Se non fosse così dovremmo poter trovare sepolture nobiliari nel territorio di Letino, invece mai nessuna di esse è apparsa, fino ad oggi né è possibile rintracciare i fossili rinvenuti sotto la diga del lago di Letino, ne quelli di San Pietro e Santa Maria dell’Arco alle Secine. Reperti abbondanti di epoca sannitica e romana ne ha Alife vecchia- sul monte Cila- e nuova. L’Alife attuale, in pianura, ha una storica fontana davanti la cattedrale con 4 cannelli e lapidi di vari periodi storici a partire dall’Alife sannitica cha batteva moneta come ben rappresenta con logo, S. Capasso, erede della storica banca alifana, buon mecenate anche di borse di studio scolastiche. Alife è una cittadina con molti professionisti, artigiani, artisti, aziende che commerciano e producono e straricca di storia sociale (sannita, romana, medievale, moderna) poco valorizzata o meglio sotto valorizzata nonostante musei, biblioteche e scuole.

Forse è la poca cultura civica ricevuta anche se non manca la passione per la res publica con liste che si accapigliano per conquistare il Municipo, ma di ciò ha scritto molto, circa un secolo fa, il colto sottoprefetto alifano, Pietro Farina che relazionava al prefetto di Caserta il dominante comportamento tribale nel condurre la res publica.

Non pochissimo, purtroppo, è rimasto attualmente di quella mentalità antica, quando la scuola non era di massa e il suddito si accontentava d’essere tale senza aspirare ad essere trattato da cittadino come dovrebbero fare d’obbligo tutti o almeno quelli, senza attenuanti, scolarizzati anche oltre le scuole dell’obbligo.

Dei preti assegnati dalla suddetta Diocesi alla parrocchia di San Giovanni di Letino, nel saggio suddetto ne citai, in particolare, uno, Don Antonio Gallinaro, nativo di Montecorvino Rovella (SA) che ci ha lasciato la bella poesia a rima baciata “Letino”, non ancora musicata e cantata da alcuno, ma merita perché cita il Lete, il mito del fiume e i pastori artefici del proprio ambiente e paesaggio architettonico urbano. L’uomo, artefice e non solo spettatore passivo del proprio ambiente, indica anche evoluzione culturale dell’Homo sapiens. Il ministro di culto cattolico A. Gallinaro, in nove anni circa di missione nella parrocchia di San Giovanni il Battista di Letino, aveva capito l’indole più acerba dei Letinesi per l’iniziazione cristiana, causata dall’origine montana con più isolamento da altre comunità, l’influsso dei Longobardi con altri culti della loro religiosità, eccetera, eccetera. Con ciò non si vuole dire che Letinesi non siano dei buoni cattolici, ma, mediamente, non sono praticanti, né sudditi acritici di possibili dottrine religiose. Queste ultime spesso potrebbero tendere a concedere poca libertà al pensiero del montanaro di una società quasi autoctona nell’alta valle del Lete con molti, giovani e meno giovani, soldati locale, impegnati nella seconda guerra mondiale (1940-44), il quale ha già sperimentato le asperità vitali e ha tratto già delle deduzioni prima di ascoltare il nuovo ministro di culto religioso, che se è bravo riceve consenso, se non lo è, invece, non facile è la finzione per gente che ha in sé un’eredità culturale ricca anche di quella Sannita-Longobarda, Normanna-Angioina, Aragonese, eccetera.

L E T I N O

(di A. Gallinaro, parroco a Letino dal 1936 al 1944)

 Bellissimo è Letin paese / il più alto del Matese

fabbricato è sulla roccia / dove la nebbia non approccia.

Chi lo vede di prospetto / dice: “ma chi fu l’architetto?”

Con impegno e gran sudore / l’architetto fu un pastore.

Il monte è quasi conico / ma fu l’architettonico

Con ingegno e gran fatica / l’adatto’ a casa antica.

Ai suoi piedi c’è il bel Lete / pien di trote chete chete

Che prender si fanno / senza tempo e senza affanno.

I suoi boschi son tutti faggio / e son pieni di selvaggio

Lepri, storni e pernici / fanno i cacciatori felici.

D’inverno è quasi freddo, / ma d’estate è tutto verde

e la sua bella vista / piace molto al turista.

E’ qui che fa posa / per almeno due tre mesi,

poi a casa sua ritorna / ed al suo lavoro si aggiorna.

Armentizia e agricoltura / sono buoni per natura,

tutto vogliono comprare / perché piace lor mangiare.

Una donna di nome Letizia, / adesso sto a darvi la notizia

Qui un giorno si fermò / e Letino il paese chiamò.

Gli altri preti non hanno brillato oltre le normali funzioni religiose apprese in seminario anche se alcuni, nella prima metà del 1800, si opposero al nobile Carbonelli per difendere i pastori che non volevano pagare la fida dei pascoli feudali.

 

 

 

 

 

Carbonelli scrisse al Vescovo d’Alife di richiamare i preti letinesi al fine di curare solo le anime e non altro. Negli anni Cinquanta e Sessanta del 1900 fece eccezione Don Alfonso De Balsi, nativo di Sant’Angelo d’Alife, che ha lasciato un segno indelebile tra i miei coetanei e paesani letinesi per la sua catechesi informata dalla Dottrina Sociale della Chiesa. A Don Alfonso, quasi 90enne, scrissi un articolo su di un media alifano dal titolo ”Un prete che puzza di pecore” parafrasando papa Francesco che vede i preti veraci se hanno addosso quel tipo d’odore ovino. Leggendo, casualmente, nel sistema digitale, un articolo del venafrano F. Valente: ”I pascoli del Matese ed il castello di Letino”, noto che non ero solo io a scrivere che Letino ed il suo castello non hanno sufficiente documentazione certa. Dunque non feci male a far leva anche sul mito, spesso della tradizione orale degli anziani, e i ricordi personali formatisi fino a 14 anni vissuti a Letino prima di migrare a Piedimonte d’Alife, oggi Matese. Il castello medievale letinese, invece, è d’origine certa sia Longobarda iniziale (VIII sec. come il muro sud della centrale chiesa dedicata a San Giovanni, il Battista) che Normanna nel XII secolo. Il maniero fortificato si erge ancora maestoso a 1200 metri di quota e sul cucuzzolo della montagna, che separa le valli alte del Lete e del Sava. In esso vi è oltre al cimitero anche una chiesetta che l’attuale prete ha voluto Santuario di S. Maria del Castello, Regina del Matese. Il Santuario mariano ha un portale in pietra scolpita in epoche diverse: 1664, 1670, 1705 e 1734. Letino dal 499 d. C. appartiene alla Diocesi d’Alife, mentre Gallo Matese a quella d’Isernia e sia nel territorio isernino che campobassano si confonde spesso Gallo Matese con Letino, errore commesso anche da Trombetta, noto studio fotografico molisano. A Letino, forse, il culto mariano per la Madonna del Castello fu esportato da quello alifano per la divinità femminile di Giunone, venerata tra porta Roma e porta Piedimonte di Alife vicino a via San Pietro, dove ho abitato alcuni mesi estivi del 1964 quando i miei familiari vi migrarono da Letino prima di rimigrare a Piedimonte d’Alife. Lo stemma araldico comunale letinese richiama il castello turrito e l’ultimo nobile a Letino (1806 anno dell’abolizione feudale) fu Marco Aurelio Carbonelli, che abitava in via San Giovanni nel suo palazzo con portale e stemma. Sembra che il barone Carbonelli divenne duca perché fu uno degli ultimi fedelissimi dei Borboni anche dopo la battaglia del Volturno e fu nominato Ministro di Culto, dal Re, nella fortezza di Gaeta: così mi riferiva il prof. D. B. Marrocco. Altri nobili con feudo di Letino furono i Rainone di Prata Sannita, 118- 1154, Papa Alessandro III, nel 1168 concesse il feudo di Letino alla Badessa di San Vittorino di Benevento nel 1168, poi Don Giovanni Pagano ebbe per quasi un secolo il feudo di Letino col castello e le selve ed ancora con la baronia di Prata dal 1329 al 1540 con Sanframondo, Pandone, Mombel e Lannoi. Poi, dal 1565 al 1774, De Penna e  Matteis furono i nobili del feudo di Letino.

Da una finestrella dei miei nonni paterni vedevo l’alta valle del Sava ed il castello-cimitero letinese da piccolissimo e fino al 1963, dopo migrai a Piedimonte d’Alife per studiare e alle medie superiori capitai con un compagno di classe della casa nobiliare dei Gaetani d’Aragona con feudo dell’alto Matese per molto tempo. La piccola finestra di Letino era posta a sud di una cameretta da letto del secondo piano della masseria, con stalle e stazzo per gli ovini laterali e in località del fossato idrico Canale, affluente di destra del Sava. La masseria del Canale, da cui lo pseudonimo di mio padre Luigi (Letino 1915-Piedimonte M. 1984) aveva ancora l’abbandonato stazzo murato di ovini sul suo lato est. Le pecore, mio nonno paterno Peppino (Letino 1881-1937), le conduceva d’autunno lungo il Tratturo della Transumanza orizzontale tra Pescasseroli e Candela, insieme al gregge di Pastabianca del vicino paese montuoso di Roccamandolfi. I nipoti di Pastabianca a Bojano curano il costume della tradizione, i canterini del Matese. La casa-stalle del Canale era ed è situata vicino alla località di San Pietro nel territorio di Letino, nell’altissima valle de Sava. Il fiume Sava sorge dalla dolina di Capo la Sava nel territorio letinese, riceve piccoli affluenti come Fontanelle, Canale, San Pietro, ecc., e fa da immissario del lago artificiale di Gallo Matese per poi fungere da affluente di sinistra del Volturno in territorio di Capriati al Volturno al quale giunge passando per Fontegreca mediante un inghiottitoio carsico e per il bivio di Ciorlano. Per San Pietro di Letino passava il braccio tratturale che collegava i pastori letinesi al Trattuto Pescasseroli-Candela e lungo tale tratturello potrebbero essere transitati i soldati di Roma per vincere la battaglia di Bojano del 305 a. C. irrompendo a sorpresa nella città, da sud, da porta dei Lontri, ad ovest del monte Crocella. La località letinese di San Pietro, con una fragorosa fontana, è stato il sito del secondo insediamento della comunità antica di Letino, dopo le altre due nell’alta valle del fiume Lete, alle Secine e l’attuale a sud del castello medievale, adibito a cimitero da 131 anni.

Dalla masseria del Canale di mattina, appena svegliato mi affacciavo alla finestrella della piccola camera da letto, dove dormivo con mia nonna e mio fratello Antonio, e ammiravo i monti circostanti con le starze: ampio e fertile pianoro gallese ora occupato dal lago. Lo sguardo si spingeva fino alle vette spesso innevate delle Mainarde. Mia nonna mi apellava ”polentone” perché calmo più che ghiotto di “polenta acconcia” e spesso invocava Sant’Anonio di Padova”bnrittu” (benedetto). A Letino, e ancora di più a Gallo Matese, Sant’Antonio, morto a Padova nel 1231, veniva e viene venerato come anche lo era in tutto il Mezzogiorno. Indubbiamente la descrizione di Virgilio, nel VI libro dell’Eneide, quando scrive del fiume Letè, ben rappresenta il territorio letinese. La Pro Loco “Letizia” fa derivare il nome dal mito della principessa greca Letizia.

Tale principessa con una corte di tutti nobili sfuggiva alle incursioni dei Saraceni e avrebbe trovato rifugio lassù nell’alta valle del piccolo fiume Lete, alle Secine, vicino all’attuale ed abbandonata cappellina di Santa Maria dell’Arco. Da lassù, nella dolina delle Secine, tra i monti del Matese più alto con la vicina cima innevata del Miletto, poi la comunità migrò in località più assolata e dal clima più mite di San Pietro e infine dove si trova ora Letino.

Nell’alta valle del Lete alle Secine, Letizia avrebbe trovato giovamento alla salute dalle acque del fiume e dimenticato gli affanni e i problemi della fuga improvvisa dalla Grecia. Ecco che l’oblio che le acque del Lete danno le avrebbe fatto bene e decise di fermarsi lassù con la corte a seguito. Zio Giambattista Pace, la cui masseria alle Fontanelle pure ho rivisto in agosto c. a., mi raccontava, a 90 anni, questa leggenda che gli anziani di Letino conoscono per tradizione orale. Rivisitando periodicamente (con mio fratello Antonio che conosce più di me i paesani) il castello di Letino e il camposanto, che pochi a Letino chiamano cimitero, sembra di poter dialogare con i tanti morti noti direttamente, ad esempio con Antonio Tomasone, detto “Reggimento”, che ha voluto la personale ed originale dedica: “La vità e una guerra, la morte è la pace”, mentre ad altro, vissuto anche a Piedimonte d’Alife, hanno riportato il monito evangelico: “Vita mutatur non tollitur”, che si rifà al primo prefazio del rito cattolico della messa per i defunti. Richiama il significato cristiano della morte, che viene vista non come la fine dell’esistenza ma l’inizio di una vita nuova e migliore. In proposito il chimico Mendeleev, padre della tavola periodica nel 1800, scriveva che “la vita e la morte non sono altro che una diversa composizione dei medesimi elementi chimici”. Quando si parla dell’aldilà siamo tutti condizionati molto da stereotipi e da opinioni ed ideologie. Nessuno ne è esente perché la sensibilità dell’Homo sapiens è più elevata rispetto alla media degli altri mammiferi placentati. L’anima universale precristiana, ripresa da Virgilio nell’Eneide, per il fiume Lete o dell’oblio, in modo speciale, va rivista con il lume della scienza positivista. Lo scopritore del microchip, fisico vicentino, da decenni negli USA, Federico Faggin, sta sperimentando “La Consapevolezza” delineata nel recente saggio “Silicio”. Egli ha affermato quest’anno, alla conferenza, su invito dell’Associazione “Alumni” dell’Università di Padova, che anche lo spirito va posto sotto la lente d’ingrandimento della scienza e non lasciato solo ad altri saperi umanistici come è successo fino ad oggi. Il primato dell’evoluzione culturale su quella biologica porta il lume della ragione a far luce o almeno a fare chiarore in campi che ieri erano solo della chiaroveggenza della Sibilla Cumana e di tante altre precedenti in Grecia e successive, nonché dei maghi e degli stregoni, che sono ancora in Africa e altrove. Sul Gargano vi erano gli oracoli precristiani e a Sant’Agapito (IS) “ru maone”. Chissà se la mia fiducia nella scienza positivista, venga interpretata positivamente dal lettore, che ha letto o leggerà non tanto i miei lunghi articoli come questo, ma il mio ultimo saggio, “Piedimonte Matese e Letino tra Campania e Sannio”. Saggio voluminoso che è stato letto con interesse, a Piedimonte M., da un giovane laureato in giurisprudenza, con mamma Di Baia e padre Cirioli, e lo ha trovato ricco d’attualità. I miei scritti hanno la presunzione di essere dedicati alla memoria per vincere l’oblio del tempo e per ravvivare il presente anche se per la fretta, spesso, contengono ripetizioni ed errori non sempre voluti. Certo che, per il presente, le critiche velate e delusioni, dei miei non pochi scritti, abbondano e se non avessi l’età che ho me ne farei un cruccio, ma la tenacia, forse ereditata un po’ anche dai miei conterranei, mi aiuta a dire ancora la mia opinione in piena libertà da Letinese di prima formazione. Da piccolo udivo, dalla masseria del Canale, il tipico ululare dei lupi e una volta ne ricordo uno giuntomi a circa 150 metri di distanza e alle mie spalle mentre scendeva tranquillo dalle Fontanelle, e io attraversavo il ponticello del Sava, che non fu valicato dal lupo. Ricordo anche alcuni pastori Letinesi d’inverno con il capo del lupo ucciso, portato, come trofeo, di casa in casa per chiedere il formaggio come premio. Oggi il lupo non fa più paura e Luigi Boitani scrive ”Dalla parte del Lupo”, ma per il lupo la sua catena alimentare non prevede deroghe per l’uomo quando ha fame. Letino era ed è un paesetto montuoso povero e le patate, importate dalle Ande dopo la scoperta dell’America di C. Colombo, hanno sfamato molti a Letino come altrove sulle montagne e colline d’Europa. Il bel costume della tradizione letinese  l’ho visto esposto al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, insieme a quello di Machiagodena (IS). I due magnifici costumi furono donati al Museo Nazionale citato, nei primi anni del 1900, dal colto collezionista svizzero, Ing. Guglielmo Berner, direttore del cotonificio di Piedimonte d’Alife.

Del castello di Letino, ma anche un po’ del paesetto, dal nome del fiume Lete, che ha origine alle Secine, avevo letto sporadici articoli di media ed il libro “La Terra dei Sanniti Pentri” di U. Villani d’Ailano “, dove dall’autore, che citava gli studi e gli schizzi artistici del padre, appresi delle cose interessanti dell’alta valle del Lete. Nessuno sa bene, né forse lo saprà mai, l’origine certa di Letino, ma ciò è comune ad oltre il 90% dei circa 8 mila comuni italiani, l’origine certa ad esempio è di Piedimonte d’Alife che derivò dallo spopolamento del vicino ed antico comune d’Alife, prima vi erano solo sparsi casolari, conventi e ville romane. Per il castello di Letino direi che punti di riferimento più utili potrebbero essere i non lontani castelli di Alife, Caiazzo, Ciorlano, Benevento, Bojano, Pietravairano, Prata Sannita, Roccamandolfi, Sant’Angelo d’Alife, Venafro, eccetera. A Caiazzo il castello longobardo, ad esempio, fu costruito sui resti dell’Arx romana, nel IX secolo era tenuto da Teodorico, conte di Caiazzo. Nel 982 signore del feudo è Landolfo, nel 1029 e nel 1034 i documenti attestano che Landone, conte di Carinola, era anche signore di Caiazzo. In epoca normanna tra i conti di Caiazzo emerge (1070) Rainulfo, che accompagnò a Roma labate Desiderio, eletto Papa col nome di Vittorio III. Con la conquista del regno da parte di Ruggiero II il castello viene dotato di una guarnigione permanente. L’abate Alessandro di Telese ricorda: “il re , salito sul castello, e osservato il vasto territorio che si poteva controllare, decise di fortificarlo ordinando a tutti i maggiorenti di costruire le loro case intorno al castello per dimorarvi assieme a tutti i cavalieri, in modo tale che Caiazzo, già forte per la sua posizione naturale e per le sue mura, divenisse più forte con la presenza di abitanti che esercitavano la milizia”. Tale testimonianza viene confermata dal Catalogus Baronum e dalle pergamene dell’Archivio Capitolare di Caiazzo. Nel 1229, sotto gli Svevi, Caiazzo, assediata dalla truppe pontificie guidate da Giovanni Brienne, fu liberata per l’intervento diretto di Federico II. Il colto imperatore (a cui è dedicata l’Università statale più antica del mondo) soggiornò nel castello, ed ebbe in molta considerazione la città di Caiazzo, che era anche la patria di Pier Delle Vigne (suo prezioso segretario). In un documento pontificio si evince che Caiazzo nel giugno del 1251 entrò a far parte dei possedimenti di Riccardo, conte di Caserta. Con gli Angioini, Caiazzo fu concessa da Carlo I a Bonifacio di Galimberto, per poi passare nel 1269 nelle mani di Guglielmo Glignette. Poi furono padroni e residenti del castello i Sanseverino, e gli Origlia per poi arrivare a Lucrezia d’Alagno che l’acquistò, nel 1461 con l’intercessione di Alfonso I d’Aragona. Nel 1596 il feudo fu acquistato da Matteo de Capua, principe di Conca, e fu durante questo periodo che G. Battista Marino, segretario dei De Capua, compose nel castello di Caiazzo il suo famoso “Adone”. Nel 1607 il feudo fu venduto a Bardo Corsi, patrizio fiorentino, che resse la città col titolo di Marchese fino al 1836 quando gli ultimi discendenti vendettero il castello al signor Giuseppe Andrea de Angelis.

Il castello di Letino è precedente alla successiva epoca Normanna durante la quale fu abbellito il maniero di varie torri e feritoie sul lato nordest, dov’era l’ingresso e dove più facile si sarebbero potute scalare le mura da un’eventuale aggressione nemica oppure di sommossa popolare del sottostante popolo dei vassalli del nobile Longobardo e Normanno prima e altomedievale poi. Dal 1888 il castello di Letino è sede del camposanto, che il compianto conterraneo Sindaco per più legislature, Avv. Luigi Stocchetti, aveva programmato, per valorizzare turisticamente il maniero, di spostare verso le “Pretecarrate” lungo il tratturello. Da tale località letinese poi il tratturello conduceva a Roccamandolfi, fino Bojano, e fu utilizzato da parte di una legione romana per piombare alle spalle dei guerrieri Sanniti di Bojano nella battaglia omonima del 305 a. C.. Il 2 gennaio 1927 Letino, Gallo Matese, Capriati al Volturno, Ciorlano, Fotegreca, Prata, sono comuni del Sannio Alifano, appartenuti alla provincia di Campobasso come testimonia il congedo militare di mio padre letinese.

L’idea di spostare il camposanto dal castello trovò non pochi contrari Letinesi, che come gli indiani d’America e gli Indios delle Ande, si opponevano alla modernità del passaggio della ferrovia e degli osservatori astronomici moderni. Non era male l’idea né quel Sindaco che, purtroppo, non è stato sufficientemente apprezzato e onorato per ciò ha saputo fare a Letino di nuovo e di moderno, rispetto ad un’Amministrazione paternalista precedente, prima monarchica e poi D. C.. Non ci sono notizie certe sulle origini e dunque la nascita dell’agglomerato urbano letinese (dai Sanniti Pentri, dai Romani, dai Longobardi, dai Greci, dai Goti e dai pastori transumanti), ma sembra che l’ultima ipotesi sia la più verosimile: il paesetto fu fondato da pastori che portavano le greggi al pascolo estivo sul Matese alto, e che vi sarebbero rimasti anche nei periodi invernali forse anche per le mogli e madri partorienti.

In un primo tempo, si stabilirono attorno alla chiesa di Santa Maria dell’Arco, poi a San Pietro, da cui si trasferirono verso l’attuale borgo di Letino, che pare destinato alla rapida estinzione demografica dopo del vicino Gallo Matese, ma le promesse del parco naturale (regionale prima e nazionale ora) fanno di nuovo sperare. L’ipotesi d’origine di Letino dalla Grecia trova riscontro nel costume e nella parlata locale oltre che dall’indole vivace dei Letinesi, un po’ più simile all’indole napoletana dei vicini Gallesi. Un gruppo di nobili guidati dalla principessa Letizia per sfuggire all’espansionismo e dominio degli Ottomani sia capitata sull’alta valle del fiume Lete e ne abbia apprezzato le qualità delle sue acque: fresche, dermatologicamente benefiche e dell’oblio. Dante Alighieri cita il Lete, dove Beatrice esce dal fiume che espia i peccati. Dal lago d’Averno all’alta valle del Lete, è più facile arrivarci lungo i tratturelli transumanti che si intravvedono ancora vicino al reperto fluviale del paleocorso del Lete, a forma di V sulle Rave di Prata S., dove c’è ancora il tratturello che portava ai prati sottostanti e ai più piccoli prati di Pratella. Virgilio nel libro VI dell’Eneide descrive Enea che dopo l’incontro con la Sibilla Cumana, per seppellire Miseno, va nella valle del Lete per incontrare il padre Anchise nei Campi Elisi. Il castello che sovrasta l’abitato attuale di Letino fu costruito dai Longobardi, molto probabilmente, durante il periodo delle invasioni dei Saraceni e dei Normanni, tra il VII e il IX secolo e divenne baronia e possedimento di vari feudatari; nel Medioevo appartenne ai Rainone di Prata, successivamente, nel 1168, per volontà di Papa Alessandro III, fu concesso in feudo alla Badessa di San Vittorino di Benevento. Dal 1329 e fino alla prima metà del sec. XVI, Letino divenne feudo della Baronia di Prata . Nel 1770 il feudo passò alla famiglia Carbonelli che mantenne il suo possesso fino al 1806, quando, Napoleone abolì i diritti feudali. Con la Restaurazione, Ferdinando I di Borbone rifondò il nuovo distretto di Piedimonte d’Alife, e Letino fece parte, insieme a Ciorlano, Pratella, Fossaceca, Gallo e Prata, del Mandamento di Capriati al Volturno fino al 1927, unito poi alla provincia di Campobasso fino al 1945. Indubbiamente le origini e la storia iniziale del casello letinese vanno comparate con quelle degli altri castelli più vicini citati prima.

Del 1195 troviamo le prime notizie attendibili del vicino castello di Roccamandolfi , anno in cui era in corso la guerra tra le truppe sveve dell’imperatore Enrico VI e quelle di Tancredi D’Altavilla, i quali si contendevano il Regno di Sicilia. Ma lo stesso feudo fu al centro della famosa guerra del Molise, nel 1221, quando il conte Tommaso di Celano, vi si rifugiò dopo aver lasciato al sicuro la propria famiglia e gran parte delle truppe al proprio seguito nel Castello di Bojano. Purtroppo la scelta non fu molto felice, il conte Tommaso dovette lasciare il castello durante la notte e rifugiarsi a Celano. Il castello subì così un lungo assedio, al termine del quale tutte le terre del conte di Molise furono confiscate. Anche l’altro castello, quello di Monteroduni, vicino a Letino va preso in esame. Monte di Roduni, forse dal nome di qualche longobardo che l’ebbe in possesso, fu abitato già prima del Mille ed il suo nucleo originario era di piccole dimensioni rispetto a quelle attuali. Si ha una prima notizia della fortificazione di Monteroduni all’epoca di Enrico VI quando Bertoldo di Kunsberg, alla testa di soldati tedeschi e fiorentini, assalì nel 1193 il castello che era tenuto dai fedeli di Tancredi. La cronaca utile è di Riccardo di S. Germano, che non dice nulla sulla struttura urbana di Monteroduni, ma è utile per comprendere come fosse importante il sito nell’ambito dell’organizzazione castellana della fascia mediana del Matese. L’attuale castello certamente non ha nulla a che vedere con l’originaria fortificazione longobarda, anche se con assoluta sicurezza ne occupa una parte fondamentale. Le mura originarie del Castello erano tipicamente mura difensive, molto spesse, e protette da ben cinque torri, una delle quali decisamente più grande ed imponente delle altre. La torre sul lato est del castello di Letino presenta ancora evidenti feritoie per la difesa. Il castello venne eretto dai Longobardi, ma successivamente lo svilupparono non poco e lo abbellirono gli Svevi. Il Catalogus Baronum, sebbene riporti in maniera assolutamente essenziale i dati relativi ad ogni feudo, è oggi uno dei documenti che ci potrebbe essere d’aiuto per comprendere l’importanza e, forse, anche la dimensione del feudo con la sua capacità economica nei primi decenni subito dopo la metà del XII secolo. Purtroppo, hanno accertato alcuni, i fogli originali del Catalogo sono andati perduti durante l’ultimo conflitto mondiale, ma se ne conosce il testo grazie alla trascrizione di Evelyn Jamison (Catalogus Baronum, pubblicato dall’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, a cura di Evelyn Jamison, Roma 1972) che lo pubblicò nel 1972 dopo aver revisionato le precedenti edizioni di Giuseppe Del Re ed altri. Il catalogo dei baroni Normanni riporta che il feudo di Letino era posseduto dai nobili Rainone di Prata. Di Rainone sappiamo che era stato feudatario del conte di Molise nel Principato di Capua, dunque altra notizia d’appartenenza culturale campana dei Letinesi. Nel gennaio del 1175 suo figlio Ugo promise a Pietro, abate di Montecassino ut amodo et semper ego et mei heredes taciti et quieti maneamus … de omnibus condicionibus, redditibus, serviciis, adjutoriis, et de tenimentis ac possessionibus del monastero di S. Maria in Cingla (E. Gattola, Accessiones, I). Alcuni ritengono che Letino contribuiva con un solo milite nel periodo che va tra la fine del regno di Ruggero II d’Altavilla e l’inizio del dominio di Guglielmo II. Comunque il nucleo abitativo già esisteva, non certo dall’Homo erectus “aesernensis” di 736 mila anni fa quando l’ambiente naturale era ben diverso dall’epoca delle genti del Sannio e successive. Sull’origine del castello letinese si possono fare ipotesi verosimili conoscendo anche che il più importante ducato longobardo dell’Italia centro meridionale fu il Ducato di Benevento, che si estendeva tra la più vasta Campania attuale, la Basilicata e la Puglia. A Benevento si trova uno dei 7 monumenti riconosciuti dall’Unesco: si tratta del Complesso monumentale di Santa Sofia e dell’omonima chiesa, della quale sono visibili alcuni affreschi originari, nelle due absidi laterali. Faceva parte del ducato di Benevento anche il Santuario di San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo (FG). Testimonianza della venerazione dei Longobardi per l’Arcangelo Michele, il Santuario è stato anche una delle principali mete di pellegrinaggio dei cristiani. A Bojano il pellegrinaggio a Monte Sant’Angelo salvò la cittadina dall’assalto dei Saraceni, che furono sconfitti anche per i Bojanesi, che parteciparono in migliaia all’attacco predatorio, non riuscito. Il castello di Letino ospitava in maniera permanente una guarnigione, che sorvegliava la zona dell’alto Matese. Il castello è di forma quadrangolare con lati lunghi tra i 40 e i 90 metri e ha subito radicali le trasformazioni nel corso dei secoli. Ciò che resta della poderosa cinta muraria è intervallata da cinque torri aventi pianta circolare. Le trasformazioni successive del castello di Letino hanno reso praticamente impossibile capire come fosse impiantato il primo nucleo. L’attuale utilizzazione cimiteriale dell’intera area all’interno della cortina muraria rende improbabile qualsiasi tentativo di ricerca archeologica. Non si conoscono elementi che possano far capire se in epoca angioina e aragonese il castello abbia avuto anche una funzione      residenziale. Secondo il venafrano, F. Valente “Le 6 torri che ancora sopravvivono aggregate alla cinta muraria possono essere ricondotte alle integrazioni angioine che caratterizzarono le architetture militari da fine XIII. Dobbiamo arrivare all’epoca dei Pandone, conti di Venafro e di buona parte delle terre dell’alta valle del Volturno, per avere qualche notizia sulle vicende del feudo. Nel 1413 le terre di Letino, Gallo, Pratella, Ciorlano, Capriati e Guardia di Campochiaro vengono assegnate a Francesco Pandone. Questi territori erano state confiscati a Filippo Sanfromonte, patrigno di Francesco, da re Ladislao Durazzo che lo aveva accusato di fellonia per essere passato al servizio degli angioini. Alla morte di Francesco il feudo dei Pandone fu diviso tra i vari figli, ma l feudo fu dato al nipote minorenne Scipione. Nell’elenco dei beni che passano per esecuzione testamentaria a Scipione, oltre Venafro, vi sono Boiano, Macchiagodena, Guardia di Campochiaro, Letino, Gallo, Prata, Pratella, Ciorlano, Capriati, Valle Agricola, Mastrati, Ailano, Fossaceca e Rocchetta. Da un rilievo presentato nel marzo del 1457 da Carlo de Roberto de Prata, procuratore di Margherita del Balzo, si può conoscere la rendita totale dei feudi, ma anche la popolazione delle singole comunità. Per Letino viene accertata una popolazione di 80 nuclei familiari, corrispondenti a circa 350-400 abitanti. Alla morte di Scipione, con un privilegio del 28 marzo 1492 i feudi che gli erano appartenuti furono concessi da Ferrante I d’Aragona al figlio Carlo. Durante la reggenza di Ippolita d’Aragona, madre dell’erede Errico Pandone ancora minorenne, furono approvati gli Statuti di Letino. Con l’approvazione delle norme municipali approvate il 18 dicembre 1506 anche Letino veniva dotata di uno strumento che dettava norme di igiene e di comportamento che si riferiscono ad una struttura urbana che ormai non corrisponde più all’originario nucleo del castello. Probabilmente in questo periodo, su quello che rimaneva delle strutture difensive, si è costruita la chiesetta di S. Maria al Castello, venerata la terza Domenica di settembre. All’interno della cinta muraria venne eretta intorno nel 1600 la chiesa di Santa Maria al Castello e nel 1888 il maniero diviene il camposanto dei Letinesi. Da lassù, si ha una ravvicinata veduta del laghetto di Letino a sud e più spettacolare del lago di Gallo Matese a nord. La chiesetta che venera Santa Maria al Castello venne ricavata a ridosso dell’ingresso e della cinta muraria ed inglobandone una parte nonché due delle cinque torri di difesa. La facciata è costituita da pietra locale, è a forma di capanna ed evidenzia un portale sovrastato da un piccolo oculo. All’interno, che si presenta a navata unica, si notano quattro altari per ciascun lato oltre il maggiore, in posizione dominante rispetto agli altri. Nel corso dei secoli il Castello e la chiesetta hanno subito numerose trasformazioni. La sentita e partecipata festività di Santa Maria al Castello di Letino, Regina del Matese, ricorre, annualmente, la terza domenica di settembre. Soprattutto per quell’occasione le donne di Letino durante la processione esterna che si snoda per l’intero paesino, indossano il costume tradizionale, che nel paese ancora oggi sopravvive, sfoggiato dalle donne in particolare durante le manifestazioni folcloristiche e religiose. L’attaccamento dei letinesi al culto più per la Madonna a Castello che per San Giovanni, il Patrono, deriverebbe dalla religiosità prima dei Sanniti e poi dei Longobardi. I Sanniti erano politeisti e adoravano una dea che stava sulle nuvole del Matese e faceva piovere se necessario per i raccolti. Spesso i gallesi prendevano in prestito la Madonna letinese per fare processioni propiziatorie per la pioggia estiva. Tale dea è stata adorata dallo scrivente a Bojano, in veste di Sacerdote Sannita che sposava i guerrieri Pentri, distintisi in battaglia, durante il Ver Sacrum della Fondazione di Bojano (7 mila giovani Sabini, a seguito del toro sacrale, migrarono ”Primavera Sacra” alle falde settentrionali del Matese, VIII sec. a.C. e fondarono Bojano). Sulla religiosità iniziale dei letinesi si è gia scritto nel saggio “Letino tra mito, storia e ricordi”, presentato al municipio letinese il 14 agosto 2009. Mancherebbe la presentazione del nuovo saggio “Piedimonte M. e Letino tra Campania e Sannio”, che il municipio di Piedimonte M. ha patrocinato, due anni fa, ma con scarsa partecipazione degli indigeni, che l’Assessore non ha saputo contattare. Come già scritto, ribadisco che la cristianizzazione dei Longobardi a Letino non fu facile né immediata, come lo fu più per Alife, Bojano, Caiazzo, ecc. (dove Roma, più di Letino, aveva impresso la propria struttura architettonica in modo diffuso e dominante). I Longobardi poichè quei popoli praticavano il paganesimo e veneravano divinità femminili legate alla fertilità e alla terra. Dopo adottarono il culto di dei maschili di ispirazione guerriera come Odino. In seguito, durante lo stanziamento tra Norico e Pannonia, si avviò il processo di conversione al cristianesimo. L’adesione alla nuova religione all’inizio fu superficiale e strumentale all’alleanza con i Bizantini; tra la popolazione continuava infatti a sopravvivere la religione pagana. Re Alboino abbandonò il cattolicesimo per abbracciare l’eresia ariana, al fine di ottenere l’appoggio dei Goti ariani contro gli stessi Bizantini. L’affermazione del dominio in Italia e il contatto con la civiltà romana indussero i Longobardi ad una lenta conversione al cattolicesimo che ebbe come promotrice la regina Teodolinda (VI-VII secolo). Ma i Longobardi non perdettero del tutto la propria tradizione culturale, come dimostra ad esempio la diffusione del culto di San Michele, il “guerriero di Dio”, particolarmente caro al ceto guerriero, venerato come santo nazionale nel santuario di Monte Sant’Angelo sul Gargano. Il fiume Lete, noto anche per la pubblicizzata e venduta acqua omonima di Pratella, ha un nome altisonante della storia epica, letteraria e poetica: l’acqua dell’oblio o della dimenticanza. Perché non dirlo? Il fiume circa 2 milioni di anni fa scorreva dall’alto delle Rave di Prata Sannita, dove c’è il reperto fossile geomorfologico a forma di V o valle fluviale. Poi le acque del Lete hanno scavato un percorso di sbocco ad alcune decine di metri più in basso nella montagna carsica formando un sistema magnifico di grotte ricche di stalattiti, stalagmiti e di colonne d’alabastro. Le grotte di Caùto sono situate quasi a ridosso della diga del Lago, sul lato sudovest, su due piani paralleli distanti mediamente 90 metri l’uno dall’altro. La galleria superiore si incunea nella montagna e presenta folta vegetazione e molte piccole cascate del fiume che precipita verso la Valle del Volturno. Nel 1986 sull’Annuario dell’ASMV (Associazione Storica del Medio Volturno, con sede a Piedimonte M.) nel predisporre l’articolo “Per un Museo del Paesaggio del Matese”- dove prevedevo la sezione ambientale e sociale per la sede museale di Roccamandolfi e speleologica per Letino- mi imbattei quasi per caso nel settoriale studio di Generoso Patrone: ”Piano di assestamento del bosco di Roccamandolfi nel quindicennio 1971-85”, Tip. Coppini, Firenze 1970. Lessi anche di L. Ranieri “La media e alta valle del Biferno, studio antropogeografico”, C.N.R, Roma 1956 nonché C. Colamonico, Tracce glaciali sul Matese” XI Congresso Geografico Napoli 1930. Colamonico descrisse il ghiacciaio fossile di Campitello Matese e del “Fosso Folubrico” a nordovest della vetta matesina di Miletto e l’alta valle del Lete col reperto fluviale del paleocorso del fiume Lete a forma di V sopra le grotte di “Cauto”. Il roccolano Domenico Pinelli, mi ha consigliato di leggere del suo paese cosa ha scritto Berlingieri. Da quella lettura un pò lugubre e dannosa per Roccamandolfi ho deciso di scrivere qualcosa di più edificante e soprattutto di vera ed oggettiva. L’etimologia di Roccamandolfi è di origine longobarda, ovvero Rocca di Maginulfo, nel 1737 il toponimo divenne Roccamandolfi. Per Roccamandolfi l’ambiente biofisico è esteso 59,3 kmq (Letino ne ha solo 31,67) e l’ambiente sociale di ieri (1901) è stata di 3276 persone e di oggi di circa 1000. Pochi sono gli studi delle scienze naturali su Roccamandolfi come per Letino, Gallo Matese, San Gregorio Matese, Castello Matese, Cantalupo, San Massimo, Bojano, ecc.. Se ne citano alcuni sporadici: G. Petrone, già precisato e Luigi Boggia (Il bosco del Matese e la sua difesa in Annuario 1977 dell’ASMV) nonché Attilio Capparelli (Matese, vocazioni e prospettive, Edagricole 1970). Lo scrivente ha scritto di Roccamandolfi e del suo “Campitello”, dell’“Erba di San Giovanni” dei suoi boschi e delle connessioni con Letino come la canzone letinese “L’acqua di Capo Lete”, uguale alla canzone roccolana “L’acqua della Trainara” anche se gli scripotorum loci sentono dire e scrivono di canzoni tipiche di Letino, Roccamandolfi o Bojano con “L’acqua di Sant’Egidio” ritenuta, erroneamente, bojanese al 100%. Per Roccamandolfi i moltissimi boschi di faggio in passato hanno subito contrazioni delle superfici boscate ogni volta che si poteva fare spazio a destinazioni di uso del territorio ritenute più redditizie come al locale Campitello, ma anche Letino lo ha un Campitello oltre il più rinomato di San Massimo. Il fare posto ai campitelli è accaduto per favorire l’agricoltura che è stata esercitata soprattutto dopo la scoperta dell’America e l’importazione di patate andine. La città più vicina a Letino in epoca Sannita era Bojano, capitale dei Sanniti Pentri. Tra i primi scrittori di Bovianum vetus si cita lo Storico patavino,Tito Livio. Egli nel IX libro della Historia, al cap. 31, scrisse: “Caput hoc erat Pentrorum Samnitium longe ditissimum atque opulentissimum armis virisque” (Questa era la capitale dei Sanniti Pentri, di gran lunga la più ricca e la più potente per armi e per uomini). Plinio il Vecchio, scrisse: ”colonia, Bovianum vetus, et alterum cognomine Undecumanorum” e trasse in inganno trasformando la parola “colonia” in “coloniae”. Momsen sentenziò, rompendo il luogo comune che il tedesco non sbaglia, che il paesino di Pietrabbondante (IS) era la sede dell’antica Bovianum. Il nome di Bojano attuale, dopo la conquista di Roma fu Bovianum undecumanorum, ma prima era Bovianum vetus (almeno secondo il canadese E. T. Salmon, i piedimontesi D. B. Marrocco e l’Avv. A. Palmieri oltre ai bojanesi e dintorni: M. Campanella, V. Colozza, A. Dell’Omo, P. Di Petta, O. Gentile, O. Muccilli, M. P. Pettograsso, E. Spensieri, A. Spina, F. Tavone (mentre il Tedesco T. Momsen, A. Di Iorio ed altri, la capitale dei Pentri è da localizzare a Pietrabbondante, dove vi è un teatro Sannita eccezionale). Per capire meglio Roccamandolfi di ieri e di oggi andrebbero esaminati i flussi di relazioni tra roccolani con letinesi, gallesi, cantalupari, bojanesi e con i roccolani emigrati. Lo studio non è semplice né breve e forse anche non esaustivo perché l’epoca in cui viviamo sta modificando velocemente i flussi relazionali e determinandone dei nuovi anche molto distanti e i giovani col computer familiare lo sanno bene e meglio degli anziani, non sempre più saggi di loro. Del passato roccolano esistono studi sul castello medievale e sul brigantaggio pre e postunitario. Emilio Spensieri, con la sua elevata sensibilità “pascoliana” di descrittore dei paesaggi molisani –l’ho conosciuto a Vinchiaturo, dove definì Letino ”Gemma incastonata sull’alto Matese”- e nel suo saggio “Itinerari” scrive che “Sulla montagna roccolana non vagano più le ombre dei briganti: greggi, mandrie e pastori le hanno scacciate per sempre”.

Spensieri non era favorevole all’emigrazione (forse perché si era sistemato bene con il posto comunale), e dei roccolani scrive ”Il poco della popolazione rimasta lavora e produce come può…i più pazienti e perseveranti sono rimasti e più che all’agricoltura, poverissima perché abbarbicata in prevalenza alla brulla roccia calcarea della montagna, tengono in vita la pastorizia che costituisce ancora un fattore economico positivo al quale attingono con fiducia, perché remunerativo sia per i prodotti caseari per la lana”. A Letino, tra i pochi pastori rimasti, si segnala l’azienda casearia “Fattoria Ferritto” di Ettore Giambattista (nome del nonno materno, sposato ad una roccolana). Leggendo scritti sul maniero roccolano spesso l’epica storica si mescola con la realtà e tutti inneggiano all’eroina Giuditta, che forse incarnava il carattere fiero e dinamico delle roccolane così come le ho conosciute a Letino perché maritate con letinesi della prima metà del 1900. A Bojano, +Tonino Gianfracesco, mostrava in piazza Roma una sua collezione di vecchie fotografie, che pubblicò anche. Ricordo che una mi colpì in modo speciale: vi erano ritratte delle donne di Bojano a servizio di una famiglia di Roccamandolfi e non viceversa. Lo facevo notare spesso ai non pochi bojanesi,“affetti da morboso campanilismo” come scrive S. Brunetti nella presentazione di un mio citato saggio. Roccamandolfi, a differenza del vicino Cantalupo del Sannio, non ha uomini illustri del passato, ma di fatti veri si come quelli raccolti dal saggio di Clorinda Colalillo “Ricordare per non dimenticare”, moglie di Pietro Pettograsso, che a pag. 83 e seguenti scrive di Roccamandolfi e dei suoi  caduti in guerra d’Africa del 1895-96, in guerra di Spagna 1936-39, nella Grande Guerra del 1915-18, nell’ultimo conflitto mondiale e le vittime civili roccolane durante i bombardamenti nel settembre 1943. Per capire il castello di Letino come di altri del medesimo periodo storico, bisogna  ipotizzare un po’ l’evoluzione della società longobarda. Il rapporto con gli indigeni inizialmente fu di  conquista non facile, ma col passare del tempo si manifestarono segnali di cambiamento, soprattutto dopo la conversione al cattolicesimo. I Longobardi cominciarono ad integrarsi con le vecchie èlites romane, che gradualmente accettarono la loro presenza. Queste erano soprattutto ad Alife, Bojano, Caiazzo.

Gli ultimi re longobardi, Liutprando e Ratchis, intensificarono gli sforzi per l’integrazione presentandosi sempre più come re d’Italia anziché re dei Longobardi. Al loro arrivo in Italia i Longobardi erano un popolo in armi guidati da un’aristocrazia di cavalieri e da un re guerriero eletto tra le fila dell’esercito. La struttura sociale era basata sulle farae, clan aristocratici militari, a capo delle quali c’era un duca che comandava gli arimanni, uomini liberi appartenenti al ceto aristocratico, legati a lui da vincoli di parentela. Alla base della scala sociale stavano i servi che vivevano in condizioni di schiavitù, mentre ad un livello intermedio gli aldii, uomini semiliberi che svolgevano il servizio militare come soldati di fanteria, arcieri e scudieri. In Italia le farae si insediarono sul territorio respingendo ogni commistione con la popolazione latina e mantennero inalterati tutti quei caratteri che li distinguevano sia dai Bizantini che dai Romanici (la lingua, la religione pagana, una struttura sociale fortemente militarizzata), ben documentati dai corredi delle prime necropoli. Le città, sede dei duchi, divennero essenzialmente centri militari di controllo del territorio. Le campagne invece vennero organizzate sulle arimannie: territori rurali gestiti da arimanni che curavano, oltre all’aspetto militare, le risorse economiche e produttive impiegando manodopera contadina indigena. Con il progressivo consolidarsi del potere longobardo, la struttura politica basata sul sistema dei ducati si rafforzò: ogni ducato era guidato da un duca, non più solo capo di una fara, ma funzionario regio con poteri pubblici, affiancato da figure minori come i gastaldi e, nell’VIII secolo, i gasindi. Il re, da capo militare, divenne gradualmente un sovrano capace di rappresentare istituzionalmente l’intero popolo di fronte all’Impero bizantino, al Papato e ai Franchi. Il regno longobardo da occupazione militare si trasformò in uno Stato con una società differenziata e una gerarchia legata alle proprietà fondiaria. La conversione al cattolicesimo e la redazione di un corpo di leggi scritte in latino (Editto di Rotari) segnarono la fine delle consuetudini barbariche e posero le basi per la formazione di una società basata sulla proprietà terriera, sull’unione matrimoniale e sul diritto ereditario. La storia dei Longobardi in Italia, inizia nel 568 quando penetrarono in Friuli e utilizzarono le strade romane. Prima di partire, Alboino invita i Sassoni ad unirsi alle sue schiere (risponderanno positivamente in oltre 20.000, compreso donne e bambini) e stringe un patto con gli Avari in base al quale quest’ultimi si impegnano ad accogliere di nuovo i longobardi qualora la loro impresa fosse fallita. Si tratta di un vero e proprio esodo. Paolo Diacono racconta che “i longobardi lasciarono la Pannonia con mogli, figli e bagagli per occupare l’Italia. Quando Alboino decide di invadere l’Italia, la società longobarda è ormai guidata da una ricca e rampante aristocrazia militare, arricchitasi coi bottini dei popoli sconfitti e fiduciosa nella propria capacità di conquista. Attorno a questa sorta di oligarchia militare, portatrice e incarnazione della tradizione nazionale, si raduna il resto della popolazione, secondo il principio indoeuropeo del “seguito”, ovvero della dipendenza di natura militare e parentale, un seguito che i longobardi definivano Fara e che era “un’associazione in movimento (Jarnut), una comunità in viaggio dei guerrieri e del loro seguito familiare. Il Ducato di Benevento è stato esaminato, fin dal 1871, da Hirsch nella sua opera intitolata appunto “Il Ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo”..Hirsch dava per scontato che Zottone, il primo duca longobardo di Benevento, facesse parte delle orde guidate da Alboino che penetrarono in Italia dall’attuale Friuli nel 568 e che se ne fosse staccato intorno al 570 in seguito alla discesa verso la Tuscia, raccontata anche da Paolo Diacono nella Historia Langorbardorum, fonte che si limita a certificare soltanto che il primo duca di Benevento fu appunto Zottone ma che tace sulla natura della sua fondazione. Zottone potrebbe essere stato insignito del titolo di dux proprio dalla gerarchia militare tardo-romana per le specifiche funzioni di capo dei federati di Bisanzio, egli non fu un duca in senso territoriale e probabilmente non ebbe il pieno controllo delle bande che dopo il 576 e ancor più dopo il 590, allorché si concluse senza esito il secondo tentativo di conquista bizantino, si impadronirono, ormai sotto la guida di Arechi I, di buona parte del mezzogiorno continentale”. Molti sono i reperti longobardi a Benevento.

Il Ducato di Benevento era un’entità politica con una forte componente militare etnicamente non omogenea che però è minoritaria rispetto alla pur esigua popolazione autoctona, con la quale i longobardi devono fare i conti, finendo per accettarne la religione e moltissimi elementi culturali. Il ritrovamento più importante, è quello della necropoli di Campochiaro (ad ammirare i reperti di cavalieri Longobardi, era presente, nel 1989, anche lo scrivente che insegnava a Campobasso ed abitava a Bojano) ecc, nei pressi di Bojano, è del resto una necropoli di Bulgari, quasi certamente il gruppo militare guidato da Alzeco, di cui parla anche Paolo Diacono, che si sarebbe insediato nel Ducato di Benevento in seguito alle vicende del 663, data dell’invasione di Costante II, con chiari compiti di presidio e controllo del territorio, certificato dal fatto che le due necropoli si trovano proprio a ridosso del tratturo Pescasseroli-Candela che doveva costituire una fondamentale via di transito. La particolarità di tali necropoli è la sepoltura contestuale di cavalieri con i propri cavalli bardati, esemplari anziani che testimoniano la proprietà e l’uso del cavallo da parte dell’inumato, insieme ad un grande numero di armi, presenti anche in alcune tombe senza cavallo. In particolare, la pratica dell’inumazione contestuale di cavallo e cavaliere, sembra essere il tentativo da parte di questa comunità di conservare un legame con le proprie origini e tradizioni etniche, dato che il resto dei corredi testimonia una accentuata mescolanza di elementi longobardi, bizantini e tardo-romani. Nel territorio di Campochiaro (CB) si rinvennero di epoca longobarda due interessanti necropoli a breve distanza, Vicenne e Morrione. Vicino alle cave di calcare per il locale cementificio, ho visto necropoli sannite con la guida locale, A. G. Del Pinto, appassionato di storia ed archeologia dall’Acquila fino a Bojano, dov’è anche cittadino onorario.

Le due necropoli, situate al lato del tratturo Pescasseroli-Candela, hanno restituito centinaia di sepolture maschili, femminili e infantili. Esse sono tutte di tipo a fossa, disposte per file parallele, orientate in senso ovest–est. Il corredo è composto da oggetti di ornamento, armi e vasi (brocchette), quello personale include, per le donne, collane di pasta vitrea e di ambra, pettini di osso e soprattutto orecchini d’oro, d’argento o di bronzo, tra i quali si impongono i cosiddetti orecchini a globetti, di tipo avarico. Un numero limitato di sepolture è eccezionale per forma, rito funebre e oggetti di ornamento: si tratta di tombe di cavalieri seppelliti con a fianco i loro cavalli. Il corredo di tali tombe è molto ricco e include, tra l‘altro, cuspidi di freccia e di lancia, cinture con pendenti ageminati in argento, spade a uno o a due fendenti, umboni di scudo e, per il cavallo, testiere, borchie, morsi, staffe. La predominanza della componente militare nel Ducato beneventano è testimoniata anche dalle modalità di insediamento: nei primi anni i Longobardi si insediano o in luoghi già fortificati o in luoghi facilmente fortificabili, limitando l’azione costruttrice a opere in legno o al reimpiego, sempre di carattere militare. L’opera di fortificazione militare, che spesso doveva limitarsi ad una torre lignea, rispondeva alle esigenze di controllo delle principali vie di accesso alla valle beneventana, dei centri strategici e delle principali vie di transito, per cui il meridione viene disseminato di Hari-Berg, ovvero presidi militari che spesso diventano punti di attrazione sociale. Dopo la conversione al cristianesimo le opere di reimpiego iniziano a coinvolgere la sfera religiosa e ben presto si passa a costruzioni ex-novo sia civili che militari. In seguito alla Divisione del Ducato nell’849 tra Siconolfo, principe di Salerno, e Radelchi, principe di Benevento, si avvia una lenta e costante fortificazione delle linee di confine tra i due principati, spesso utilizzando fortificazioni pre-esistenti. A Siconolfo vengono ceduti i gastaldati di Taranto, Cosenza, Cassano, Capua, Sora, Conza, Montella, Cimitile, Teano, Sarno, Salerno e mezza Acerenza (comune quest’ultimo dove c’è la tomba del Principe Vlad III detto Dracula, là sepolto dalla figlia Maria maritata al conte Ferrillo). Ai beneventani restano i possedimenti orientali, non specificati, ma tra cui dovevano esservi senza dubbio Lucera, Larino, Bari, Telese, Canosa, Bojano ecc., con la già famosa Grotta di Michele Arcangelo sul Gargano. In particolare, come detto, i gastaldati di confine vengono considerati strategici e si avvia sia la fortificazione di tali siti sia la costruzione di ulteriori presidi militari, nuove opere che sono ancora ben visibili negli attuali comuni di Bagnoli Irpino, Cervinara, Nusco, Sant’Angelo dei Lombardi. Attorno a questi insediamenti fortificati a carattere militare, sorgeranno negli anni centri con forme urbane molto diverse rispetto alla urbe romana. Tali insediamenti fortificati riescono spesso ad integrare al proprio interno anche attività agricole pre-esistenti in loco, diventando una sorta di villaggio produttivo fortificato, come nel caso di Montella, la cui esistenza come centro produttivo è certificata da un diploma di Arechi II del 762. Infine occorre ricordare come la componente militare della società meridionale non fosse prettamente longobarda ma fosse invece composta da diverse etnie, di cultura prevalentemente germanica, ma con numerose presenze di altre culture, come testimoniato dalle cronache che parlano di Slavi, Bulgari, Saraceni e successivamente Normanni. Del resto la società longobarda era da sempre meritocratica ed aperta all’ingresso di elementi dalle chiare doti militari, come testimoniato dalla ben nota pratica della liberazione degli schiavi e dal caso di Droctulfo, Duca di Brescello, originario dei Slavi o Alamanni, cresciuto tra i longobardi che poi tradirà la propria gens di adozione e passerà dalla parte di Bisanzio. Il ricorso a gruppi armati non longobardi per il controllo del territorio è certificato proprio dal caso dei Bulgari di Alzecone e questa pratica può giustificarsi solo con l’esiguità della gens langobardorum rispetto alla popolazione generale. Quando poi i longobardi meridionali si divideranno tra beneventani e salernitani e questi tra salernitani e capuani, il ricorso a gruppi armati non longobardi si intensificò necessariamente per via del perdurare del conflitto a cui solo Landolfo Capodiferro riuscì a porre fine per un periodo limitato. Così i longobardi meridionali, per farsi la guerra tra loro, ricorsero ai Saraceni, la cui presenza divenne poi un serio pericolo per tutto il meridione, dato che riusciranno ad insediarsi a Bari, dando vita ad un Califfato che durò fino all’871, e in maniera ancor più minacciosa tra la foce del Liri e quella del Garigliano, sulle pendici del Monte Argento nei pressi di Scauri/Minturno, dove tennero una inespugnabile roccaforte fino al 951 quando vennero sconfitti da un’alleanza militare guidata dal Papa. Proprio intorno all’860-70 deve essere fuggita la piccola corte della principessa greca Letizia che si rifugiò nell’alta valle del Lete. Questo è il periodo più adatto per sfuggire ai saraceni, ma anche per essere protetta dai Longobardi che già dominavano la valle del Volturno medio ed alto. Debellato il pericolo saraceno, per proseguire la guerra civile, i longobardi meridionali iniziarono a ricorrere ai Normanni, i quali poi conquisteranno quell’entità politica che era stato appunto il Ducato di Benevento, riuscendo a ricomporre il frazionamento politico che i longobardi aveva determinato in seguito alla guerra civile iniziata già prima della Divisio Ducatis dell’849. In definitiva, i longobardi meridionali si caratterizzano per una predominanza dell’elemento militare, il quale determina sia la nascita del Ducato di Benevento, in un periodo di grande instabilità politica, sia la lenta, sanguinosa e inesorabile dissoluzione. Nel medievo questo elemento militare funse da catalizzatore per la rinascita e la ridefinizione interna di centri urbani di eredità tardo-antica o per la fondazione ex-novo di borghi fortificati che servivano da serbatoio di raccolta delle popolazioni che si riallocavano in seguito alla scomparsa dei vecchi centri tardo romani. Tito Livio, parla di una fiera e battagliera popolazione nella zona nord della Campania; queste popolazioni erano chiamate Montesi da cui, secondo alcuni, il nome della zona. Intorno al 600 d.C., come risulta dalle “Cronache Cassinesi” conservate nella biblioteca di Monte Cassino, Romualdo duca di Benevento, accoglie, sotto ordine del padre Grimoaldo, re d’Italia, un gruppo di bulgari che, spinti dall’incalzare di altri popoli lasciarono l’Asia e, attraverso le alpi, scesero in Italia. Infatti nel 660, Knaz Altzek (altre volte è chiamato Altzecone o Altceko o Alzeco, ma la scrittura originaria è Altzek), con le sue tribù di Kutriguri, (famosa era la sua cavalleria) aveva seguito suo fratello maggiore Khan Kuber e le sue armate, nella regione di Sirmium, città della Pannonia inferiore, sultanato àvaro di Pannonia, in Bulgaria (oggi in Ungheria). Altzek ed il Han degli Avari si scontrarono con i loro eserciti per il controllo delle terre, sogno comune dei popoli delle steppe, perché ricche di acqua, utili per l’agricoltura, gli eserciti ed in posizione favorevole ed intermedia tra grandi potenze. Durante lo scontro sanguinoso, Khan Kuber, fratello maggiore di Altzek, rimase neutrale. I Bulgari, nonostante il loro valore furono sconfitti dagli àvari e dovettero abbandonare la Pannonia, per sfuggire alle vendetta dei vincitori. Paolo di Warnefrido, detto Paolo Diacono, nato a Cividale del Friuli nel 720 e morto a Montecassino nel 799, nel V libro della sua Historia Langobardorum, infatti narra che “in questi tempi un condottiero di bulgari chiamato Alzeco, uscito non so per quale ragione dalla sua patria, se ne venne in Italia con la sua tribù e si presentò al re Grimoaldo chiedendo terre in cambio di servitù. Il re lo manda da Romualdo suo figlio, duca di Benevento, che gli diede molte terre per dimora allora deserte nel ducato, tra cui Sepino, Boiano ed Isernia…” e che avevano cominciato a parlare “latino” anche se “non hanno dimenticato l’uso della propria lingua”. A ulteriore conferma di tutto ciò vi è la necropoli bulgara ritrovata a Vicenne-Campochiaro (CB) risalente al VII secolo. La datazione al VII secolo è stata confermata, durante gli scavi diretti dalla Sovrintendenza del Molise tra il 1988 ed il 1991, dalla scoperta di monete d’oro e d’argento databili non più tardi del 650-680 d.C. Gallo Matese ed altri comuni, escluso Letino, potrebbero essere d’origine bulgara comunque rimane il dubbio di quale fossero esattamente le terre in cui si stanziarono i bulgari ed il luogo della dimora principale di Altzek: se, come sembra, la necropoli di Vicenne-Campochiaro conserva i resti del condottiero bulgaro allora, contrariamente a quanto afferma il Mattei, si ha la dimostrazione che Gallo non è stato abitato dai bulgari o, al più, lo è stato solo marginalmente visto che tra di esso e la necropoli vi sono molti chilometri e, soprattutto, il massiccio del Matese; al contrario, se nella necropoli di Vicenne-Campochiaro non vi sono i resti di Altzek ma di altri bulgari, allora a Gallo, da qualche parte, vi sono forse delle tombe bulgare ancora da scoprire. Occorre fare chiarezza su questo punto, perché i tratti somatici dei gallesi e alcuni termini tartari nel dialetto gallese, non sono sufficienti a dimostrare la discendenza dei gallesi dai bulgari. Dunque il castello di Letino venne costruito tra il 650 ed il 750 d. C. in epoca longobarda. A Letino il lato sud della chiesa di San Giovanni Battista è del 1200, mentre si sa che nel 1195-‘96 fu  assediato il castello di Roccamandolfi dall’imperatore Enrico VI, per aver fornito ospitalità al Conte di Molise Ruggero della Mandra. Il feudo di Roccamandolfi appartenne nel periodo longobardo alla contea di Bojano mentre sotto la dominazione normanna fu di proprietà della Contea di Molise. Molte famiglie feudali si succedettero nel possesso del feudo: gli Artois nei primi anni del 1300, la famiglia Gaetani di Piedimonte d’Alife nella metà del secolo XV, e poi i Perez, i Ricci ecc..

La famiglia Pignatelli per oltre 200 anni fu l’ultima titolare della signoria prima dell’abolizione napoleonica del 1806. Nel filone dei grandi Merdionalisti, tra gli altri apprezzo C. Maranelli che insegnò Geografia Economica a Campobasso e B. Finocchiaro, che hanno scritto di Questione Meridionale non piagnona. Nel 1861 Roccamandolfi registrava 2833 residenti, 3276 nel 1901 (massimo demografico), 2174 nel 1951, 1409 nel 1971 fino a quasi 1000 attualmente. Nel 1929 alla “I Sagra del Matese”, che si svolse a Campitello Matese, le roccolane e le letinesi furono premiate per sapere cavalcare bene gli equini e le donne letinesi erano le uniche a calzare ancora “ri zambitti”, scarpe simili alle ciocie. Per approfondire lo studio sul castello di Letino ed altro è bene precisare che a Boiano nel 1053 esisteva, al posto dell’ex Gastaldato, la Contea Normanna con a capo Rodolfo con i suoi cavalieri e il Vescovo di Boiano Uberto. Rodolfo amò farsi chiamare col nome del paese di provenienza, Rodolfo de Moulins da cui il nome Molise: ”XX Regione, appena nata è stata lunga, lunga, la nottata”, poetava un prof. di Sepino anni fa nel suo volumetto poetico “all’andrasatta”, scritto da Bologna. A Rodolfo successe il figlio Ugo I nel 1095 e a questi il fratello Roberto come reggente del nipote Simone fino al 1128, in questo periodo la contea di Boiano estese molto i confini per controllare meglio sia il Principato di Capua e il Ducato: le fortezze di Boiano, Roccamandolfi, ecc. controllavano le strade conducenti a Capua e a Terra di Lavoro. La Contea Normanna di Boiano divenne importante fino al 1160-1196 anche per essersi imparentata con col re Ruggero II e la figlia del conte Ruggero, Giuditta. La contea poi passò a feudatari tedeschi come Markward von Auweiler fino al 1202 con l’incoronazione dell’Imperatore Federico II.  Nel 1221 Federico II, tramite Tommaso d’Aquino conte di Acerra, che possedeva anche Piedimonte d’Alife, fece attaccare il castello, quasi inespugnabile di Roccamandolfi, dove Giuditta seppe resistere per molto tempo, ma nel 1223 cedette accordandosi direttamente con Federico II che gli lasciò la contea ad eccezione di Rocca Boiano dove mise un suo fedelissimo di casa Sveva, Corrado di Hohenlohe, che lo aiutò a combattere le truppe del Papa Gregorio IX e Innocenzo IV fino quasi all’arrivo degli angioini, i quali alla corte di Carlo d’Angiò gustarono le trote del Biferno pescate a Boiano. Successero altri feudatari e nel 1445 Francesco Pandone scambiò con i Sanfromonte il feudo di Spinete con i feudi di Capriati e Gallo. Ecco che appare più legato alle vicende storiche molisane Gallo e non Letino, forse per le diverse diocesi che ne amministravano non solo le anime, ma il registro demografico, ecc.? Letino appare più legato alle vicende storiche campane d’Alife prima e Piedimonte Matese dopo.. La popolazione soprattutto intorno ai fenomeni migratori più intensi era al massimo nel 1951 poco più di un secolo prima. Comunque il fenomeno migratorio interessa 1600 piccoli comuni italiani, pari al 20% circa del totale, come Letino che non è tra i comuni piccolissimi, mentre lo è Ciorlano restando in area matesina. Tra il 1526 e il 1530, la peste fece vittime anche a Letino e la carestia del 1764 non risparmiò i poverissimi come si può notare dall’evoluzione della popolazione dal 1532 al 2001 citata con istogramma nel mo saggio citato, più volte.

 

Giuseppe Pace

Scisciano Notizie è orgoglioso di offrire gratuitamente a tutti i cittadini centinaia di nuovi contenuti: notizie, approfondimenti esclusivi, interviste agli esperti, inchieste, video e tanto altro. Tutto questo lavoro però ha un grande costo economico. Per questo chiediamo a chi legge queste righe di sostenerci. Di darci un contributo minimo, fondamentale per il nostro lavoro. Sostienici con una donazione. Grazie.
 
SciscianoNotizie.it crede nella trasparenza e nell'onestà. Pertanto, correggerà prontamente gli errori. La pienezza e la freschezza delle informazioni rappresentano due valori inevitabili nel mondo del giornalismo online; garantiamo l'opportunità di apportare correzioni ed eliminare foto quando necessario. Scrivete a [email protected] . Questo articolo è stato verificato dall'autore attraverso fatti circostanziati, testate giornalistiche e lanci di Agenzie di Stampa.